«Baarìa» Di Giuseppe Tornatore

Troppa carne al fuoco. È il rimprovero che è stato mosso esplicitamente o tra le righe dai critici al film Baarìa di Giuseppe Tornatore, presentato lo scorso settembre alla Mostra di Venezia e favorevolmente accolto dal pubblico nelle sale cinematografiche.

«Baarìa» Di Giuseppe Tornatore

da Quaderni Cannibali

del 09 dicembre 2009

 Accolto con pareri discordanti alla Mostra del cinema di Venezia lo scorso settembre, Baarìa di Giuseppe Tornatore è un bel film che tratteggia con pennellate rapide ed efficaci la storia di Bagheria, un paese alle porte di Palermo, lungo l’arco dell’intero Novecento. Filo conduttore del film è l’avvicendarsi di tre generazioni nell’ambito della famiglia Torrenuova, che adombra in qualche modo quella del regista. Ai personaggi centrali si affianca una folla di personaggi secondari, tutti ben caratterizzati, interpretati talvolta da attori di prestigio. La «magia» del cinema restituisce all’ambiente il fascino che aveva prima delle trasformazioni che lo hanno reso irriconoscibile.

 

La storia di un paese

 

Film corale, Baarìa narra la storia di un paese (Bagheria, alle porte di Palermo, Baarìa nel dialetto locale), che si protrae dall’inizio alla fine del Novecento. Poveri ma fantasiosi, i suoi abitanti, che il film tratteggia con pennellate rapide ed efficaci, lottano per sopravvivere alle avversità determinate da una penuria atavica, che ha le radici nell’ineguale distribuzione delle risorse naturali elargite con abbondanza dalla mano di Dio in una delle zone più ricche e belle della Sicilia. Tra ville principesche e giardini che profumano di zagara, Bagheria potrebbe essere considerata come un paradiso terrestre. Ma la legge non scritta, che vige in questo luogo dal tempo dei tempi, vuole che chi nasce povero debba morire povero. I ricchi, oltre che potenti, sono prepotenti. Don Giacinto, prototipo del proprietario terriero, si presenta sempre spalleggiato dai suoi scagnozzi. I mafiosi vigilano sull’immutalibiltà di un assetto sociale ingiusto e sulla gestione degli affari, che va sempre a vantaggio di chi sta in alto, e a scapito di tutti gli altri.

 

Filo conduttore del film è la storia della famiglia Torrenuova. L’episodio più antico, tra quelli che vengono evocati, è l’uccisione del padre di Sarina all’inizio del secolo. Opera di mafiosi, il delitto è rimasto impunito. Sarina (Angela Molina), sposata con Luigi (Valentino Picone), è madre di Mannina (Margareth Madè), una splendida ragazza che sposa Peppino Torrenuova (Francesco Scianna), figlio di Cicco e padre di Pietro, un ragazzo nel quale il regista vede rispecchiarsi gli anni della propria giovinezza. Questa è l’intelaiatura del racconto. Ma, mentre i bambini nascono e crescono, e gli adulti invecchiano e muoiono, sulla scena di Bagheria, sul corso che conduce alla piazza antistante la chiesa Matrice, si avvicendano le date storiche che hanno segnato la vita del «secolo breve». Le parate fasciste degli anni Trenta, che il popolo stigmatizza con sapidi sfottò. La partenza dei giovani per la guerra. I bombardamenti. Lo sbarco degli americani. Il referendum tra monarchia e repubblica... La vittoria della repubblica viene festeggiata con un ballo, organizzato dal partito socialista, nel quale gli uomini ballano con gli uomini e le donne con le donne. La tradizione del luogo aborrisce ogni forma di promiscuità. A un certo punto però, in omaggio ai tempi nuovi, avviene un «salto di qualità». I paesani si mettono a ballare a coppie miste. Gli eventi si susseguono agli eventi. Grande manifestazione a lutto per i morti della strage di Portella della Ginestra. Scontri a Palermo tra dimostranti e forze dell’ordine prima della caduta del governo Tambroni...

 

Mentre a Cicco, padre di Peppino, sono dedicate alcune scene all’inizio del film, a Pietro, suo figlio, ne sono dedicate altre alla fine. Nel corpo della pellicola campeggia la figura di Peppino, che è l’autentico protagonista. In questo personaggio Tornatore ha voluto proporre, idealizzandolo, un ritratto di suo padre. Cicco ha una stalla con qualche mucca. Legge I promessi sposi e Romeo e Giulietta. Recita a memoria le stanze dell’Orlando furioso e muore stringendo tra le mani la Divina Commedia. Ma fa fatica a mantenere la famiglia. Manda Peppino, ancora bambino, a lavorare, in montagna con un pastore per qualche pezzo di cacio. Peppino porta con se il libro di scuola, ma una capra glielo mangia.

 

Un uomo tutto d’un pezzo

 

Peppino percorre il corso principale di Bagheria tirandosi dietro una mucca con la quale fornisce ai clienti latte fresco a domicilio. È un ragazzino sveglio e non gli sfugge nulla di ciò che la strada, intesa come libro aperto, gli può insegnare. Suo fratello Nino (Salvo Ficarra), di qualche anno più grande di lui, parte per la guerra. Lui si ingegna come può trasportando derrate alimentari, sottratte all’ammasso, dalla campagna alla vicina città. Terminata la guerra, si iscrive al Pci. Dà così un senso preciso all’antifascismo un po’ anarchico ereditato dal padre. Si innamora a prima vista di Mannina, che sarà la sola donna della sua vita. Non è facile per lui sposarla perché i genitori di lei lo considerano uno spiantato, oltre che un poco di buono. Messo alle strette, Peppino fa valere i suoi diritti. Mannina è innamorata di lui e non ha nessuna intenzione di sposare il giovane benestante che suo padre gli propone come fidanzato. La situazione che si presenta molto complicata, si risolverà con l’intervento decisivo di Cicco.

 

Il primo parto di Mannina va male. «Troppi dispiaceri», dice la donna che ha dovuto lottare contro tutto e contro tutti per concretizzare il suo sogno d’amore. Stringe il cuore vedere Peppino mentre costruisce, con le assi di quella che era stata una vecchia porta, una piccola cassa con la quale va tutto solo a seppellire nel cimitero il suo figlio nato morto.

 

Peppino fa strada nelle file del partito. Frequenta la scuola per dirigenti alle Frattocchie. Spalleggiato dal fratello Nino, affronta sulla pubblica piazza don Giacinto, che ha fatto malmenare dai suoi scagnozzi il vecchio Cicco, reo di aver sconfinato con le pecore nel suo terreno, e gli infligge una dura lezione. Partecipa a un viaggio in Urss e ne torna dopo aver visto cose che fanno venire i brividi. Si dà da fare per organizzare l’occupazione delle terre dei latifondi da parte dei braccianti in attuazione della riforma agraria. Sogna un groviglio di serpi nere, il simbolo della mafia che detta legge sul territorio e attuerà la riforma alla sua maniera. La terra buona ai vecchi proprietari. Ai contadini soltanto sassi. Peppino torna a casa malconcio, giusto in tempo per dare l’ultimo saluto al padre, che muore dicendo: «La politica è bella».

 

Giunge da Roma un giornalista dell’Unità (Raul Bova). Peppino lo accompagna a fare un giro nei dintorni di Palermo. Giunto su un altopiano da dove si scorge un vasto panorama, Peppino spiega al giornalista come è la situazione: «Lì a Sciarra — indica un paese giù a valle — hanno ammazzato il compagno Salvatore Carnevale. Dietro quella montagna, hanno ammazzato Placido Rizzotto, grande sindacalista. Il cadavere l’hanno buttato là, in una crepa della Rocca Busambra. Lì verso Camporeale hanno ammazzato il segretario della Confederterra Cangelosi. Vedi quel paese? Quello è Sciacca. Lì i mafiosi hanno ammazzato il sindacalista Accursio Miraglia... E lì hanno ammazzato Epifanio Li Puma, capo della lega contadina...».

 

La famiglia di Peppino e Mannina nel frattempo si arricchisce di numerosi figli. Per mantenere la famiglia, Peppino va a fare il muratore a Parigi. I compagni del partito gli propongono di ritornare per presentarsi alle elezioni comunali. Gli trovano lavoro presso una ditta in Sicilia. Nel ruolo di consigliere comunale leva la voce contro la sistematica devastazione dell’ambiente e il dilagare della speculazione edilizia sotto l’egida della Democrazia Cristiana. Partecipa alle elezioni politiche come candidato alla Camera dei deputati. Non viene eletto, ma raccoglie un buon numero di voti. Sente che ormai la sua vita volge al declino. Si confida con il figlio Pietro, il quale aderisce al movimento studentesco del ’68. Avendo sentito dire dai compagni extraparlamentari che suo padre è uno «sporco riformista», Pietro chiede a Peppino cosa vuol dire riformista. «È uno che sa — risponde il padre — che a sbattere la testa contro il muro, è la testa che si rompe e non il muro... Riformista è chi vuole cambiare il mondo per mezzo del buon senso, senza tagliare la testa a nessuno...».

 

Pietro, che ormai è diventato grande, sta per spiccare il volo. Il padre lo accompagna alla stazione. Facendo eco a una sorta di refrain che ha scandito diverse fasi della vita di Peppino, Pietro gli chiede: «Perché tutti pensano che abbiamo un brutto carattere?». «Forse perché è vero... — risponde il padre —, oppure perché crediamo di poter abbracciare il mondo. Ma abbiamo le braccia troppo corte». In una delle ultime immagini del film, Peppino torna sulla montagna dove, da ragazzino, aveva fatto l’aiutante del pastore e dove la capra gli aveva mangiato il libro di scuola. Il pastore gli aveva raccontato una vecchia leggenda secondo la quale chi riusciva a colpire con un sasso le tre grandi pietre con le quali culmina la montagna, avrebbe visto aprirsi sotto i suoi piedi una caverna con dentro un tesoro. Peppino getta un sasso che rimbalza sulle tre pietre. Ma del tesoro non si vede nemmeno l’ombra. Solo un groviglio di serpi nere... Nel linguaggio simbolico del film, il sasso che rimbalza si riferisce a un tesoro che non è fatto di monete d’oro, ma è costituito dall’integrità interiore che Peppino ha saputo mantenere intatta lottando per tutta la vita contro la prepotenza, i soprusi, il malaffare.

 

Una folla di personaggi

 

Ai personaggi centrali del film si affianca una folla di personaggi secondari, tutti ben caratterizzati, interpretati talvolta da attori di prestigio. La mendicante che assomiglia a nonna Tana e come lei è interpretata da Lina Sastri. Il capocomico che indirizza le parole sdolcinate di una canzone d’amore a un ritratto del Duce suscitando l’ilarità della platea (Vincenzo Salemme). Il venditore di dollari (Beppe Fiorello). La ragazza del muratore impersonata da una prorompente Monica Bellucci. Turiddu il sellaio, che interviene per difendere il piccolo Peppino dalle prepotenze dei grandi (Michele Russo). I mafiosi Carru Minà, zio e nipote, interpretati entrambi da Gaetano Balistreri. Gaspare, il bracciante iracondo alle prese con una pratica dell’Inps che procede a rilento (Orio Scaduto). Minicu (Enrico lo Verso), che si storpia un piede per non andare in guerra, si rompe un braccio per avere l’invalidità e si frattura le costole prima di ottenere la pensione. Il banditore che muore tra la folla in mezzo alla strada (Salvatore Francesco Guzzo). Lo sciancato che terrorizza i bambini (Giuseppe Di Salvo). L’assessore all’urbanistica cieco e corrotto (Raffaele Sabato). Un esponente del Pci, che si accalora in un comizio dai toni paradossali (Michele Placido). Un coloratissimo padre Nespola, che celebra le nozze tra Peppino e Mannina (Orazio Stracuzzi) e tanti altri.

 

Non mancano personaggi dai nomi noti, confusi tra gli abitanti di Bagheria. Renato Guttuso in primis (Corrado Fortuna). Il giovane pittore sceglie Peppino, ancora ragazzo, come modello da inserire, assieme ad altri presi come lui dalla strada, in un affresco con Gesù e gli Apostoli dipinto nell’abside di una chiesa in riva al mare. Per evitare i commenti relativi alle imprese non sempre edificanti di coloro che posano vestiti da santi, il Cardinale fa cancellare l’affresco. Guttuso, vecchio e famoso, tornerà a Bagheria per un banchetto in suo onore. Mentre a tavola viene servito un grosso polipo, il pittore ne disegna i tentacoli: è la piovra, emblema di un antico male sempre in agguato.

 

Un altro personaggio famoso è il poeta Ignazio Butitta (Alessandro Schiavo), che con versi in dialetto siciliano declamati nella piazza tenta di provocare in coloro che lo ascoltano un moto di riscatto civile. Passa per Bagheria anche il regista cinematografico Alberto Lattuada (Enrico Salimbeni) che dirige Alberto Sordi (Alessandro Di Carlo) nel film Il mafioso. Il piccolo Pietro è affascinato dalla magia del cinema. Ascolta le parole di Lattuada che, interpellato da un giornalista, esalta la bellezza della villa Palagonia, scelta come set del suo film. «È perfetta per il clima grottesco del mio film... Un luogo unico al mondo... E pensare che è solo una parte di quello che era... Un tempo, i lati di questa lunga passeggiata erano costellati da centinaia di figure mostruose ormai andate perdute...». Pietro sgrana gli occhi della fantasia e immagina di vedere la villa come era. Alle statue mostruose si affiancano i personaggi terrificanti che gli accade di incontrare tutti i giorni (il venditore di coltelli che minaccia di sbudellare coloro che non li comprano, l’uomo senza gambe che corre veloce come una scimmia, il pazzo dell’arco che guarda con occhi spiritati dallo sportellone di casa...). Ricorda le parole di suo padre quando gli ha spiegato che ci sono uomini che sembrano cattivi mentre invece sono buoni e ci sono uomini che, al contrario, sembrano buoni mentre invece sono cattivi. «Perciò, prima di dire che uno è buono o cattivo devi pensarci bene. Hai capito?».

 

Nelle ultime immagini del film i simboli si infittiscono (l’orecchino della sorella di Pietro perduto e ritrovato, la mosca rinchiusa nella trottola per farla girare più leggera...), con effetto di ridondanza che sembra giustificare l’appunto critico dal quale siamo partiti. Ma forse non è giusto rimproverare a Tornatore errori che sono dovuti a un eccesso di generosità. Amore per la sua terra e per il cinema che «magicamente» gliela restituisce con tutto il fascino che aveva prima delle trasformazioni che l’hanno resa irriconoscibile. La corsa incrociata dei due bambini (Pietro e Peppino), che si trasforma in volo per Pietro (futuro regista), è una trovata che funziona, come pure l’idea di racchiudere il racconto, che si sviluppa lungo l’arco di un secolo, nel tempo che impiega per seccarsi uno sputo lanciato sulla polvere rovente in un pomeriggio d’estate.

 

 

 

Virgilio Fantuzzi S.I.

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