Babele o Gerusalemme: la città come parabola dell'umanità

Vi è un messaggio biblico sulla città che, se compreso nella sua interezza, è certamente una fonte di senso anche per conoscere il ruolo dell'edificio chiesa in una città. Se la città nei testi biblici appare in alcuni casi sotto un giudizio negativo, se si registra qua e là diffidenza verso il suo sorgere e il suo attestarsi come forma di vita umana sociale...

Babele o Gerusalemme: la città come parabola dell’umanità

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Vi è un messaggio biblico sulla città che, se compreso nella sua interezza, è certamente una fonte di senso anche per conoscere il ruolo dell’edificio chiesa in una città. Se la città nei testi biblici appare in alcuni casi sotto un giudizio negativo, se si registra qua e là diffidenza verso il suo sorgere e il suo attestarsi come forma di vita umana sociale, non è tuttavia intravista in opposizione a una vita nomade o agreste di segno positivo. In profondità, la Bibbia non oppone civiltà urbana negativa a civiltà pastorale-agreste positiva. Certo, Caino diventò costruttore di una città, ma non è l’omicidio la causa della costruzione delle città sulla terra.

La città, e noi non possiamo dimenticarlo, è sorta per proteggere l’umanità stessa e favorire processi di umanizzazione: contro il pericolo di un nomadismo che desitua l’uomo e non gli permette di custodire la terra né di regnare su di essa, e anche contro l’assolutezza del clan, che dà sì identità al singolo, ma lo imprigiona nello spazio della parentela e della somiglianza. La città è stata ed è il luogo per eccellenza della costruzione e della manifestazione dell’umano, il luogo più fecondo per l’espressione e l’esaltazione dell’ethos, proprio perché costruire una città significa fare un’opera architettonica etica, che riguarda cioè il rapporto degli uomini tra loro – chiamati a divenire 'concittadini' – e con lo spazio, che deve essere al loro servizio. Certamente l’identità che la città fornisce agli uomini è un’identità dinamica, costantemente ricostruita e rinnovata, dunque in continuo processo di mutamento, perché essa esercita una forza centripeta capace di attirare tutti e, quindi, anche il diverso, lo sconosciuto, lo straniero.

Sempre chiamata a tenere aperte le sue porte, ad accogliere – se non vuole trasformarsi in cittadella assediata –, la città ha una vocazione al riconoscimento dell’altro, sconosciuto e inatteso, una vocazione alla pluralità e alla complessità. Le differenze sono disorientanti, la stranierità incute paura, lo sconosciuto facilmente è percepibile come nemico, ma la città non può evitare queste emergenze: ne va della sua vocazione. Per essere tale, la vita della città abbisogna di quest’arte dell’apertura, del riconoscimento, della capacità di integrare il nuovo e il diverso, per instaurare un’ulteriore unità, una nuova solidarietà, un’inattesa comunità che costituiscono un arricchimento della polis. Sì, la città va anche letta positivamente, e non ha alcun senso la nostalgia di un mondo senza città, non ha senso la  fuga urbis che a molti cristiani appare la forma moderna della fuga  mundi, come se la mondanità il cristiano non la portasse dentro di sé ovunque abiti... La verità è che la città, rappresentazione dell’umanità tutta nella sua socialità, come le altre 'opere' delle nostre mani può essere da noi costruita nell’autosufficienza da Dio, nell’ingiustizia tra noi uomini, financo nell’uccisione del fratello: può essere costruita in vista del dominio e del totalitarismo.

Ogni città è insieme Babilonia e Gerusalemme, e per questo è parabola dell’umanità nella sua dimensione sociale, collettiva: è la nostra città, Babel ieri, e poi Ninive, quindi Roma, Berlino, Mosca, New York... Sì, la nostra città oggi è città secolarizzata, molteplice, eterologa, luogo comune di tutti, campo della vita pubblica, spazio in cui trovare i valori comuni. Qui si incontrano e si scontrano uomini e donne cristiani, non cristiani, non credenti, che devono trovare il modo di dare alla città un ordine, un volto in nome di un umanesimo che afferma che ciò che fa l’uomo è l’uomo! Certamente, nella nostra città sono presenti anche la violenza, l’odio e soprattutto il misconoscimento, la dimenticanza, l’ignorare chi sta alle soglie della città o addirittura sullo stesso pianerottolo del nostro medesimo condominio...

Ma è in questa città, e non in un’altra immaginaria, che anche i cristiani vivono! Ricordate l’A Diogneto? «I cristiani non abitano città loro proprie... abitano città greche o barbare,  come a ciascuno è toccato in sorte», e dunque stanno nella polis, ne fanno parte, sono cittadini e, senza esenzioni e in solidarietà con gli altri uomini, possono decidere di assecondare la costruzione di una città come Babel oppure tentare di edificare la città con un altro volto. Tra la prima città, il cui nome è Enoch, figlio di Caino, e la città promessa da Dio, il cui nome è «il Signore è là» (cf. Ez 48,35), c’è un cammino da compiere da parte dell’uomo, un cammino lungo e tortuoso nella storia, ma un cammino che può predisporre quanto è necessario alla discesa della città celeste il cui nome è «sposa dell’Agnello» (cf. Ap 21,9).

Enzo Bianchi

http://www.avvenire.it

 

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