«Sono del parere che vada rimessa in onore la “benedizione” come liturgia quotidiana del cristiano comune: non solo quella dei genitori ai figli, già frequente e oggi rara, ma ogni benedizione da persona a persona, nella coppia e in ogni relazione».
Un morente vede un mendicante, lo benedice e vuole esserne benedetto. Un prete chiede la benedizione all’infermiera che l’assiste. Una brasiliana trovandosi a un colloquio drammatico con il vescovo gli chiede di benedirla e gli dà la sua benedizione. Un anziano amico che veniva dalla Germania, in occasione dell’ultima venuta mi disse: “Porta al papa la mia benedizione”. Vado a fare visita a un collega morente e ai saluti gli dico: “Dammi la tua benedizione” e gli do la mia.
Sono del parere che vada rimessa in onore la “benedizione” come liturgia quotidiana del cristiano comune: non solo quella dei genitori ai figli, già frequente e oggi rara, ma ogni benedizione da persona a persona, nella coppia e in ogni relazione, compresi i figli che benedicono i genitori o il cristiano comune che benedice un consacrato. Comprese le relazioni della blogsfera.
Benedire cioè invocare il Signore su qualcuno
Questa convinzione mi è cresciuta dentro narrando i “fatti di Vangelo” e scoprendo come tanti cristiani pratichino anche oggi la “benedizione” e spesso in forme nuove rispetto allo schema ripetitivo che ci viene dalla tradizione familiare: “Papà dammi la benedizione” diceva il figlio e il padre rispondeva: “Dio ti benedica”.
Riprendo i racconti abbozzati in apertura e ne aggiungo altri somiglianti.
Il malato grave e il mendicante: si tratta di Stefano Bellan, di Casale Monferrato, che muore per tumore a diciannove anni nel 2005 appena rientrato da Lourdes. Animatore dell’oratorio, Stefano vive da cristiano consapevole la veloce evoluzione della malattia. Narrando il viaggio a Lourdes, il papà Luciano che l’aveva accompagnato ricorda che nel tragitto dalla Grotta all’albergo “Stefano vide un mendicante, mi fece fermare: digli che lo benedico e che voglio la sua benedizione” (dalle pagine 53s del volumetto Stefano Bellan. Il fiore reciso di Porta Milano, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2009).
Benedire qualcuno significa invocare su di lui la “benedizione” del Signore. Chi è vicino a morire e compie quell’avvicinamento sulle orme di Cristo ha chiaro quale sia la “benedizione” più preziosa: quella di chi meglio assomiglia al Signore. Da qui la scoperta della valenza evangelica del mendicante. E in che cosa egli, il malato, potrà ricambiare quel dono sacramentale se non invocando a sua volta sul mendicante la divina benedizione?
Il secondo fatto, che attesta un’analoga intuizione da parte di una persone semplice che apprende dalla vita, riguarda il vescovo trentino Guido Zendron, missionario in Brasile (Vescovo di Paulo Afonso – Bahia): investe con la sua automobile un uomo in bicicletta che muore sul colpo. Il fatto avviene senza responsabilità da parte del vescovo che tuttavia l’avverte come “ingiusto” e così in una lettera del 18 giugno 2010 al settimanale Vita Trentina narra la conclusione della conversazione con colei che aveva reso vedova: “Abbiamo pianto insieme, ma dopo aver chiesto la mia benedizione lei stessa ha voluto darmi la sua. É il riconoscimento che alla radice della vita e della morte, alla radice di tutte le circostanze, non c`è il caso, ma un disegno buono del nostro Dio ricco in misericordia”.
“Porta la mia benedizione a Giovanni Paolo II”
Il vecchio amico che veniva dalla Germania si chiamava Klaus H. Arntz: è venuto l’ultima volta nell’anno 2.000. Era un uomo del diritto e della finanza e veniva a Roma una volta all’anno – intorno a Pentecoste – per “aggiornamento”. Qualcuno gli aveva suggerito di parlare con me per avere un aiuto a interpretare ciò che avveniva in Vaticano. Quell’ultima volta il Parkinson l’aveva costretto all’uso del bastone: “Se cado cado in piedi”, mi disse al momento di salutarci. “Sei cristiano Klaus?” gli ho chiesto. “Certo che lo sono. Quando incontri il papa digli che lo benedico”. Io poco dopo vidi il papa ma non sapevo come dargli la benedizione di Klaus. Tutti chiedono la benedizione del “Santo Padre”, Klaus invece gliela dava: cioè invocava il Signore perché lo proteggesse. Un’azione appropriata. Ma come dirla? Non la sappiamo dire perché abbiamo fatto della benedizione un gesto rituale ed ecclesiastico. La prima volta che mi trovai vicino a Giovanni Paolo – che era stanco e piegato su se stesso, a ogni evidenza bisognoso di benedizione – dissi a mezza voce: “Santità Klaus H. Arntz la benedice”. “Grazie” mormorò il papa tirando su un occhio.
Nel condurre la mia indagine sulle benedizioni ho chiesto aiuto – come faccio spesso – ai visitatori del mio blog e uno di essi, che si firma Mattlar (Matteo Lariccia), mi ha segnalato un altro caso di qualcuno che benedice un papa: don Andrea Santoro nella lettera privata al Papa Benedetto XVI, pubblicata dopo il suo martirio: “Santità, mi unisco a queste tre donne (la lettera è preceduta da uno scritto di tre donne georgiane che chiedono al papa di andare a Trabzon in occasione della visita in Turchia del 2006, ndr) per invitarla davvero da noi (…). La saluto e la ringrazio di tutto. I suoi libri mi sono stati di nutrimento durante i miei studi di teologia. Mi benedica. E che Dio benedica e assista anche lei”.
Gli risposi che benedire era compito dei preti
In un’altra lettera – questa indirizzata agli amici – don Andrea motiva così la benedizione da cristiano a cristiano, siano o no le nostre mani consacrate: “Ogni “cristiano”, come dice il nome, ha in sé lo “spirito di Cristo” perché partecipa della sua “unzione”, che lo consacra figlio di Dio e portatore della salvezza di Cristo. Per questo i genitori possono benedire i figli, i membri di una comunità possono benedire i propri fratelli e tutti possiamo benedirci a vicenda, invocando gli uni sugli altri la grazia di Dio e la potenza dello Spirito Santo” (Lettere dalla Turchia, Città Nuova, Roma 2006, p. 18s).
Qui è l’infermiera che cura per anni un prete a narrare come un giorno sia stata richiesta di benedirlo: “Gli risposi che dare le benedizioni era compito dei preti (…). Quando don Lorenzo è morto, ripensando a quella richiesta, ho capito. Ho capito che dobbiamo essere benedizione gli uni per gli altri. Io mi sono sentita benedetta da lui, che è stato per me, nel tempo della malattia, un padre e un saggio consigliere” (così Letizia Regazzoni a pagina 178 del volume di Arturo Bellini, Don Lorenzo Mazzola, il gusto della parola. Appunti per una biografia, Editore Gamba, Verdello 2012).
Accennavo in apertura a un caso capitato a me con il collega Domenico Del Rio quando gli feci visita per l’ultima volta al Gemelli e parlammo per tre ore con i toni espliciti del commiato. Mimmo era sereno e spesso sorridente. Gli ho detto: «Posso tornare». Mi ha risposto: «Questo era l’ultimo saluto». «Allora dammi la tua benedizione», gli ho detto e l’ha fatto con un gesto della mano. Sulla porta mi sono fermato a salutarlo con la mano e gli ho detto: «Addio Mimmo, anch’io ti benedico». Ha ricambiato il gesto della mano, visibilmente contento e ha ripetuto: «Saluta tutti».
Quand’è un ebreo a benedire un prete
Altro mio caso con il vescovo Alberto Ablondi, dimissionario da tempo e con Parkinson avanzato. Nell’ultimo incontro – era il 2010, l’anno della sua morte – non riuscivo a capire che cosa mi dicesse dalla sedia a rotelle, agitato e balbettante. In forza dell’antica amicizia gli presi il viso tra le mani e gli dissi lentamente: “Scenda su di te, vescovo Alberto, la benedizione del Signore”. Poi gli presi le mani per tenerle ferme, mi inginocchiai davanti alle ruote della sedia, posi quelle mani indocili sulla mia testa e gli dissi guardandolo negli occhi: “Grazie della tua benedizione”. Era raggiante.
Il mendicante, il sofferente, il morente sono ministri privilegiati della benedizione. Questa intuizione è anche nel Diario di un curato di campagna di George Bernanos, in questo passo che è stato segnalato anche nel blog: «‘Vi prego di benedirmi’, ho continuato (…). Eravamo sulla soglia della porta. ‘Tu sei in pena’, m’ha risposto. ‘Tocca a te benedirmi.’ E ha preso la mia mano nella sua, l’ha alzata rapidamente sino alla sua fronte, e se n’è andato» (Edizione Oscar Mondadori 1984, p. 216).
Ci può essere benedizione anche tra persone di diversa fede. Ecco un prete che la chiede a un ebreo: è di Ferrara, si chiama don Giovanni Camarlinghi e l’ebreo – Giorgio Bianchini – è anch’egli ferrarese. Chiamato alle armi nel 1915 il giovane Giorgio era andato dal rabbino che gli aveva imposto le mani e aveva pronunciato la preghiera che nel Benedizionale degli ebrei il nonno recita alla partenza del nipote e che dice all’incirca: “Angelo di Dio tu condottier del viver mio, guidalo e portalo tu sul sentier della virtù”. Nel 1985 don Giovanni dovendo cambiare parrocchia va a salutare l’amico ebreo novantenne alla casa di riposo e gli chiede una benedizione. Giorgio commosso e lusingato mette la kippah, pone le mani sulla testa del prete e gli ripropone la benedizione che il rabbino aveva un tempo invocato su di lui: “Angelo di Dio tu condottier del viver mio, guidalo e portalo tu sul sentier della virtù”.
“Benedite coloro che maledicono”
Vedi lettore quanto territorio siamo venuti ispezionando raccontando questa e quella benedizione dei nostri giorni. Tornerò sull’argomento, ché c’è altro da dire. C’è il Benedizionale della CEI, che è una miniera e andrebbe esplorata. E c’è la pratica della benedizione dei genitori ai figli, che ha una quantità di modi tradizionali e rinnovati. Ci sono le benedizioni negli epistolari, da Leopardi ai condannati a morte della resistenza, ad Aldo Moro e a Ingrid Betancourt nelle lettere dal carcere delle Brigate Rosse e dalla giungla delle Farcas. E le benedizioni che ognuno di noi può dare – e dà – a rimedio delle maledizioni che vede scagliate intorno: “Benedite coloro che maledicono”.
Luigi Accattoli
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