Priorità dell'evangelizzazione: siamo angariati da questo problema, dobbiamo portare anche noi questa croce dolcissima ed è un'urgenza fondamentale. Certo: priorità dell'evangelizzazione; ma poi c'è l'altro concetto fondamentale che ci dicono i vescovi: la carità è il cuore dell'evangelizzazione. Ricordate: la carità è il cuore del Vangelo ed è la via maestra dell'evangelizzazione. I vescovi, per sintetizzare tutto questo, parlano ora del Vangelo della carità che deve essere al centro della nuova evangelizzazione.
del 01 gennaio 2002
Sono andato a trovare un mio sacerdote in Argentina e ho potuto incontrare il vescovo del luogo, monsignor Miguel Esteban Hesayne, un vescovo straordinario, intrepido, che ha scritto una pastorale a fumetti, per farla capire alla gente, intitolata Desde los pobres a todos, cioè Dai poveri verso tutti. Partire dai poveri non significa fare una scelta di classe, significa andare dai poveri verso tutti, per raggiungere tutti.
Quando ci dicono: «Voi parlate sempre degli ultimi; stare con gli ultimi, partire dagli ultimi. E dei primi che facciamo? Gesù ha amato tutti», la risposta è servita proprio con questa espressione: Desde los pobres a todos, dai poveri verso tutti. La Chiesa ci dice di partire dagli ultimi ma per andare verso tutti, perché anche i primi, anche i ricchi, sono oggetto del nostro impegno, del nostro interessamento pastorale, della nostra passione di presbiteri.
Il Vangelo a Bariloch.e
Accompagnato da monsignor Hesayne, andai a visitare una città simile alla nostra Cortina d'Ampezzo: si chiama Bariloche. C'è la Bariloche bene, con grandi palazzi dei grossissimi proprietari terrieri dell'Argentina, di tutti i ras che vanno lì. E c'è la Bariloche povera, dei quartieri squallidi: in questa sono andato con due sacerdoti. È una cosa incredibile. Quanta miseria, quanta povertà ho toccato con mano. Bambini cileni, boliviani, famiglie distrutte. Faceva freddo, era il mese di ottobre (che là corrisponde al nostro mese di marzo), e si vedevano le montagne innevate, lo ricordo bene. Nelfango c'erano bambini a piedi scalzi, rossi per il freddo, che facevano volare i loro aquiloni. Era un tramonto limpidissimo. Ho «catturato» un bambino con alcune caramelle e gli ho chiesto: «Dove abiti?». Mi ha condotto in una stamberga fatta di lamiere contorte. Sono entrato: c'era una donna con un bambino in braccio, sudamericana, gli occhi profondissimi; aveva 32 anni ma ne dimostrava 50, e aveva dodici figli. Nella casupola fatta di lamiere non c'era nulla, solo un caminetto acceso, un televisore spento e un tavolino. Ho capito che, la notte, quello diventava il loro dormitorio; forse dormivano uno sull'altro. In quella miseria così squallida ho visto sul tavolo un libro in spagnolo: «Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo». Fu come se avessi avuto una illuminazione e mi sono sentito a casa mia. Ho guardato quella donna e le ho detto: “Voi leggete il Vangelo?”. Con un sorriso che non dimenticherò mai, mi ha risposto: “Unico consueto por nuestra pobreza» (ricordo quelle parole; non so se le dico bene, in spagnolo): il Vangelo è l'unica consolazione, l'unico sostegno per la nostra povertà. Quando sono uscito, i bambini continuavano a far volare i loro aquiloni: a me sembrava che avessero ritagliato gli aquiloni sulle pagine del Vangelo, per annunciare alla Bariloche dei ricchi il Vangelo della liberazione.
Evangelizzazione e carità.
Priorità dell'evangelizzazione: siamo angariati da questo problema, dobbiamo portare anche noi questa croce dolcissima ed è un'urgenza fondamentale. Certo: priorità dell'evangelizzazione; ma poi c'è l'altro concetto fondamentale che ci dicono i vescovi: la carità è il cuore dell'evangelizzazione. Ricordate: la carità è il cuore del Vangelo ed è la via maestra dell'evangelizzazione. I vescovi, per sintetizzare tutto questo, parlano ora del Vangelo della carità che deve essere al centro della nuova evangelizzazione.
Cosa significa Vangelo della carità? Nonostante la ristrettezza del tempo, mi sembra essenziale potervi dire almenoda dove dobbiamo partire. Ho già parlato della carità delle opere che deve prevalere sulle opere della carità, perché se questo flusso che ci porta verso gli altri non parte dalla Trinità sarà soltanto filantropismo faccendiero, vortice di attività, di impegni; sarà un intasamento di cose che non fa giungere al nostro fratello il beneficio fondamentale, ciò di cui lui ha veramente bisogno: questo è l'annuncio della liberazione radicale operata da Gesù Cristo. Dobbiamo partire da lui, alzarci da tavola, come abbiamo già ampiamente spiegato.
Naturalmente se ci alziamo da tavola e andiamo dai nostri fratelli è chiaro che li aiuteremo, che andremo loro incontro, col cervello prima che col cuore, e con le mani; sarà la nostra una carità articolata. Oggi non basta commuoversi, andare incontro al fratello che ha bisogno, dargli diecimila lire, centomila lire, pagargli l'affitto di casa o la luce, quando vengono con le bollette. E quando gli hai pagato la bolletta di questo mese cosa fai? Devi ricominciare sempre da capo. Si tratta di aiutare i nostri fratelli col cuore, sì, ma anche col cervello e con le mani buone: questo significa che dobbiamo prendere atto - attenzione: mi sembra fondamentale, per noi sacerdoti e vescovi - dobbiamo prendere atto che non siamo dei potenti che possono dare oro e argento. Noi possiamo dire soltanto ai nostri fratelli: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». Questo possiamo dire. Però quel poco che abbiamo a disposizione dobbiamo pur metterlo a vantaggio dei nostri fratelli.
I segni del potere e il potere dei segni.
Oggi come Chiesa noi non abbiamo i segni del potere, ma abbiamo il potere dei segni. Grazie a Dio, oggi le nostre autorità, i vescovi, i cardinali, i notabili, per adoperare una frase non molto bella, non esprimono più i segni di potere. Grazie a Dio, stanno cadendo i segni del potere all'interno della Chiesa. Però teniamoci stretti il potere dei segni. Questo sì, teniamocelo stretto il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce che il mondo ha imboccato.
Noi siamo delle frecce stradali, delle frecce che indicano l’ulteriorità, spine dell'inappagamento conficcate nel fianco del mondo per richiamare il mondo: «Ma che strada stai battendo?».
Abbiamo soltanto il potere dei segni.
Quando introduciamo in casa nostra gli sfrattati o i tossicodipendenti ci dicono: «Cosa fai? - lo hanno detto pure a me! - Pensi di risolvere il problema degli sfrattati della città introducendo due o tre famiglie in casa tua? Ce ne sono trecento, quattrocento, che cosa vuoi fare to? Ti illudi». Ecco la risposta che dobbiamo dare: noi come Chiesa non dobbiamo pensare alla risoluzione del problema degli sfrattati, ci devono pensare le istituzioni pubbliche, lo Stato, il Comune, la Provincia, la Regione. Ci devono pensare loro, loro hanno il potere in mano, i segni del potere. Noi però abbiamo il potere dei segni. Noi dobbiamo essere uno "scrupolo" conficcato nella scarpa del mondo: «Introduco degli sfrattati in casa mia per dire che la Chiesa è disponibile all'incontro con i fratelli e che tutti voi dovete fare lo stesso». Non soltanto voi strutture ma anche voi credenti, che affollate le Messe la domenica e vi percuotete il petto dichiarando le vostre colpe: Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa... e vi scambiate il segno di pace; e dopo aver cantato: «Se qualcuno ha dei beni in questo mondo, e chiudesse il cuore agli altri nel dolor», fuori, ognuno continua per i fatti suoi.
La Chiesa ha il potere dei segni. Alcuni hanno dei tossici in casa, dei poveri, degli sbandati, degli zingari, degli sfrattati. È il potere dei segni che avete. Coltivatelo, tenetelo, perché fa un salutare contrasto nell'animo di coloro che vi criticano. Forse dovremmo fare tutti così, dovremmo alleggerirci dei Tir delle nostre stupide suppellettili, per andare incontro più da vicino al nostro fratello.
Quando usciamo da qui troviamo tantissimi poveri che stendono la mano. È chiaro che tu non puoi dare a tutti, perché ne trovi una ventina finché arrivi a casa. Hai dato a qualcuno? Basta. Il tuo compito non è quello di risolvere il problema di tutti, ma di esprimere solidarietà con la gente. Se hai dato all'uno e all'altro, hai dato quello che potevi dare, basta: sii contento, non affliggerti di non poter dare al quinto, al sesto che viene accanto a te.
“Bisogna stare attenti, perché ci sono moltissimi che truffano». È un mondo dove tutti truffano alla grande, ma dobbiamo essere proprio noi, ministri del Vangelo e propositori della carità, a doverci trattenere «per prudenza» dal dare l'obolo della vedova ad un piccolo, ad un povero, ad un ultimo?
Se dieci persone bussano a casa vostra, qualcuno potrebbe dirci: «Guarda che di queste dieci persone nove non hanno assolutamente bisogno». Ma se c'è uno che ha bisogno, dietro di lui si nasconde Gesù Cristo: allora è meglio mandare tutti con qualche cosa in mano - col rischio di essere truffati da nove - piuttosto che mandare tutti a mani vuote, per paura di essere presi in giro. Non facciamo troppe analisi logiche o grammaticali, quando i poveri vengono a bussare alla nostra casa. Già sant'Ambrogio, in una pagina bellissima, mette in guardia i cristiani da tutti coloro che prendono in giro, che truffano, che approfittano di certe loro situazioni. Però tutti sanno quanto sant'Ambrogio era largo di cuore e di mente.
Parlare col linguaggio delle opere.
Allora, ho detto: priorità all'evangelizzazione e poi, ecco, il secondo passaggio, la carità cuore del Vangelo, via maestra dell'evangelizzazione. Perché quando si fa la carità si annuncia il Vangelo. È il linguaggio delle opere. Si ripete la Pentecoste con i gesti, la stessa Pentecoste nella quale Pietro parla e tutti lo ascoltano. Ma cosa c'è sotto quel discorso? Un'interpretazione molto forte che danno gli esegeti è questa: gli apostoli parlano con il linguaggio delle opere, che tutti comprendono. Se vediamo che due ragazzi si baciano, capiamo benissimo che si vogliono bene. Anche se uno è inglese, un altro è australiano, un altro italiano, e quei due sono francesi, tutti capiscono che si vogliono bene. Tutti capiscono il linguaggio dei segni: una stretta di mano, la condivisione, l'aiuto a un povero. È un linguaggio percettibile a tutti, che si rinnova, è la Pentecoste.
Carità e giustizia: “Sollicitudo rei meridionalis».
Sto riassumendo per sommi capi, forse in termini non molto appropriati: è come se vi affidassi il compito a casa. È meglio correre il rischio della scarsa raffinatezza di vocabolario nella sostanziale sufficienza dei contenuti, piuttosto che indugiare su articolate composizioni in carta lucida di operazioni che rimangono sterili sul piano della prassi.
Sfruttando la congiunzione che c'è tra i giorni che abbiamo vissuto qui a Lourdes e il Vangelo che oggi ci viene affidato, credo che questo compito a casa sia affidato dalla Vergine santa particolarmente a noi sacerdoti, che siamo raccolti nel suo nome.
Dai nostri vescovi ci vengono indicati tre orizzonti. L'impegno cristiano deve coniugare carità e giustizia.
Soffrire le cose del mondo, carissimi confratelli, significa anche non accettare le situazioni di ingiustizia, non accettare il diluvio che c'è nel mondo, l'oscena distribuzione delle ricchezze per cui il 30% dell'umanità utilizza l'88% delle risorse e il 70% dell'umanità deve accontentarsi del rimanente 12%. Non è gonfiata la cifra, è arrotondata per difetto. Il 70% dell'umanità usufruisce soltanto del 12% delle ricchezze: come dire che rimangono 12 pani su 100 da spartire tra 70 persone su 100.
Queste ingiustizie ci sono: ce lo dice il papa nella Christi fideles laici, ce lo ha detto nella Sollicitudo rei socialis, ce lo dicono i vescovi italiani nel documento Chiesa italiana e Mezzogiorno, che io chiamo Sollicitudo rei meridionalis.
Dobbiamo veramente coniugare carità e giustizia: soprattutto, dicono i vescovi, siano adempiuti gli obblighi di giustizia. Non si offra come dono di carità ciò che è dovuto a titolo di giustizia. Educhiamo a questo i giovani con coraggio.
Vorrei che nessuno di voi dicesse a questo punto: «Non è compito di noi sacerdoti. Noi dobbiamo predicare all'ingrosso, sulla testa della gente; dobbiamo dire i principi. Le cose concrete poi se le devono vedere loro». Non è vero. Questa è una tentazione diabolica.
Quando il Vangelo dice che Gesù “ebbe compassione della gente perché erano come pecore senza pastore», usa il verbo enthyméo (da thymos, cuore, anima). Come Gesù, anche noi dovremmo sentire il nostro cuore gonfio di tenerezza verso i poveri, gonfio di sdegno quando vediamo tante cose che non vanno. Ma non con l'aria dei demagoghi, col piglio di coloro che dicono chissà-che-cosa, che lanciano scomuniche, che denunciano soltanto. Prima di tutto dobbiamo vivere noi la povertà, se vogliamo annunciarla agli altri. Dobbiamo educarci alla povertà, perché - attenzione! - poveri non si nasce, poveri si diventa. Si nasce poeti, ma non si nasce poveri; poveri si diventa, così come si diventa ingegnere, si diventa avvocato, si diventa prete, dopo una trafila di studi, dopo approfondimenti continui.
Rinunciare, prima di denunciare.
È una educazione difficile quella della povertà. È un insegnamento che Gesù Cristo ha voluto riservare a se stesso: “Gesù da ricco che era si è fatto povero»; il culmine della sua carriera è la povertà. Gesù si è fatto povero, come noi ci facciamo preti, come mio fratello si è fatto medico. Lui si è fatto povero. Per Gesù la povertà ha il sapore di un diploma di laurea, incorniciato con cura, custodito gelosamente ed esposto al momento buono, come quando dice: «Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo il loro nido, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». È un insegnamento per noi: anche noi dobbiamo farci poveri.
Non basta denunciare le ingiustizie. Non basta denunciare soltanto, se non si testimonia. Bisogna prima annunciare, poi rinunciare, finalmente denunciare.
Prima di denunciare, rinunciare. Lo abbiamo già ricordato: le nostre testimonianze al riguardo non sempre sono delle più limpide; siamo un po' attaccati alle nostre cose. Quando il vescovo ci ordina un trasferimento, non basta una piccola valigia, qualche volta dobbiamo prenotare camion e rimorchio per portarci dietro tutto.
La nostra libertà interiore: questo è il primo annuncio che oggi il mondo attende da noi. Come san Francesco - ricordate? «Scalzati, Egidio. Scalzati, Silvestro» - seguì a tal punto Madonna Povertà, che anche i suoi discepoli si scalzarono. Non è pauperismo romantico questo. Sono le strade maestre che il Signore ci invita a percorrere con coraggio.
Sono i poveri che annunciano il Vangelo.
I vescovi, parlando dell'impegno cristiano di coniugare carità e giustizia, parlano di amore preferenziale per i poveri. «Preferenziale» significa «da preferire». Cioè: dobbiamo partire da loro, dobbiamo farli diventare non soltanto destinatari delle nostre esuberanze caritative ma protagonisti del nostro annuncio di liberazione. I vescovi latino-americani parlano del carisma evangelizzatore dei poveri, altri parlano del potenziale evangelizzatore dei poveri: sono i poveri che annunciano.
Passiamo armi e bagagli dalla parte dei poveri, abbiamo più fiducia in loro. È il Signore Gesù che ci provoca a questo assurdo nel quale noi dobbiamo decisamente entrare. Diamo spazio ai poveri nelle nostre assemblee, facciamoli parlare, non chiamiamo soltanto i notabili della cultura, quelli che sono capaci di prendere la parola. Diamo la parola ai poveri, facciamo più spazio a loro. Faremo forse passi più piccoli, ma senza dubbio saranno passi molto più credibili.
Amore preferenziale per i poveri significa non soltanto diventare poveri ma anche aiutare i poveri. Quando arriveremo alle porte del Regno, il visto sul passaporto può avere due timbri: o «Beati voi poveri perché vostro è il Regno di Dio», oppure «Benedetti dal Padre mio, perché avevo fame e mi avete dato da mangiare”. O beatio benedetti: o ci facciamo poveri, o ci facciamo tutt'uno con loro, solidarizziamo con loro e li amiamo al punto da diventare quasi la loro pròtesi, il loro prolungamento. Senza uno di questi due timbri nessun passaporto vale per entrare nel Regno di Dio.
Non solo i poveri aristocratici.
Terzo compito dell'impegno cristiano è coniugare carità e giustizia. Non lasciatevi disturbare da coloro che dicono: «Ma questo è linguaggio demagogico. Voi state parlando di orizzontalismo; non state facendo gli interessi del Regno, ma quelli della demagogia». Non è vero. Gesù ha sofferto davvero per i poveri. I miserabili, gli esclusi, coloro che si trovano in difficoltà, le categorie a rischio, i poveri, insomma, li troviamo intorno a noi: dai minori agli handicappati, dagli anziani alle prostitute, dai tossici ai malati di Aids, la gente divisa, le famiglie spaccate. Sono poveri anche alcuni nostri confratelli allo sbando, dei quali nessuno si preoccupa, quelli che, poverini, non trovano una spalla su cui appoggiare il capo dopo le loro fatiche. E non sempre la spalla che trovano è quella che vuole il Signore, perché non li sappiamo capire, li giudichiamo, chiudiamo loro le porte in faccia, non li accogliamo più nei nostri presbiteri.
Questo non significa fare un mantello e coprire tutto. Significa essere veri. Perché la carità si fa nella verità. Significa essere veri, significa essere chiari, significa essere duri, ma sempre accoglienti, capaci di misericordia. Questa è la nostra attitudine nei confronti dei poveri. Anche nei confronti dei poveri che non ti ringraziano, dei poveri che ti sputano in faccia, dei poveri che, quando escono dalla tua casa, dicono che li hai maltrattati; dei poveri che poi vanno spargendo anche chiacchiere sul tuo conto, poveri viscidi, poveri pieni di miseria umana, di maleducazione.
Quelli che ha amato Gesù non sono i poveri aristocratici, i carcerati eccellenti, per delitti politici; quelli hanno già la prima pagina sui giornali. C'è uno charme anche nella sofferenza. Gesù parla dei sofferenti, degli ultimi, quelli che sono squalificati a vita, quelli che sono diventati... (è una parola che comincia con la m, che non si dice qui in chiesa, ma i tossicodipendenti l'adoperano moltissimo).
Allora, cari confratelli, noi siamo chiamati davvero a questo annuncio: «Ero carcerato, e siete venuti a visitarmi».
L'orizzonte planetario della solidarietà.
L'ultima cosa che ci dicono i vescovi è l'orizzonte planetario della solidarietà, della pace e della salvaguardia del creato.
La solidarietà. Ricordate quel numero folgorante della Sollicitudo rei socialis dove il papa parla della interdipendenza delle sorti dei popoli e degli individui; quindi del bisogno di solidarietà che deve scaturire anche come impegno, come imperativo etico, all'interno delle nostre comunità.
Solidarietà non è uno sterile sentimento che ci fa lacrimare di commozione, ma è la decisione irrevocabile, ferma ed efficace di farsi carico dei problemi degli altri. Ad esempio: se pestano un piede a me - questa è la solidarietà - quel confratello che sta là in fondo dice: «Ahi!»
La pace per fede, non per calcolo.
Sull'impegno per la pace vorrei avere il tempo di fare un intero corso di esercizi spirituali. Non abbiamo dato buona prova noi, a proposito dei temi della pace: non abbiamo sempre avuto la parresìa, il coraggio di parlare ad alta voce. C'è un'icona molto bella negli Atti degli Apostoli, dove si spiega benissimo cos'è la parresìa: «Pietro allora, levatosi in piedi insieme con gli altri Undici, parlò a voce alta così». Alzarsi in piedi, con coraggio, insieme con gli Undici - ecco la collegialità - e dire le cose con coraggio, con chiarezza, ad alta voce, senza attenuare le finali, senza smorzare, come abbiamo già accennato.
Noi forse, durante la guerra del Golfo, abbiamo lasciato che si alzasse Pietro, ma «gli altri Undici», tutta la Chiesa non si è alzata in piedi. Il papa ha parlato a gran voce, ma la parresìa complessiva della Chiesa ha trovato qualche fessura, ha scricchiolato un po'. Dovremmo essere più audaci.
Fare la pace per fede, come diceva Dietrich Bonhoeffer, non per puro calcolo umano: è Gesù la nostra pace. Gesù è venuto a parlare contro ogni forma di violenza. Non ci sono legittimazioni alla violenza.
Dovremmo affrontare questi temi con maggior audacia e con maggior pazienza. Non c'è da scandalizzarsi che non s'è data proprio buona prova in questo.
Forse la Chiesa è stata provocata ad approfondire meglio il tema radicale della non violenza di Gesù, della non violenza attiva che non significa remissività. Il Signore ci provoca non alla difesa dei nostri diritti, della nostra persona, ma alla difesa non violenta: ecco l'alternativa grande che oggi deve affascinare noi e le nostre comunità, così come affascina tanti giovani che queste cose le stanno riscoprendo anche al di fuori dell'ambiente cristiano.
La salvaguardia del creato.
Dovremmo partire di qui con un'aura francescana all'interno della nostra anima. Frate Francesco, che chiamava fratello e sorella tutte le realtà, non era un romantico: se trovava un lombrico sulla strada lo prendeva e lo adagiava su un muretto perché non venisse schiacciato, non metteva i piedi nelle pozzanghere per non inquinarle. Frate Francesco ha restituito il diritto di parola a tutte le creature, per cui parlava con loro e tutte gli rispondevano: le cicale di San Damiano, gli uccelli del cielo... gli rispondevano perché aveva loro restituito il diritto di parola.
Sentire questo profumo delle cose, questo gemito che scompagina le viscere della terra, questo anelito profondo sepolto nel cuore della terra che sprigiona fuori in mille canti, in mille colori.
In una splendida poesia intitolata Ognissanti - è uno degli Inni sacri rimasto incompiuto, ma quei 10-12 versi sono belli lo stesso - il Manzoni si interroga: Perché Dio fa crescere fiori splendidi all'interno di una foresta dove nessuno passa, perché? E risponde: Perché spandono davanti a Dio la loro fragranza.
A Lui che nell'erba del campo
la spiga vitale nascose,
A Quello domanda, o sdegnoso,
perché sull'inospiti piagge
al tremito d'aure selvagge
fa sorgere il tacito fior;
Che spiega davanti a Lui solo
la pompa del pinto suo velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.
Lo stesso vale per i santi, che il mondo non comprende perché ritiene la loro vita inutile e vuota:
Il secol vi sdegna, e superbo
domanda qual merto agli altari
v'addusse: che giovin gli avari
tesor di solinghe virtù.
Preghiera a Maria, Donna della ferialità.
Concludiamo con una preghiera a Maria, Donna della ferialità, dell'anonimato d'una vita qualunque, della solitudine d'ogni madre, che avrà ritrovato nella preghiera fatta insieme a Gesù e a Giuseppe il gaudio di una comunione sovrumana. Maria: una vita tenerissima, dolcissima, come la vita di tutte le donne, delle nostre sorelle, delle nostre nipoti, delle donne che incontriamo in parrocchia, o vengono a piangere in chiesa, o a pregare, o a chiedere consiglio.
Preghiamo Maria così:
Santa Maria, Donna feriale, forse tu sola puoi capire che questa nostra follia di ricondurti entro i confini dell'esperienza terra-terra, che noi pure viviamo, non è il segno di mode dissacratorie. Se per un attimo osiamo toglierti l'aureola è perché vogliamo vedere quanto sei bella a capo scoperto. Se spegniamo i riflettori puntati su di te è perché ci sembra di misurare meglio l'onnipotenza di Dio, che dietro le ombre della tua carne ha nascosto le sorgenti della luce. Sappiamo bene che sei stata destinata a navigazioni d'alto mare, ma se ti costringiamo a veleggiare sotto costa non è perché vogliamo ridurti ai livelli del nostro piccolo cabotaggio; è perché, vedendoti così vicina alle spiagge del nostro scoraggiamento, ci possa afferrare la coscienza d'essere chiamati pure noi ad avventurarci, come te, negli oceani della libertà.
Santa Maria, Donna feriale, aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia non è quello che ti pone all'interno della Bibbia o della patristica, della spiritualità o della liturgia, dei dogmi o dell'arte, ma è quello che ti colloca all'interno della casa di Nazaret, dove tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli della Scrittura hai sperimentato, in tutto lo spessore della tua anti-eroica femminilità, gioie senza malizia, amarezze senza disperazioni e partenze senza ritorni.
Santa Maria, Donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell'epopea e insegnaci a considerare la vita quotidiana come il cantiere dove si costruisce la storia della salvezza. Allenta gli ormeggi delle nostre paure, perché possiamo sperimentare, come te, l'abbandono alla volontà di Dio nelle pieghe prosaiche del tempo e nelle agonie lente delle ore. Torna a camminare discretamente con noi, o creatura straordinaria innamorata di normalità, che prima d'essere incoronata Regina del cielo hai ingoiato la polvere della nostra povera terra.
“Offri la vita tua, come Maria”.
Maria è così: e ci aiuterà, e ci farà camminare con lei, accompagnerà in modo particolare voi, noi sacerdoti.
Vorrei che chiudessimo ascoltando un canto che ci fanno i nostri ragazzi. L'abbiamo sentito tante volte: l'hanno cantato ieri alla grotta. Mi sembra un canto di speranza, di incoraggiamento per voi, di sprone perché abbiate a sentirvi davvero, come Maria ai piedi della croce, servi per amore e sacerdoti dell'umanità, perché siamo sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.
Le parole del canto fanno riferimento alle fatiche che abbiamo fatto senza prendere niente, finché un giorno il Signore ci invita a gettare la rete nel suo nome, e noi, come Pietro, afferriamo 153 grossi pesci (ricordate la storia del numero 153: ne abbiamo parlato).
Una notte di sudore,
sulla barca in mezzo al mare:
mentre il cielo si imbianca già
tu guardi le tue reti vuote.
Il cielo si imbianca già, e noi ci accorgiamo, magari a 70 anni, che non abbiamo preso niente: «Signore, a vuoto ho girato tutta la notte». Ma non abbiamo paura di presentarci a mani vuote:
Ma la voce che ti chiama
un altro mare ti mostrerà
e sulle rive di ogni cuore
le tue reti getterai.
Torniamo a casa presi da questo bisogno di rinnovamento. Getteremo di nuovo le reti «nel tuo nome, Signore», e nel nome di lei, Maria: così le nostre reti si gonfieranno.
Offri la vita tua
come Maria ai piedi della croce
e sarai servo di ogni uomo,
servo per amore,
sacerdote dell'umanità.
E un'altra strofa dice:
Avanzavi nel silenzio,
tra le lacrime speravi
che il seme sparso davanti a te
cadesse sulla buona terra.
Quante parole hai pronunciato nella vita, dall'altare, dall'ambone. Ora il tuo cuore è in festa. Non temere, anche se apparentemente la mietitura non è stata abbondante, non temere. Il Signore tiene conto dei sacrifici che hai seminato:
Ora il cuore tuo è in festa
perché il grano biondeggia ormai,
è maturato sotto il sole
e puoi riporlo nei granai.
Offri la vita tua come Maria
ai piedi della croce.
Ascoltiamo il canto come una preghiera, come sprone, come stimolo che ci viene da questi ragazzi che abbiamo di fronte, e ci auguriamo che, tra qualche anno, possano calcare le orme che abbiamo lasciato noi. Penso che, per loro, non ci sia gratificazione più grande del vostro sorriso e dell'incoraggiamento che avete dato loro con la vostra esemplarità in questi giorni.
Fine libro.
Tonino Bello.
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