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Capitolo 10

Amenità al Convitto - Le ricreazioni più gradite a D. Bosco - Carità industriosa di D. Cafasso nelle carceri - D. Bosco catechista nelle medesime - Impressioni ed ammaestramenti La Pasqua dei carcerati.


Capitolo 10

da Memorie Biografiche

del 19 ottobre 2006

 Al convitto D. Bosco nulla aveva dismesso del suo fare allegro, che rendevalo principe in qualunque conversazione. Come in seminario ed alle scuole di Chieri, aveva sempre qualche invenzione nuova per rallegrare la brigata. Però in questi suoi scherzi e burle egli teneva sempre un contegno calmo, sorridente, nè punto scomposto o nei gesti o nei passi, nè mai dava in iscrosci di risa. Narriamo qui un altro fatterello, che dimostra sempre meglio come un'insigne pietà ed uno zelo apostolico ponno benissimo accoppiarsi con un umore faceto. Di queste ricreazioni graziose godevano assai anche il Teologo Guala e D. Cafasso, che pure erano uomini di tanto senno e serietà.

Vera nel Convitto un certo D. C...., uomo gioviale ed eteroclito anzichè no, il quale assai bene prestavasi a tenere allegre le brigate, lasciando talvolta anche ridere un poco alle proprie spalle. Costui aveva comprato dagli Ebrei un pastrano così classico per forma e vecchiezza, che era passato in proverbio fra gli alunni del Convitto. Per conseguenza non osava più indossarlo. D. Bosco un bel giorno gli fece andare il pastrano nel suo luogo di studio. Giunta l'ora di studiare, D. C... si pone per sedere e sente un involto che gli dava impaccio: - Che cosa è questo? - esclama; e getta via quell'involto in mezzo alla sala. - Ma che? guarda meglio e riconosce il suo gabbano. Dapprima s'indispettisce, ma poi, non sapendo come andasse la cosa, lo prese e lo portò via fra le risa di tutti.

Un'altra volta D. Bosco gli fece lo stesso giuoco a tavola, in refettorio; ed allora D. C... un po' seccato chiuse il suo pastrano in un baule, e poi colla maggior segretezza possibile lo mandò a casa sua in Torino, proibendo ai parenti di: lasciarlo vedere ad alcuno. Il divieto però non venne ascoltato.

Sopraggiunto il carnevale, D. Bosco per passatempo si dilettava molto nel fare i giuochi dei bussolotti. Si concertò pertanto coll'Abate Fava di ridere sul gabbano di D. C... Sicchè? disse una sera l'Abate a D. Bosco, in tempo di ricreazione, vogliamo divertirci?

 - Sì, ridiamo un poco, replicarono il Teol. Guala e D. Cafasso, che erano d'intesa con D. Bosco.

 - Dunque a lei, D. Bosco, disse l'Abate, ci faccia qualche bel giuoco.

 - Ma che giuoco debbo fare? ripigliò D. Bosco.

I circostanti ne enumerarono molti. D. Bosco ascoltava e taceva, ma finalmente disse: - A voi la scelta di chiedere qualunque cosa meglio vi piacerà, ed io tosto ve la farò comparire innanzi sopra un tavolino.

Immaginate le cose più ridicole e tutte furono chieste quello voleva un gatto, un altro un passero vivo, questo delle uova, l'altro un pollo arrostito. In mezzo a tanto gridìo si alzò la voce dell'Abate Fava: - Facciamo comparire il gabbano di D. C...

La proposta fu applauditissima e fece dimenticare tutte le altre. D. Bosco si scusava dicendo che non era possibile, e D. C.... subito gridò: - Fate pure se vi dà l'animo, giacchè il mio pastrano l'ho lasciato in campagna, l'ho posto sotto chiave e nessuno può prendermelo.

D. Bosco intanto arresosi, si fece dare una bacchetta, si cinse i fianchi con un asciugatoio: poi cantò, e disse parole misteriose. A tutti per le risa dolevano i fianchi. Quindi come scoraggiato assicurò che non poteva riuscire. Pregato con vive istanze, rinnovò i segni cabalistici, e a un tratto esclamò - Silenzio, ora il gabbano è a Costantinopoli, ma lo faremo venire qui! - Le risa si raddoppiavano, mentre D. Bosco faceva ripetere da tutti in coro alcuni paroloni strani, sonori, incomprensibili. Intanto comandò che fosse portato in mezzo alla camera un tavolino appartenente ad uno dei convittori. Lo aprì, e poi invitò tutti a testimoniare come fosse vuoto: lo chiuse, nuovamente, lo riaprì, per la seconda volta fece vedere a tutti che nel cassetto vi era nulla, e rinchiusolo diede la chiave al Teol. Guala, il quale doveva tenerla in vista di tutti appuntandola verso D. Bosco. - Fate, fate pure diceva con sicurezza D. C.... mentre un sorriso sardonico di compiacenza passeggiava sulle sue labbra.

D. Bosco, preso un aspetto da ispirato, e trinciando lentamente l'aria colla bacchetta, pronunciò quattro parole di quelle che non si trovano in tutte le lingue del mondo, e finì con gridare: - È fatto! - Allora diede la chiave a D. C... perchè andasse ad aprire. D. C.. appena ebbe quella chiave tra le mani: - È questa, esclamò stupito, la chiave del mio baule. - Ed aprì, ed ecco sciorinarsi sotto gli occhi di tutti il famoso pastrano. È indescrivibile la sorpresa e il tripudio dei convittori. D. C... rimase a bocca aperta. E D. Cafasso disse: - Per carità partiamoci di qui, altrimenti si muore dalle risa.

La giocondità del cuore è la vita dell'uomo, ed è un tesoro inesausto di santità. Tuttavia ben più care tornavano a D. Bosco altre ricreazioni che si passavano con D. Cafasso. Riferiremo qui una pagina scritta da D. Bosco stesso.

“ Tutti i giorni dopo la mensa eravi un po' di ricreazione. E questo era il tempo di un'altra maravigliosa scuola di Don Cafasso. Qui i suoi alunni succhiavano come latte la bella maniera di vivere in società; di trattare col mondo senza farsi schiavo del mondo; e diventar veri sacerdoti forniti delle necessarie virtù, per formare ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dia. D. Cafasso narrava eziandio le conversioni di peccatori da lui presenziate negli ospedali, nelle carceri e in altri luoghi, con infinito diletto e vantaggio dei convittori. Questi poi, allorchè D. Cafasso non era presente, avevano mille cose da narrare del loro caro ripetitore. Dei moltissimi fatti, di cui sono stato testimonio oculare, trascelgo il seguente, che è lepido e curioso.

” D. Cafasso, per disporre i carcerati a celebrare una festa che occorreva in onore di Maria Santissima, aveva impiegata un'intiera settimana ad istruire ed animare i detenuti di un colloquio, ovvero camerone, ove erano circa quarantacinque dei più famosi carcerati. Quasi tutti avevano promesso di accostarsi alla confessione alla vigilia di quella solennità. Ma, venuto il giorno stabilito, niuno risolvevasi a cominciare la santa impresa di confessarsi. Egli rinnovò l'invito, richiamò in breve quanto aveva loro detto nei giorni trascorsi, ricordò la promessa fattagli; ma, fosse rispetto umano, fosse inganno del demonio od altro vano pretesto, niuno si voleva confessare. Che fare adunque?

” La carità industriosa di D. Cafasso saprà che cosa fare. Egli ridendo si avvicina ad uno, che a vista sembra il più grande, il più forte e il più robusto dei carcerati. Senza proferir parola, colle sue piccole mani lo piglia per la folta e lunga barba. Il detenuto da prima pensava che D. Cafasso facesse per burla, perciò in modo garbato, quanto si può aspettare da tale gente: - Mi prenda tutto, disse, ma mi lasci stare la mia barba.

 - Non vi lascio più andare, finchè non siate venuto a confessarvi.

 - Ma io non ci vado.

 - Ed io non vi lascio andare.

 - Ma... io non voglio confessarmi

 - Dite quello che volete, voi non mi scapperete più, ed io non vi lascierò andare via, finchè non vi siate confessato.

 - Io non sono preparato.

 - Vi preparerò io.

” Certamente se quel carcerato avesse voluto, avrebbe potuto svincolarsi dalle mani di D. Cafasso coi più leggiero urto; ma, fosse rispetto alla persona, o meglio frutto della grazia del Signore, fatto sta che il prigioniero si arrese, e si lasciò tirar da D. Cafasso in un angolo del camerone. Il venerando sacerdote si asside sopra un pagliericcio, e prepara il suo amico alla confessione. Ma che? In breve questi si mostra commosso, e tra le lacrime e tra i sospiri, appena potè terminare la dichiarazione delle sue colpe. ” Allora apparve una grande maraviglia. Colui, che prima bestemmiando ricusava di confessarsi, dopo andava ai suoi compagni predicando non essere mai stato cotanto felice in sua vita come in quel giorno. Quindi tanto fece e tanto disse, che tutti si ridussero a far la loro confessione.

” Sia che si voglia chiamare questo fatto, che scelgo tra migliaia di tal genere, miracolo della grazia di Dio, sia che si voglia dire miracolo della carità di D. Cafasso, è forza riconoscere in esso l'intervento della mano dei Signore.

” È bene qui notare che in quel giorno D. Cafasso confessò fino a notte molto avanzata, e non essendogli stati aperti i fermagli e gli usci della carcere, era sul punto di dover dormire coi carcerati. Ma ad una cert'ora della notte entrano i birri ed i custodi, armati di fucili, pistole e di sciabole, e si mettono a fare la solita visita, tenendo lumi sulle estremità di alcune lunghe bacchette di ferro. Andavano qua e là osservando se per caso apparissero rotture sui muri, o nel pavimento, e se non fossero a temersi trame o disordini tra i carcerati. Al vedere uno sconosciuto si mettono tutti a gridare: - Chi va là? - E senza attendere risposta lo attorniano e lo minacciano dicendo: - Che cosa fate, che cosa volete fare qui? Chi siete? ove volete andare? - D. Cafasso voleva parlare, ma non gli fu possibile, perciocchè i birri tutti ad una voce gridano: - Si fermi, si fermi! e ci dica chi è.

 - Sono D. Cafasso.

 - D. Cafasso...! Come...? A quest'ora...? Perchè non andare via per tempo? Noi non possiamo più lasciarla uscire senza farne relazione al direttore delle carceri.

 - A me non importa; fate: pure la relazione a chi volete, ma badate bene a voi, perciocchè all'avvicinarsi della notte voi dovevate venire a vedere e fare uscire quelli che erano estranei alle carceri. Era questo il vostro dovere, e siete in colpa per non averlo fatto.

” Allora tutti si tacquero, e prendendo D. Cafasso alle buone e pregandolo a non pubblicare quanto era avvenuto, gli aprirono la porta, e per cattivarsene la benevolenza, l'accompagnarono sino a casa sua.”

Le prigioni allora in Torino erano quattro: una nelle torri presso Porta Palazzo, un'altra in via S. Domenico nel locale che fu occupato poi dalla Casa Benefica, la terza nel Correctionel presso la chiesa dei SS. Martiri, la quarta nei sotterranei del Senato. A tutte pensava e provvedeva Don Cafasso col suo zelo, colla sua carità, ma specialmente a quest'ultima.

Il regolamento delle carceri era stato da Carlo Alberto cristianamente ordinato nel 1839. Eravi prescritta la S. Messa, un'istruzione religiosa e un'ora di catechismo in ogni giorno festivo. I Cappellani ogni mercoledì e giovedì avevano eziandio obbligo di visitare i carcerati e insegnare la dottrina cristiana in tutti i giorni della quaresima. D. Cafasso per aiutare i Cappellani a preparare i detenuti alla Pasqua, vi mandava i convittori tre volte alla settimana, con un servo, il quale li seguiva portando un cesto pieno di tabacco e di sigari, divisi in tanti pacchi. Alla porta delle carceri erano distribuiti ai catechisti, acciocchè ne facessero dono ai loro poco amabili allievi.

D. Bosco da principio aveva provata una certa ritrosia nel compiere tale ufficio; quegli androni umidi, malsani, il triste aspetto dei detenuti, l'idea di trovarsi in mezzo a gente macchiata di orrende iniquità e fin'anche di sangue, lo conturbava. Si fece animo però pensando a, quanto dirà il divin Giudice nell'estremo giorno: In carcere eram et venistis ad me. Incominciò adunque i catechismi alla sua classe, Certo i principii non erano troppo incoraggianti: chi rideva, chi faceva interrogazioni fuori di proposito, chi parlava sommessamente col compagno vicino, chi sbadigliava rumorosamente. Ma egli non si sfiduciò per quella poca corrispondenza, trattandoli sempre con somma carità, pazienza e mansuetudine. Discorrendo alla famigliare con quegli infelici, co' suoi bei modi e coll'amenità delle sue istruzioni se li affezionò tanto, che desideravano ardentemente di averlo sovente con loro. Ed egli tanto diceva e tanto si adoperava, che riuscì a guadagnare il cuore di molti ed a ricondurli sulla via della salute., Ammaestrato da D. Cafasso, in queste stesse sue prime prove, era mirabile nell'inspirare grande confidenza nella misericordia di Dio, come ci attestano i testimoni del fatta.

Ciò però che faceva sempre sanguinare il suo cuore così affettuoso erano i poveri giovani, che la società era costretta a quivi rinchiudere come esseri nocivi, senza avere saputo fare altro per essi. Taluni espiavano delitti superiori alla loro età. D. Bosco s'accorse che il numero di questi disgraziati andava ogni giorno crescendo; e quelli stessi che, scontata la pena, erano restituiti in libertà, ben presto, dopo pochi giorni, ritornavano in quel luogo carichi di nuovi delitti e dì una nuova condanna. Osservò pure, con meraviglia e sorpresa, che ciò accadeva eziandio di quei molti, che pel terrore e i patimenti sofferti erano usciti di carcere con fermo proposito di vita migliore. E quivi dimorando apprendevano più raffinate malizie al mal fare, maggiormente si corrompevano e se ne uscivano sempre peggiori. Eppure fra questi sventurati ve ne erano non pochi di cuore buono, capaci di formare la consolazione della famiglia, ma avviliti, resi aspri da trattamenti duri, costretti a nutrirsi di solo pan nero ed acqua (giacchè allora nelle prigioni si stava peggio di adesso), ricalcitranti colla volontà ai comandi, perchè bisognava obbedire per forza, torvi in viso e col sarcasmo sulle labbra. D. Bosco si avvicinava a loro, profferiva parole di affetto, di fede ed anche di piacevolezza. Scuoteva il loro tedio con ameni racconti, ne calmava i mali umori, intercedeva per essi presso i guardiani, e col suo zelo ardente, ma tutto soavità esercitava sopra di loro un vero impero, un fascino irresistibile. I giovani lo attiravano e ne erano a vicenda attirati. “E di mano in mano, scrive egli, che faceva loro sentire la dignità dell'uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere, di cui non sapevano dar ragione, ma che li faceva risolvere a farsi più buoni. Difatti non pochi cangiavano condotta nel carcere stesso, altri usciti vivevano in modo, da non dovervi più essere tradotti”. In breve, molti nel carcere gustavano i dolci effetti della misericordia divina e trovavano aperta la porta del cielo.

Finito il suo catechismo, D. Bosco usciva da quelle mura profondamente impressionato e sempre più risoluto di dedicarsi tutto, e a tutti i costi, al sollievo di tanti mali e di tante pene della povera gioventù. Quando qualcuno di quei giovani prigionieri venivano liberati e il loro domicilio era troppo lontano dall'Oratorio e non credeva cosa prudente ammetterli subito tra' suoi allievi, D. Bosco cominciò eziandio ad affidarli ad alcuni zelanti Signori e bravi artigiani, perchè fossero radunati alla Domenica, sorvegliati e condotti alla santificazione delle feste. Non mancava però di chiedere informazione della loro condotta, visitarli, incoraggiarli e soccorrerli. Egli già fin d'allora si accorgeva quanto fosse difficile a guarire alcuni di essi, dopo che erano vissuti lungo tempo nel disordine, e comprendeva che il solo mezzo di preservarli dal vizio per l'avvenire era di raccoglierli in sicuri asili, ove si potesse dar loro una educazione religiosa, premunendoli dai tanti pericoli che da soli non potrebbero vincere. Ma come fare?

Intanto da queste visite ai carcerati D. Bosco traeva molti ammaestramenti per la buona riuscita nell'educazione della gioventù. Egli si persuadeva sempre meglio della necessità di usare modi caritatevoli con questi infelici e con tutti i giovanetti, se si vuol ottenere da loro qualche cosa; e più tardi insisteva su questo punto ed assicurava i suoi cooperatori che un giovane d'indole anche aspra e riottosa facilmente si piega al bene, quando si vede trattato amorevolmente. Apprendeva pure sempre più vivamente quale era la causa che trascinava tanta povera gioventù in quei luoghi di espiazione. Colle lagrime agli occhi narrava a' suoi giovanetti, corredando il suo racconto con commoventi aneddoti avvenutigli durante questo suo ufficio di catechista alle carceri, come molti dei carcerati, specialmente giovani, asserivano di essere stati condotti al mai fare o dal cattivo esempio di un compagno o dalla trascuranza dei genitori, specialmente per ciò che si riferisce all'istruzione religiosa. E però inculcava sempre la fuga dei cattivi compagni ed insisteva sul buon esempio nei genitori e sulla necessità di istruire bene i giovanetti nelle cose di religione, per tenerli sulla retta via e salvarli.

Frattanto la quaresima volgeva al suo termine e i catechisti col maggior impegno preparavano i carcerati ad adempiere cristianamente il precetto pasquale. D. Cafasso con varii altri sacerdoti andò a confessarli. La Pasqua in quest'anno cadeva il 29 marzo. Finita la funzione della Comunione generale, D. Cafasso, come era suo costume, recossi a congratularsi con loro. Appena si aprirono i battenti delle carceri, succedette una vera ovazione. - Evviva D. Cafasso! - si gridava da tutte parti - evviva il nostro benefattore, il nostro padre! - Sedati gli schiamazzi, egli li fece schierare in fila e tutto sorridente distribuì a ciascheduno di loro due pagnottelle di pan fino, che loro pareva tanto zuccaro, e qualche frutto. Queste distribuzioni soleva farle quattro volte all'anno, nelle maggiori solennità. E intanto si raccomandava che dicessero un'Ave Maria per lui, perchè potesse salvare la sua anima; e poi li esilarava con qualche fatterello e con varie arguzie.  E quei poveretti a ridere, e taluni a raccomandarsi con confidenza per tabacco, camicie, mutande, calzoni, danaro, ecc., ciò che il buon sacerdote loro procurava tosto od il giorno seguente. Ogni lunedì, mercoledì, venerdì poi si recava alle carceri del Senato, ove distribuiva limosine non mai inferiori alle due lire, per mezzo del custode provvedeva la minestra ed altri conforti agli infermi, e qualche volta anche somme di danaro per le loro famiglie. Così continuò finchè non venne la proibizione dei Governo. A molti di quei disgraziati colpevoli inoltre il santo prete otteneva la grazia della liberazione dal Re Carlo Alberto.

In tutto questo santo apostolato, nell'esercizio di questa sublime opera di misericordia, D. Cafasso si prendeva per compagno D. Bosco, al quale commetteva pure più volte nell'anno straordinarie istruzioni catechistiche, come attestavano d'aver udito raccontare D. Rua, D. Bonetti, Enria e molti altri antichi allievi dell'Oratorio, addestrandolo così alle opere più belle del sacerdotale ministero, nelle quali tanto godeva l'animo di D. Bosco.

 

 

 

 

 

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