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Capitolo 17

Si prepara la legge sui beni ecclesiastici e di soppressione dei Conventi - Le minacce delle tavole di fondazione dell'Abbazia di Altacomba - Le due regine benefattrici dell'Oralorio - Due sogni: grandi funerali in corte Avvisi non accolti dal Re - La legge è presentata alla camera dei Deputati - D. Bosco si prepara a nuove predicazioni.


Capitolo 17

da Memorie Biografiche

del 28 novembre 2006

   Al candore e alla pace che regnava nel cuore dei giusto, facevano singolar contrasto le ree passioni di molti, che perfidiavano nel cagionare sempre nuovi danni ed offese al clero, agognando a spogliarlo delle sue proprietà e diritti, per togliergli, fosse loro dato, ogni influenza nelle popolazioni. Erano trame di ribellione contro la stessa Divinità.

La Chiesa Cattolica, società spirituale perfettissima e pel suo fine supremo indipendente da ogni terrena giurisdizione, essendo composta di uomini, non può fare a meno di mezzi materiali, cioè edifizii per le sue radunanze, templi per il culto, seminarii per gli alunni del santuario, episcopii per i suoi pastori, conventi e monasteri per la pratica dei consigli evangelici e di altri beni di varia natura, per il sostentamento de' suoi ministri, per le mille sue opere di carità, e per tutti gli altri obblighi a lei imposti dalla sua divina missione. Di questi beni avrà sempre a valersene, dovendo Ella restare sulla terra fino alla consumazione dei secoli; e di qui il suo diritto naturale sopra possessioni permanenti e durature. Quindi tale diritto in nessun modo nasce e dipende dall'autorità civile, ma sibbene dalla sola autorità di Gesù Cristo, il quale espressamente glielo concesse, come effetto e conseguenza del dominio che Egli aveva ed ha sovra tutto il creato. Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra: euntes ergo docete omnes gentes..

   Ma i settari, nel loro programma di odio contro la Chiesa, dopo averle contestato il potere legislativo, esecutivo, giudiziario, congiuravano a negarle il diritto di possedere beni proprii ed ogni sovranità territoriale. Procedevano però con moltasca ltrezza per attuare, a poco a poco, interamente i loro disegni. Alcuni consigli Provinciali da essi ispirati avevano già fatti voti per l'incameramento dei beni ecclesiastici; senonchè il Governo nel 1852 si pronunciava solennemente contrario a tale confisca. Da quel punto però si erano incominciate a promuovere petizioni a questo fine, e una Giunta incaricata presentava alle Camere quella di cento Consigli Comunali, di trentadue consigli delegati e di 20.213 cittadini, che domandavano l'incameramento dei beni ecclesiastici, la riduzione dei Vescovadi, l'abolizione dei conventi, e dell'esenzione di tutti i chierici dal servizio militare. Quella Giunta dichiaravasi favorevole a tali istanze; facendo notare, i beni della Chiesa, compresi quelli dei beneficii semplici, delle confraternite, dei legati e delle opere pie, ascendere a 15 milioni di rendita, con un capitale di circa 380 milioni; e che questa somma sarebbe stata un gran ristoro per le finanze dello Stato.

   A questi armeggi i Vescovi pubblicarono utilissime istruzioni, dimostrando che tale confisca era una gravissima ingiustizia, un vero sacrilegio. La stessa legge fondamentale dello Stato riconosceva alla Chiesa: il diritto di proprietà. L'ART. 2 diceva: “ Il Re si gloria di essere protettore della Chiesa e di promuovere l'osservanza delle leggi di essa nelle materie che alla potestà della medesima, appartengono ”. E l'ART. 25 aggiungeva: “ La Chiesa, i Comuni, i pubblici stabilimenti, le società autorizzate dal Re, ed altri corpi morali si considerano come altrettante persone e godono dei diritti civili sotto le modificazioni determinate dalle leggi ”. - Eziandio lo Statuto dichiarava: garantita la libertà individuale, il domicilio inviolabile, e inviolabili pure le proprietà senza alcuna eccezione.

   Ma tutte queste ragioni furono messe in non cale. I conventi tolti ai religiosi, col pretesto del coléra, non erano stati restituiti. Da mille indizii avevasi la certezza essere imminente la legge d'incameramento, e i Cattolici Piemontesi vivevano in gravi apprensioni.

   D. Bosco sentivasi intanto ispirato e spinto a cercar di impedire i nuovi attentati contro la Chiesa. Siamo per esporre un fatto memorabile, che getta nuova luce sulla missione che Dio aveva affidata al suo fedel servo. Noi lo racconteremo come lo abbiamo udito dalle labbra di, D. Angelo Savio, il quale non solo ne fu testimonio con altri molti, ma attore principale. Non ci fidiamo tuttavia della sola nostra memoria, ma consultiamo le note da lui corrette, che noi abbiamo scritte sotto il suo dettato.

  D. Bosco adunque, fin da quando erasi incominciato a parlare della soppressione degli ordini religiosi, aveva narrato ai giovani, in un discorsetto della sera, le maledizioni che stavano scritte dagli antichi Duchi di Savoia nelle carte di fondazione dell'Abbazia d'Altacomba contro quei loro discendenti che avessero osato distruggerla od usurparne i beni. Il giovane Savio Angelo nell'udire quella serie di orrende minacce concepì un'idea ardita. D. Bosco, senza dargli consiglio, gliela aveva destramente insinuata; e bastò. Il giovane cercò e trovò copia di quella carta di fondazione, trascrisse tutte le maledizioni in un foglio, si firmò con nome, cognome e qualità, chiuse il suo foglio in una busta e lo indirizzò al Re.

  Vittorio Emanuele, letto un simile documento, intese il motivo di quel foglio a lui indirizzato, e mandò a chiamare il Marchese Domenico Fassati, col quale spesse volte s'intratteneva con grande famigliarità. Questo signore scendeva da una delle più nobili famiglie del Piemonte. Fedele al suo Re, lo aveva servito da prode in pace ed in guerra, e si era segnalato sui campi Lombardi nel 1848 e 49. Pel suo valore militare era insignito del grado di maggiore Comandante delle guardie del corpo, che formava come l'antica coorte dei pretoriani. Era congiunto in matrimonio con Maria De Maistre, figlia dell'illustre Rodolfo e degna nipote di quel Giuseppe che fu diplomatico accorto ed abilissimo, filosofo insigne e profondo, scrittore forbito e sapiente, della cui fama è tuttora ripieno il mondo; donna di sì rare qualità di mente e dì cuore, che la Regina Maria Adelaide, sposa di Vittorio Emanuele II, l'aveva scelta per sua Dama di corte, anzi per sua prima amica ed intima confidente.

   Ora questo uomo di sì alti meriti e di così splendide e rare attinenze era ammiratore e sostenitore dell'Opera di D. Bosco, e sovente veniva all'Oratorio come se vi ospitasse una sua famiglia e vi si portava ad istruire i giovanetti interni ed esterni.

   Il Re adunque avuto a sè il Marchese gli presentò confidenzialmente quella copia dell'Atto di fondazione d'Altacomba e si lamentò con lui di una sgarbatezza, come ei la chiamava, dalla quale sentivasi offeso. Ma chi poteva essere lo scrittore di quel foglio? Il Marchese Fassati, letto il nome di Savio Angelo, intese subito chi fosse quegli che avevalo scritto; tuttavia essendo uomo prudente, non ne fece parola, ma venne a far visita a Don Bosco. Quivi incominciò a lagnarsi con lui dell'ardimento di Savio Angelo; gli fece osservare come fosse riprovevole trattare il Sovrano con tanta insolenza, e quindi il giovane meritarsi una severa riprensione. D. Bosco ascoltò le recriminazioni piuttosto vive del Marchese, suo buon amico; ma non approvò il suggerimento dì far rimproveri allo scrittore di quel foglio; e gli rispose: - La verità in certi casi non si può e non si deve nascondere. Anzi il giovane Savio ha fatto molto bene. Quella lettera non è una sua mancanza di rispetto all'augusta persona del Re, ma indica invece l'amore che egli porta alla famiglia reale. - Il Marchese partì poco soddisfatto dell'esito della sua visita; egli non prevedeva quali avvenimenti stavano per isvolgersi e come quella legge ne fosse il doloroso principio.

   In Corte intanto si credette per un po' di tempo che suggeritore o autore di quel foglio fosse il Canonico Anglesio, il Padre Superiore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, perchè andava dicendo co' suoi famigliari, coi medici e con altri personaggi della città: - A bocce ferme! a bocce ferme, vedremo come certe stelle si ecclisseranno, e certe birbonate a quale esito riusciranno.

   Non tardossi però a sospettare da qual parte venisse simile avviso, sospetto che divenne ben presto certezza.

Ma se D. Bosco in primo luogo intendeva prendere la difesa dei diritti del Signore, nello stesso tempo desiderava eziandio dar testimonianza di affetto e di riconoscenza verso Casa Savoia, dalla quale i suoi giovanetti avevano ricevute molte beneficenze. Specialmente le regine Maria Teresa e Maria Adelaide erano tutte viscere di carità per i poverelli. Maria Teresa, vedova di Carlo, Alberto e madre del re Vittorio Emanuele II, mandava sovente a D. Bosco non comuni limosine, ora per mano del Sig. Teologo Roberto Murialdo, ora per mezzo del Cav. Sangiusto. Una volta inviò all'Oratorio ben mille lire in suffragio dell'anima dell'augusto suo consorte. In un'altra circostanza, trovandosi D. Bosco in grave bisogno, le scrisse domandandole un qualsiasi soccorso, e la santa donna al domani per tempo gli faceva tenere altre lire mille. In diverse occasioni ella fu per l'Oratoria l'angelo della Provvidenza, e l'ultimo sussidio fu da Lei elargito sul finire del 1854. Riportiamo la relativa lettera.

 

Intendenza particolare di S. M. la Regina vedova Maria Teresa.

 

Moncalieri, addì 19 novembre 1854.

 

Molto R. Signore Padre Oss.mo,

 

Nel novero delle elargizioni assegnate dalla pia munificenza di S. M. la regina Maria Teresa, mia Augusta Signora, in contemplazione della presentanea ricorrenza del santo Giubileo, avendo eziandio voluto che venissero compresi alcuni corpi morali e stabilimenti di pubblica beneficenza ed istruzione di questa Capitale particolarmente raccomandati dal proprio instituto, mi ha perciò ordinato di far mettere a di lei disposizione la somma di lire quattrocento per essere erogata per la concorrente di lire 200 in aiuto alle spese di mantenimento dell'Oratorio e ricovero di giovani pericolanti in Valdocco, e per altra simile somma in aiuto alle spese delle scuole festive negli Oratorii di S. Luigi a Porta Nuova, e dell'Angelo Custode a Porta di Po, in quel modo che Ella crederà più conveniente.

  Nel porgere a di Lei notizia questa benefica disposizione della M. S. onde possa disporre pel ritiramento di detta somma dall'ufficio dell'Intendenza particolare, mediante analoga ricevuta di scarico, profitto dell'incontro per dichiararmi con sensi della più sincera divozione

Di V. S. Reverenda

 

Il Proc. Gen. della M. S.

Sangiusto di  San Lorenzo.

 

D. Bosco adunque anelava a dissipare una minacciosa nube che andava sempre pi√π oscurandosi sulla Real Casa.

  Egli in una notte verso il fine del mese di novembre, aveva fatto un sogno. Gli era parso di trovarsi ove è il portico centrale dell'Oratorio, costrutto allora solo per metà, presso alla pompa idraulica fissa al muro della casetta Pinardi. Era circondato da preti e da chierici: ad un tratto vide avanzarsi in mezzo al cortile un valletto di Corte, col suo rosso uniforme, il quale, con passo affrettato venuto alla sua presenza, gli parve che gridasse:

     - Grande notizia!

      - E quale? gli chiese D. Bosco.

      - Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte!

D. Bosco a questa improvvisa comparsa, a questo grido, restò come di sasso, e il valletto ripetè: - Gran funerale in Corte! -D. Bosco allora voleva domandargli spiegazione di questo suo ferale annunzio, ma quegli erasi dileguato. D. Bosco, risvegliatosi, era come fuori di sè e, inteso il mistero di quell'apparizione, prese la penna e preparò subito una lettera per Vittorio Emanuele, palesando quanto gli era stato annunziato, e raccontando semplicemente il sogno.

   Dopo il mezzogiorno egli entrava in refettorio pel pranzo, e molto in ritardo: i giovani ricordano ancora, come essendo in quell'anno il freddo acutissimo, Don Bosco avesse le mani in guanti vecchi e sdrusciti, recando un fascio di lettere. Si formò crocchio intorno a lui. Erano presenti D. Alasonatti, Savio Angelo, Cagliero, Francesia, Turchi Giovanni, Reviglio, Rua, Anfossi, Buzzetti, Enria, Tomatis ed altri, la maggior parte chierici. D. Bosco prese a dir loro sorridendo: - Stamane, miei cari, ho scritto tre lettere a personaggi di grande importanza: al Papa, al Re ed al carnefice. - Fu uno scoppio di risa generale all'udire accoppiati i nomi di questi tre personaggi. In quanto al carnefice però non fece loro meraviglia, conoscendo come D. Bosco avesse amicizia con i custodi delle carceri, e come quest'uomo fosse veramente un buon cristiano. Egli esercitava: la carità coi poveri il meglio che poteva, scriveva le suppliche che i popolani volevano indirizzare al Re ed alle Autorità; ma soffriva gran dolore avendo un suo figlio dovuto ritirarsi dalle scuole pubbliche, respinto dal ribrezzo che di lui provavano i compagni, quando conobbero l'ufficio di suo padre.

   In quanto al Papa non se ne ignoravano le corrispondenze per lettera, Quindi ciò che aguzzava la curiosità loro, era di conoscere ciò che D. Bosco aveva scritto al Re, tanto più che sapevano cosa egli pensasse intorno all'usurpazione dei beni ecclesiastici. Don Bosco non li tenne in indugio e loro palesò quanto aveva scritto pel Re, perchè non permettesse la presentazione dell'infausta legge. Quindi narrò il sogno, concludendo: Questo sogno mi ha fatto star male e mi ha affaticato, molto. - Egli era sopra pensiero ed esclamava a quando, a quando: - Chi sa?.... chi sa?.... preghiamo!

Sorpresi i chierici presero allora a discorrere, interrogandosi a vicenda se avessero sentito a dire che nel palazzo reale vi fosse qualche nobile signore infermo; ma tutti conchiusero, non constare in nessun modo questo. D. Bosco intanto, chiamato presso di sè il Ch. Angelo Savio, gli consegnò la lettera: - Copia, gli disse, ed annunzia al Re: Grande funerale in Corte! - E il Ch. Savio scrisse. Ma il Re, come D. Bosco venne a sapere dai suoi confidenti impiegati a palazzo, lesse con indifferenza quel foglio e non ne tenne conto.

     Erano passati cinque giorni da questo sogno, e Don Bosco, dormendo, nella notte, sognò di bel nuovo. Gli pareva di essere in sua camera a tavolino, scrivendo; quando udì lo scalpitare di un cavallo in cortile. Ad un tratto vede spalancarsi la porta ed apparire il valletto nella sua rossa livrea, che entrato fino a metà della camera gridò:

Annunzia: non grati funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte! -E ripetè queste parole due volte. Quindi ritirossi con passo rapido e chiuse la porta dietro di sè. D. Bosco voleva sapere, voleva interrogarlo, voleva chiedergli, spiegazione; quindi si alzò da, tavolino, corse sul balcone e vide il: valletto nel cortile che saliva a cavallo. Lo, chiamò, chiese perchè fosse venuto a ripetergli quell'annunzio; ma il valletto gridando: - Grandi funerali in Corte! - si dileguò. Venuta l'alba, D. Bosco stesso indirizzò al Re un'altra lettera, nella quale raccontavagli il secondo sogno e concludeva dicendo a sua Maestà “ che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre la pregava di impedire a qualunque costo quella legge ”.

  Alla sera dopo cena D. Bosco esclamò in mezzo a' suoi chierici: - Sapete che ho da dirvi una cosa ancor più strana, che quella dell'altro giorno? - E raccontò ciò che aveva visto nella notte. Allora i chierici, più stupiti di prima, si domandavano che cosa indicassero questi annunzi di morte; e si può immaginare quale fosse la loro ansietà nell'attendere come si sarebbero verificate queste predizioni.

  Al chierico Cagliero e ad alcuni altri svelava intanto apertamente essere, quelle, minacce di castighi che il Signore faceva sentire a chi più danni e mali già aveva arrecati alla Chiesa ed altri stava preparandone. In quei giorni egli era addoloratissimo e ripeteva frequentemente: - Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie. - Tali cose diceva a' suoi alunni per impegnarli a pregare per il Re, e per intercedere dalla misericordia del Signore che impedisse la dispersione eli tanti religiosi e la perdita di tante vocazioni.

  Intanto il Re aveva confidate quelle lettere al Marchese Fassati, che avendole lette, venne all'Oratorio e diceva a D. Bosco: - Oh! le pare la maniera questa di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re ne è rimasto più che impressionato e turbato!.... Anzi montò sulle furie.

  E D. Bosco gli rispose - Ma se ciò che fu scritto è verità? Mi rincresce di aver cagionato questi disturbi al mio Sovrano; ma insomma, si tratta del suo bene e di quello della Chiesa.

  Gli avvisi di D. Bosco non furono ascoltati. Il 28 novembre 1854 il Ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presenta va ai deputati un disegno di legge per la soppressione dei conventi. Il Conte Camillo di Cavour, Ministro delle finanze, era risoluto di farlo approvare a qualunque costo. Questi signori stabilivano come principio incontrastato e incontrastabile, che fuori del gran corpo civile, non v'ha e non può darsi società a lui superiore e da lui indipendente; che lo Stato è tutto, e che perciò nessun ente morale, e neppure la Chiesa Cattolica può sussistere giuridicamente senza il consenso e riconoscimento dell'autorità civile. Perciò tale autorità non riconoscendo nella Chiesa universale il dominio dei beni ecclesiastici, e attribuendo questo dominio a ciascun ente delle corporazioni religiose, sostenevano essere queste creazione della sovranità, civile e la loro esistenza modificarsi od estinguersi per volontà della sovranità medesima, e lo Stato, erede d'ogni personalità civile che non abbia successioni, divenire solo ed assoluto proprietario di tutti i loro beni quando fossero soppresse. Errore grossolano perchè tali patrimonii, per qualsivoglia causa una Congregazione Religiosa cessasse d'esistere, non rimanevano senza padroni, dovendo essere devoluti alla Chiesa di G. C., rappresentata dal Sommo Pontefice, per quanto gli statolatri perfidiassero a negarlo.

   L'annunzio di siffatta presentazione cagionò vivo dolore ai buoni cattolici, vivissimo a D. Bosco. Egli, per ottemperare ai voleri del Cielo, aveva replicatamente ammonito il Sovrano, ed era quello un atto pericoloso, del quale non potevansi prevedere tutte le conseguenze. Un altro uomo, per quanto d'animo freddo e risoluto, in mezzo a tanti avversarii, non avrebbe potuto a meno che vivere in continua apprensione. D. Bosco invece, sempre imperturbato, attingendo vigore nel Cuore SS. di Gesù in Sacramento e nell'aiuto della celeste Madre, mentre preparavasi alle sante esultanze del Natale, disponevasi ad annunziare la parola di Dio alle popolazioni.

  Scriveva pertanto al suo antico maestro il Teol. Appendino, Amministratore parrocchiale a Villastellone.

 

Torino, 21 Dicembre 1854.

 

Car.mo Sig. Teologo,

 

Per mia norma avrei bisogno che V. S. car.ma mi dicesse in qual tempo cominci e finisca l'ottavario che mi sono assunto di fare a Villastellone, e ciò per fissare il tempo ad esercizii spirituali in altro luogo.

  Intanto buone feste a Lei, alla signora sua sorella e copiose benedizioni del Signore mentre con rispetto e con gratitudine mi dico

D. V. S. Car.ma

 

Obbl.mo allievo ed amico

Sac. Bosco Gio.

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