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Capitolo 17

D. Alasonatti a Lanzo - Suoi dolori e sua rassegnazione alla volontà di Dio - Eroica pazienza per non recare disturbo a quei del Collegio - Sue ansietà per la salute degli altri - Zelo pel buon andamento della casa - Spirito di preghiera: il SS. Sacramento e la Beata Vergine - Il male si aggrava: sua tranquillità - Il Santo Viatico e l'Estrema Unzione Il testamento - Giaculatorie - Ricordo molesto - Una commovente raccomandazione - L'ultimo giorno della sua vita: Decreto della Sacra Congregazione dei Riti che approva il culto reso ab immemorabili al Beato Cherubino Testa - Parole di gentile carità - Fiducia nella misericordia di Dio - Sua morte preziosa -- Alcune sue carte.


Capitolo 17

da Memorie Biografiche

del 04 dicembre 2006

Alla mezzanotte tra il 7 e l'8 ottobre moriva a Lanzo il Sac. Vittorio Alasonatti, Prefetto della Pia Società Salesiana e dell'Oratorio. Era giunto a Lanzo sul finir dell'Agosto, e presago di trovarsi al termine de' suoi giorni, preparavasi alla morte che per lui doveva essere il riposo dopo tante fatiche e la porta degli eterni godimenti. Tutti i giorni recitava i Proficiscere, e ciò da più anni, temendo che in punto di morte gli venisse a mancare questa preghiera, come realmente avvenne.

Quello che soffriva, Dio solo lo sa. L'ulcere alla gola gli aveva incurvata la testa fin quasi alle ginocchia e la spalla destra lo tormentava con vivi dolori. Tuttavia egli stava una gran parte del giorno fuori del letto.

Perfetta era la sua rassegnazione al volere di Dio. Spesso esclamava: Fiat voluntas tua. Il suo pensiero prediletto era: Semper in gratiarum actione manere. La sua giaculatoria favorita: Deo gratias! Ad ogni puntura della spalla ripeteva: Deo gratias! Quando i dolori l'opprimevano maggiormente e le membra gli si contraevano, il volto si affilava, i denti scricchiolavano, il catarro parea soffocarlo, la tosse gli conquassava il petto, e sangue e tabe uscivano dalla sua bocca, non emetteva un grido, non un lamento, anzi un riso, purtroppo spasmodico ed angoscioso, gli sfiorava il labbro! Chi era presente a queste crisi ne riportava un sentimento di compassione per tutto il giorno; eppure la sua prima parola appena potea riavere il fiato era: Deo gratias! Dopo essere stato assopito per qualche minuto, d'aver passato una notte insonne, preso qualche po' di cibo o di bevanda, fatta una breve passeggiata in giardino, ricevuta una buona o cattiva notizia, ripeteva sempre: Deo gratias!

I chierici, quantunque pochi e tutti con le proprie occcupazioni di scuola, studio, ricreazione e passeggiata, si erano divise le ore del giorno e della notte, in modo che qualcuno di loro era sempre pronto a servire il caro infermo. Ma Don Alasonatti studiavasi di dare ad essi ed al Collegio il minor disturbo possibile. Si cercava di preparargli vivande che supponevansi di suo gusto, ma sovente quando gli erano state poste innanzi, si sentiva preso da tale nauseante ripugnanza che, scusandosi, domandava fossero riportate in cucina. Nello stesso tempo proibiva che gliene apprestassero altre.

Recavagli un po' di sollievo una minestrina molto calda, che per ordine del medico, gli veniva recata ogni due ore. Accadde un mattino che il chierico destinato a portargliela dovesse supplire nella scuola un maestro, persuaso avere altri preso il suo posto presso l'infermo. Ma non era così e D. Alasonatti stette tutta  la mattina senza il solito ristoro. Aveva alla portata della mano la corda del campanello, ma non volle chiamare alcuno prima dell'una pomeridiana, aspettando che finisse il pranzo della comunità. Allora suonò, corse il Ch. Sala e D. Alasonatti gli chiese sorridendo:

- E di me vi siete dimenticati?

- Come? non le hanno ancora portato il pranzo?

E scese subito in cucina a dare gli ordini, mentre il chierico, causa involontaria di quell'inconveniente, si recò subito presso l'infermo, aspettandosi un meritato rimprovero, e invece alle sue scuse sentissi rispondere affettuosamente:

- Non fa nulla. Portami ora qualche cosa. Deo gratias!

Egli temeva di dover morire repentinamente senza essere assistito dai confratelli; quindi se per qualche istante rimaneva solo, questo pensiero gli cagionava un generale e angoscioso stiramento di nervi. Eppure molte volte costrinse di notte l'infermiere a ritirarsi perchè si riposasse:

- Questo non va, ripeteva, che per me debbano aver incomodo gli altri.

Una sera gli si disse, che se a lui non fosse rincresciuto, i giovani del collegio avrebbero cenato nel prato che stendevasi sotto le finestre della sua camera.

- Io ho nulla in contrario, rispose: solo pregherei che non schiamazzassero troppo, perchè stassera il male mi opprime più del solito.

- Allora sarà meglio privare i giovani di questa ricreazione: quod differtur, non aufertur.

- No, no; vadano pure nel prato; mi fa tanto piacere veder que' cari giovani ed essere spettatore della loro allegria!

E così dicendo fece portare il suo seggiolone vicino alla finestra e vi si assise per godere della vista dei giovani che amava tanto!

Altra volta dopo il pranzo un inserviente suonava il suo flauto e D. Alasonatti sorrideva con un sorriso forzato e doloroso che aveva sempre sulle labbra, quando il suo patire era pi√π veemente.

Questo suono le dà noia? - gli dimandò chi lo assisteva.

- Mi fa soffrire molto!

L'assistente si avvia per uscire, ma D. Alasonatti lo richiama dicendo: - Dove andate?

- Ad avvisare quel servo che lasci di suonare.

- No, no; non voglio che andiate. Poveretto! Questo è il suo unico sollievo e non sia detto che per me debba privarsene. - E l'assistente dovette obbedire.

Anche in mezzo a' suoi dolori si occupava più degli altri che di se stesso. Se vi era un ammalato in casa, domandava ansiosamente delle sue nuove. Se qualche giorno scendeva dai monti un'aria più fredda del solito, comandava a coloro che lo circondavano di mettersi in dosso vesti più grosse: - Perchè, diceva: non vorrei vedervi ammalati. -Sentendo tossire qualcuno, ordinava che gli fosse dato il caffè e voleva poi sapere se l'avesse preso, ed un'ammonizione non poteva mancare a chi non l'avesse obbedito. Domandava sempre ai giovani che lo visitavano:

- Come sta la vostra salute?

- Bene, sig. Prefetto; e lei come si sente?

- Io sto meglio, sentendo che gli altri stan bene.

Che se alcuno avesse risposto di sentirsi qualche piccolo incomodo, ne dimostrava tale dispiacere che bisognava poi rispondere alla sua domanda in modo da lasciarlo contento; e perciò, chierici ed alunni, tutti lo assicuravano sempre con dirgli: - Stiamo benissimo.

Voleva pure conoscere tutto l'andamento della casa e ammoniva con grande carità chi aveva bisogno di correggere qualche suo difetto; e in assenza di confessori si offerse di ascoltare le confessioni dei chierici. Allorchè ricordava il gran bene che può fare un sacerdote nel sacro ministero, esclamava:

- Ed io sono un veterano, posto fuori di servizio!

La sua preghiera era continua. Tutte le mattine, eccettuati varii giorni delle due ultime sue settimane, volle scendere in chiesa per ascoltare la santa Messa e fare la Comunione, non ostante il gran patire che gli cagionava il digiuno. Finchè potè vi assistè sempre in ginocchio; quando più tardi la debolezza glielo impedì, l'ascoltava stando seduto, inginocchiandosi soltanto al momento dell'elevazione. Qualche volta volle celebrare la santa Messa alle due dopo la mezzanotte; ed era questo uno sforzo veramente eroico, perchè gliene veniva tale spossamento di forze da travagliarlo per tutto il giorno. L'ultima volta che celebrò fu il 1° di ottobre, Domenica del Santo Rosario. Tutti i giorni poi si trascinava nel pomeriggio in chiesa a fare una visita al suo Signore in Sacramento, e vi rimaneva più di un'ora.

Nutriva una specialissima divozione verso Maria SS. Il Rosario con molte altre preghiere era il suo cibo quotidiano. E come pregava! Osservandolo in quel tempo bisognava esclamare: - Questo sacerdote ha veramente una fede viva! - Quando poteva, pregava ad alta voce ad onta delle doglie che gli cagionava alla gola l'articolar le parole; quando non poteva per la violenza della tosse o per l'estrema debolezza, era pure di grande edificazione solo il vederlo svolgere la sua corona. E continuò in questa pia pratica fino all'ultimo giorno.

Una sera era già coricato quando alle 81/2, ora delle orazioni, gli alunni inginocchiati nel cortile, prima di incominciarle presero secondo la consuetudine a cantare una strofa di una lode, e precisamente quella che incomincia Noi siam figli di Maria. Alle prime note di quelle voci infantili, Don Alasonatti che in quel momento pareva prendesse un po' di sonno, si scosse, si sforzò di porsi a sedere sul letto, si tolse il berrettino e unì la sua stanca voce al canto dei giovani. Poi giunse divotamente le mani sul petto e accompagnò sommessamente le preghiere. In quel momento entrava nella sua camera un chierico con una tazza di acqua di camomilla che aveva chiesta per facilitare la digestione, così penosa pel suo stomaco, e gliela presentò; D. Alasonatti gli fece segno di porla sul tavolino.

- Ma scusi, sig. Prefetto, la beva subito; è calda e le farà bene.

- È intempestiva questa tua osservazione; mi porgerai la tazza finite le orazioni.

- Ma dopo le orazioni sarà fredda ed allora è inutile berla.

- Adesso io debbo pregare coi giovani: se sarà fredda, la berrò fredda.- E si raccolse di nuovo in preghiera; conosceva i preziosi vantaggi dell'orazione recitata in comune.

Allorchè la campana suonava l'Angelus, invitava quelli che erano con lui ad inginocchiarsi e lo recitava egli pure.

Un giorno vide un giovane adulto farsi in fretta il segno della croce. Lo prese a parte e gli disse:

- Mio caro, permetti che ti faccia un'osservazione?

- Dica pure, signor Prefetto.

- Se D. Bosco ti vedesse fare il segno della croce con quel mal garbo come hai fatto, ti sgriderebbe.

- Scusi, sig. Prefetto! Io veramente non aveva badato a quel che faceva, tuttavia sembravami di averlo fatto bene.

- Quando fai un atto di religione, bada sempre a quel che fai.

- Grazie; procurerò di mettere in pratica l'avviso.

- Non avertela a male. Ti correggo perchè ti voglio bene. Così io stesso vorrei essere avvisato tutte le volte che manco: anzi ti prego di rendermi il servizio che ti ho fatto tutte le volte che ne vedrai il bisogno. Sarà il più gran regalo che potrai farmi. - E replicò: - Dimmi; ti ho forse offeso?

- Oh no, davvero! e gliene rendo grazie infinite.

- Voglimi dunque sempre bene e vatti a divertire.

In vero, egli dava l'esempio di questa esattezza; non ostante che il suo reuma gli rendesse dolentissimo ogni moto del braccio, si sforzava tuttavia di fare con precisione il segno della santa croce.

Ma il male lo aveva ridotto al punto che non poteva più appoggiare il capo da nessuna parte. Se lo posava sul cappezzale, i nervi, divenuti sensibilissimi, gli davano spasimi insopportabili; lo stesso accadeva se avesse sostenuta la fronte colla mano. Allora pregò chi l'assisteva che gli aggiustasse un ordigno di legno dietro alle spalle, che tenesse il suo capo alquanto sollevato, stando egli sempre seduto sul letto:

- Non scandalizzarti, gli diceva, se io cerco qualche mio comodo. Il mio corpo l'offro tutti i giorni al Signore, ma m'incombe anche l'obbligo di tenerlo in vita, finchè piacerà a Lui.

Una volta disse sorridendo:

- Io sono già morto; almeno così mi sembra, ed è già qualche settimana che ho questa fissazione. Mi sembra che in me vi siano due uomini: uno che soffre e l'altro che sta contemplando tranquillamente i suoi dolori e lo sfacelo che a poco a poco lo avvicina alla corruzione.

Quale eroica rassegnazione cristiana!

Era già oltre un mese che edificava il Collegio di Lanzo colla sua virtù, quando il 5 ottobre, giorno di giovedì, sentendo che le forze gli andavano gradatamente mancando, nel dopo pranzo, mandò a chiamare il suo confessore, che era il Parroco di Pessinetto, D. Antonio Longo, suo compagno di scuola. Questi, entrato in camera, gli disse:

- Che cosa vuoi che io domandi al Signore per te? vuoi la sanità?

- Sia fatta la volontà di Dio, rispose D. Alasonatti, e semper Deo gratias!

Dopo essersi confessato, supplicò perchè gli venisse recato il Santo Viatico e D. Longo, scorgendo la gravezza del male, acconsentì. Accompagnato dai giovani, il SS. Sacramento entrò dall'infermo, il quale appena lo vide fu preso da tale impeto di amore che rendevagli più affannoso il respiro.

Volle egli stesso recitare il Confiteor e con tale unzione che pareva non sentisse più i suoi dolori. Come si fu comunicato, restò assopito in profonda meditazione: e solo dopo circa un quarto d'ora mosse lentamente la testa e fissando gli sguardi su due chierici che si erano fermati vicino al letto, disse loro con voce solenne:

- Imparate da me, o figliuoli, a ricevere in tempo i Santi Sacramenti.

Il giorno dopo sentì qualche leggero miglioramento, perchè le consolazioni delle quali Gesù gli aveva ricolmo il cuore, gli avean fatto dimenticare le sue pene; ma verso sera, sentendo dolori acutissimi, volle di nuovo confessarsi, fece accendere una candela benedetta, e domandò l'Olio Santo. Il Vicario Albert, parroco di Lanzo, gli amministrò il Sacramento, e l'infermo rispose con una divozione così commovente a tutte le preghiere che accompagnano il sacro rito, e con tale sentimento di umile compunzione, che mosse al pianto tutti gli astanti. Avuta anche la Benedizione Papale, ringraziò il Vicario della carità usatagli e si raccomandò alle sue orazioni, qualora in quella notte egli venisse a mancare. Ciò detto, si raccolse a pregare per qualche tempo.

Chi scrive era presso il suo letto; e l'infermo gli fe' cenno di avvicinarsi di più. M'inchinai su di lui per poter intendere ciò che voleva dirmi, ed egli prendendomi per mano, a stento mi disse:

- La prego a voler eseguire le mie ultime volontà. Presto morirò: forse domani non sarò più in vita: non si dimentichi di far pregare per me. Dica a D. Bosco che si ricordi per un mese dell'anima mia nel santo sacrificio... Mi saluti D. Bosco, tutti i sacerdoti, i chierici, l'Oratorio di Torino, la casa di Mirabello, D. Francesco Montebruno di Genova e il Ch. Garino Giovanni... Scriva loro che preghino sempre per me... Dica ai giovani della casa di Torino che mi raccomandino al Signore e che mi perdonino se qualche volta ho fatto sbaglio

nel castigarli, e se talvolta ho lasciato di castigarli quando avrei dovuto... In ultimo domando perdono a tutti de' cattivi esempi che ho dati... Mi perdoneranno, non è vero?...

E qui cessò alquanto dal parlare, perchè la soffocazione l'opprimeva: ma poi riprese:

- Io ho nulla di mio da lasciare, perchè quel poco che era mio, l'ho già dato tutto alla casa. Il restante è di mio padre. Ho solo l'uso di tre cose... Lascio il mio orologio al sig. Cavaliere Oreglia, perchè era suo, avendomelo egli donato. Glielo mandi quando io sarò morto, e questo gli ricorderà l'amicizia che ci univa... Alla madre di D. Domenico Ruffino il crocifisso che ho a Torino... Appena poi sarò morto lo faccia sapere a D. Giacomelli, al quale lascio la mia corona colla quale ho recitato con lui tante volte il Rosario, andando a piedi da Torino a S. Ignazio.

Quindi, rivolgendosi a me e stringendomi con più forza la mano, mi disse: -A lei auguro che il Signore dia la sua santa benedizione, acciocchè possa continuare nella strada che ha incominciata... che benedica le sue fatiche... Prosegua nella grande opera che ha intrapresa... Si faccia coraggio... Abbiamo tanto bisogno di preti, che lavorino in mezzo ai giovani... Le auguro che salvi molte anime, migliaia e migliaia di anime, specialmente di poveri giovanetti... Le salvi... Sono troppi i nemici che le insidiano. Oh quanto vi è bisogno di salvarle! Oggigiorno appena nelle campagne o sui monti, e ben di rado, si trova ancora un innocente... Se le venisse fatto di incontrarlo, lo difenda dai cattivi compagni...

Oppresso dalla stanchezza, si tacque; quindi cominciò a rivolgere al Signore le sue preghiere, mormorando parole interrotte:

- O Signore, come voi siete grande nelle vostre misericordie... Perdonatemi!... Io vi offro non solo il mio corpo, ma tutti i miei affetti... Presto io andrò in domum aeternitatis meae... Io vorrei, o Signore, dopo morte essere sepolto nell'angolo più oscuro della terra e che nessuno si ricordasse mai più di me. Io godo, o Signore, che il mio corpo sia dato in preda ai vermi in penitenza dei miei peccati e delle offese che vi ho fatte: godo che la mia lingua, i miei occhi, le mie orecchie vadano a marcire nella fossa in punizione delle loro mancanze. Di una cosa sola mi dolgo, di non poter più lavorare per la vostra gloria. Una grazia sola vi domando, o Signore, ed è quella che io possa morire sia pure fra i più atroci tormenti. Desidero tanto di morire per unirmi a voi ed essere sicuro così di non potervi più offendere ed amarvi col più ardente amore. Sono però disposto a soffrire in vita finchè a voi piacerà ..... Abbiate misericordia di me... O Signore, per molti titoli io vi appartengo... Io ho troppa confidenza in voi, o Signore... Poi esclamava con enfasi: Exurgat Deus, et dissipentur inimici ejus.

E rimase un momento assopito. Risvegliatosi, pareva che un molesto pensiero gli gravasse la memoria e diceva:

-L'obbedienza! l'obbedienza! ... Talvolta ho detto a Don Bosco: voglio questo, voglio quello ... o faccia questo, o altrimenti... Si ha un bel dire: e lì, proprio lì... E l'obbedienza?

Egli ricordava di aver un giorno parlato risolutamente a D. Bosco, perchè gli sembrava che fosse troppo longanime con un tale che ostinavasi a non obbedire con scandalo degli alunni. Conoscendo il fatto al quale alludeva, gli feci osservare:

-Ma lei non poteva fare altrimenti; era necessaria una risoluzione energica.

- Ma io ho detto: o questo, o altrimenti!... In punto di morte le cose si giudicano ben diversamente... Già... mettere il Superiore nell'alternativa: o... o... Ma spero che il Signore mi avrà perdonato. - E si ricompose di nuovo a pregare.

Continuò a labbreggiare orazioni, finchè a un tratto chiamandomi, mi disse:

- Io ho da pregarla di una carità. Se venissi a morire stanotte, mi faccia coraggio... mi ricordi di sperare nella misericordia di Dio... mi dia per l'ultima volta l'assoluzione sacramentale... Me lo promette?

- Sissignore! - gli risposi lagrimando.

Ed egli: - Or bene, soggiunse, lei vada a riposare; casomai mi sentissi venir meno, la farò chiamare.

E siccome io non mi muoveva:

- Vada, le dico; obbedisca!

Il domani mattina si alzò da letto e andò in giardino, ove si assise all'ombra di un pergolato. In mezzo alle cure incessanti dell'Oratorio, egli si era alacremente occupato per far riconoscere ed approvare dalla Santa Sede il culto reso ab immemorabili al Beato Cherubino Testa, religioso dell'Ordine di S. Agostino, morto in Avigliana, sua patria, nel 1479. Le reliquie di questo caro santo, dopo la dispersione dei suoi confratelli, erano state traslate dal sepolcro del Convento nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni. Per ben nove anni D. Alasonatti aveva faticato in ricerche di documenti e di prove, e nell'inviare memoriali, redatti in buon latino, alla Sacra Congregazione dei Riti. Ora di giorno in giorno aspettava il sospirato decreto.

Suonava il mezzodì dell'ultimo giorno di sua vita, quando entra in giardino il chierico Sala che gli consegna un grosso plico con varii suggelli. D. Alasonatti lo apre. Era il decreto che approvava e confermava il culto reso dai fedeli al Beato Cherubino, e ne concedeva la messa e l'ufficio a tutto l'Ordine degli Eremiti di S. Agostino e alla città ed archidiocesi di Torino. L'Oremus e le lezioni del secondo notturno eran quelle state composte da D. Alasonatti.

Egli lesse il decreto, stette un momento in silenzio, e finalmente esclamò:

- Sono proprio contento! Finalmente ho l'onore di leggere questo atto!

E, volgendo gli occhi lagrimosi al Cielo, aggiunse:

- Nunc dimittis servum tuum, Domine! Ora muoio contento! Non mi mancava pi√π altro che questa consolazione!

Il chierico gli disse: - Adesso, lei che ha tanto lavorato per l'onore di questo santo, sarà il primo a provare gli effetti della sua intercessione presso il Signore.

Non rispose subito, ma dopo qualche momento di silenzio:

- Domandare! E che ho da domandare? Me ne fa continuamente delle grazie, sicchè non ho niente da domandare.

- Potrebbe chiedere la grazia della sanità.

- No, no; non mi azzardo a domandarla, perchè non la merito. - E a quanti si accostavano a lui, facendo leggere quel decreto dimostrava come ne fosse felice.

Dovendolo assistere, io gli sedeva vicino ed anche a me disse:

- Legga! - e mi porse il decreto.

Com'ebbi finita la lettura, si mise a discorrere della malattia e del suo santo. Io taceva ed ascoltava, quando all'improvviso anch'egli si tacque: poi ripigliò:

- Ed ora Lei vada via... perchè io soffro molto nel parlare, e se lei mi è vicino è impossibile che io taccia. - E stringendomi la mano, ripetè:

- Io l'amo molto, e quando mi è vicino, non posso stare in silenzio.

M'alzai ed egli:

- Io sono proprio scortese con lei, ripigliò: ma che farei? Se incomincio a parlare non la finisco più. Non se l'avrà a male, non è vero?

- Con me non occorrono queste scuse, - dissi; e andai a sedermi a qualche metro di distanza.

Dopo brevi momenti mi chiamò, e mi disse sorridendo:

- Degli amici non si fa caso quando non se ne ha bisogno e si mandano via; ma quando si ha necessità dei loro aiuto, si chiamano. Lei dunque mi sostenga, perchè sento mancarmi le forze e mi accompagni in camera.

Come giunse in camera, si sedette e mi disse:

- Alle 3 desidererei fare un piccolo giro: vorrà avere la bontà d'accompagnarmi?

Ma invece di uscir di camera all'ora che aveva fissata, ne uscì alle 2. Desiderava visitare tutto il collegio. Entrò nella chiesa fermandovisi qualche istante in adorazione; perlustrò il giardino, i cortili, le scuole, i refettorii, le camerate; sembrava che volesse dar loro l'estremo addio. Alle 3 rientrò in camera dicendo di essere troppo stanco e si mise a letto.

- Andiamo incontro alla morte, diceva a chi l'aiutava, e si compose a pregare in devoto raccoglimento.

Verso sera, sollazzandosi gli alunni nel sottoposto cortile, gli fu chiesto se gli recassero disturbo e se si dovesse imporre loro moderazione o silenzio. Ed egli:

- Hanno appena questo poco spazio di tempo per ricrearsi, poveri figliuoli! Lasciateli divertire.

Poco dopo mi disse:

- Mi dica qualche cosa che mi serva in questo momento...

- Che cosa vuole che le dica?... Le dirò che è consolante il pensiero di aver sempre lavorato pel Signore.

- Non è questo... no ...; ciò che mi consola si è il pensare alla misericordia di Dio... Io sono tranquillo... Non sarà forse presunzione questa mia sicurezza?... Eppure cerco qualche argomento serio che mi umili e mi confonda, e non ci riesco.

- E conchiuse esclamando:

- Oh quanto bramo di unirmi al Signore: Cupio dissolvi et esse cum Christo!

Quindi die' ordine che appena fosse spirato, uno di noi tosto fosse corso all'Oratorio e facesse telegrafare a D. Bosco, se questi si trovasse ancora a Castelnuovo.

Varii chierici destinati a vegliarlo si trovavano allora nella sua stanza. Avendo dovuto far quelle veglie per più notti, pur essendo lungo il giorno occupati pei giovani, essi si trovavano molto spossati. Il morente se ne accorse e loro comandò che andassero a riposo, ed essi esitando, tanto disse e pregò che dovettero ritirarsi, rimanendo nella stanza il giovanotto Modesto Davico, suo compatriota, mandato da Torino alcun tempo prima, perchè all'occorrenza potesse prestargli i suoi servigi. Anch'io dovetti ritirarmi.

L'infermo aveva in quella sera tale aspetto di serenità che nessuno avrebbe presagito che fosse così prossimo al termine de' suoi patimenti. Ma non era ancora la mezzanotte quando, facendo uno sforzo per sorgere dal letto, chiamò Davico e gli disse:

- Dammi la veste; voglio alzarmi: mi manca il respiro: ho bisogno di passeggiare.

- Ma la temperatura è fredda, osservò il giovane; questa passeggiata potrebbe cagionarle un mal di costa.

- Soffoco, mio caro; ho bisogno di aria.

Il giovane infermiere lo aiutò a scendere dal letto e a vestirsi, e lo sostenne mentre egli s'incamminava verso la porta per recarsi all'aperto, ma fatti alcuni passi il buon sacerdote vacillò e si abbandonò su chi lo sorreggeva. Lo assalse allora qualche colpo di tosse e gli mancò la forza di espettorare, per cui il rantolo gli salì alla gola. Davico, spaventato, non potendo più reggere il peso di un corpo ormai inerte, nè afferrare la corda del campanello troppo lontano, si mise a gridare: -D. Alasonatti muore, D. Alasonatti muore! - Il morente rivolse il capo verso il giovane e lo fissò tranquillamente in volto.

Davico, vedendo che la sua voce non era ascoltata, lo posò adagio per terra, quindi si mise a correre per i corridoi battendo a tutte le porte e ripetendo: - D. Alasonatti muore!

Accorse pel primo il Ch. Sala, che sollevato da terra sulle robuste sue braccia il corpo del santo prete, lo depose sul letto. Con Sala giunsi pur io, ma non fui più a tempo per leggergli le preghiere degli agonizzanti; appena collocato sul letto, D. Alasonatti spirava. In quell'istante suonavano i tocchi della mezzanotte, che apriva la festa della Maternità di Maria Santissima. Il nostro caro Prefetto era morto in piedi, come un valoroso soldato di Dio. Il suo sacrificio era consumato!

Intanto erano accorsi i chierici che silenziosi contemplavano la spoglia esanime di colui che aveva tanto lavorato per loro; e inginocchiati recitarono le litanie della Madonna e il De profundis.

Un'ora dopo il chierico Nicolao Cibrario partiva da Lanzo a piedi e alle 8, percorsi circa 32 chilometri, annunziava a D. Bosco quella dolorosa perdita, consegnandogli una mia lettera nella quale erano descritti gli ultimi momenti del caro D. Alasonatti.

Fattosi giorno la salma, curata e rivestita, fu posta sopra un seggiolone. Il pittore Rollini ne ritrasse le sembianze e un suo amico scultore si prestò a prenderne anche la maschera. Alla sepoltura, che fu solennissima, presero parte i cantori ed altri dell'Oratorio.

Esaminate le carte che il sant'uomo aveva recate con sè, si trovarono due quadernetti, scritti di sua mano, che furono trasmessi a D. Bosco. Uno conteneva i suoi proponimenti degli Esercizi spirituali fatti a S. Ignazio nel 1861 e alcune preghiere alle piaghe di Gesù Crocifisso; l'altro era una scelta di giaculatorie ad ogni anche minima azione della giornata, tratte dai Salmi, e di alcune pratiche divote.

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