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Capitolo 24

Preoccupazioni perchè D. Bosco si fermi in Torino E' scelto a Direttore spirituale dell'Ospedaletto - Ne attira più il miele che l'aceto - Fruttuosa missione in Canelli - Segreto dell'efficacia di D. Bosco nella predicazione.


Capitolo 24

da Memorie Biografiche

del 23 ottobre 2006

 Vari illustri sacerdoti, fra i quali il Teol. Nasi, conoscendo quale tesoro di scienza e di virtù fosse D. Bosco, e osservando come tornasse necessario il suo zelo alla salute eterna di molti giovani, erano seriamente preoccupati pel timore che non fermasse sua dimora in Torino. Si presentarono pertanto a D. Cafasso per trovar modo d'impedire che l'Arcivescovo lo destinasse a qualche parrocchia lontana dalla città. D. Cafasso, il quale assolutamente non voleva che il suo alunno uscisse da Torino, si appigliò ad un temporaneo provvedimento per rattenerlo, senza trasgredire i regolamenti del Convitto Ecclesiastico. Recossi pertanto a far visita al Teol. Borel suo amicissimo, Cappellano emerito di S. M. e Direttore della Pia Opera dei Rifugio, - Teologo, gli disse D. Cafasso, vengo a pregarvi che accettiate in casa vostra e diate pensione ad un buon sacerdote!

Il Teologo meravigliossi di quella insolita proposta, e siccome non diceva mai basta quando trattavasi di confessare e di predicare, rispose subito: - Ma io non ho bisogno di coadiutori; nel Ritiro non vi è lavoro bastante neppure per me.

 - Fatemi questo favore, e ne sarete contento, Insisteva D. Cafasso; in quanto alla pensione la pagherò io stesso.

 - E che cosa farà in casa mia questo sacerdote? osservò il Teologo.

 - Sia libero di fare quello che meglio a lui piace, continuò D. Cafasso con un certo sorriso che indicava volergli fare un'improvvisata. Abbiamo al Convitto il giovane sacerdote Giovanni Bosco, che, come sapete, ha avviato un numeroso Oratorio festivo per giovani. L'anno scorso ha finito il corso di morale, durante quest'anno ha fatto da ripetitore in iscuola, e da confessore nella Chiesa pubblica. È tempo che sia impiegato e lasci ad altri il suo posto nel Convitto. Se gli permettiamo di andare da vice - parroco in qualche paese, è un prete perduto: avrebbe un campo troppo ristretto e non potrà fare quel gran bene, a cui il Signore lo chiama. Pensate un po' se vi è modo di trattenerlo con qualche impiego in questa Capitale. È cosa assolutamente necessaria. Dotato com'è di attività e di zelo, farà un gran bene alla gioventù. Egli è destinato dalla Provvidenza a divenire l'Apostolo di Torino.

Il Teol. Borel, già amico di D. Bosco, fu contentissimo della proposta, e prese sopra di sè quell'incarico. Avendo alcune settimane prima ricevuta commissione dalla Marchesa Barolo di cercarle un Direttore spirituale per l'Ospedaletto, andò subito a proporre D. Bosco. La Marchesa approvò la scelta, ma gli rispose che per l'accettazione del suo raccomandato dovevasi ancora aspettare vari mesi, perchè l'edificio, appena allora costrutto, fosse all'ordine. Ma il Teol. Borel però insistette: - Questo giovane prete, dicevale, conviene pigliarlo subito, perchè altrimenti sarà mandato altrove, e non si potrà più avere per noi. D. Bosco è tale sacerdote, che io conosco non doversi lasciar sfuggire. La Marchesa allora acconsentì di assegnare a D. Bosco, e dargli fin d'allora, cioè sei mesi prima che entrasse in carica, lo stipendio di 600 lire annue, e il Teol. Borel stabiliva di cedergli per alloggio una delle sue camere al Rifugio.

Mentre veniva condotta a buon termine questa pratica, erasi alla metà di settembre. D. Cafasso, volendo mettere alla prova D. Bosco, lo chiamò a sè e quasi avesse dimenticato il solenne consiglio datogli alcuni mesi prima, gli disse: - Ora avete compiuto il corso dei vostri studi; uopo è che andiate in aperto campo a lavorare in pro delle anime: in questi tempi i bisogni son molti, e la messe abbondante. A quale cosa vi sentite specialmente disposto?

 - A quella che ella si compiacerà d'indicarmi, rispose D. Bosco.

 - Vi sono tre impieghi: da Vice - Curato a Buttigliera d'Asti, da Ripetitore di morale qui al Convitto, e da Direttore dell'Ospedaletto presso al Rifugio. Quale scegliete voi?

 - Quello che Ella giudicherà.

 - Non sentite propensione più ad uno che ad un altro?

 - La mia propensione è di occuparmi della gioventù. Ella poi faccia di me quello che vuole: io riconoscerò la volontà dei Signore nel suo consiglio.

 - In questo momento che cosa occupa il vostro cuore? che si ravvolge nella vostra mente?

 - In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi domandano aiuto.

 - Andate dunque a fare qualche settimana di vacanza, conchiuse quell'uomo dei consigli; in questi giorni penserò al vostro posto; al ritorno vi dirò la vostra destinazione.

D. Bosco aveva deciso di andare a Canelli. Il mattino della partenza, mentre si vestiva, D. Cafasso lo mandò a chiamare e gli disse: - Desidero che mi diciate se avete pensato a ciò che vi ho detto.

 - Se interroga me, rispose D. Bosco, io preferisco il Convitto e prepararmi alla conferenza della sera.

 - Bene, andate a compiere i vostri affari.

D. Bosco aveva detto di propendere piuttosto alla scelta del Convitto non sapendo in quale altro luogo avrebbe potuto radunare i suoi piccoli amici.

Egli intanto partiva da Torino, pernottava in Asti e di qui avviavasi verso Canelli con D. Carlo Palazzolo per dettare un corso di esercizi a quella popolazione. Camminavano a piedi ed il viaggio era abbastanza lungo, quando furono sorpresi da un acquazzone che durò molto tempo. Non avendo più filo indosso che fosse asciutto, verso sera si diressero verso una cascina prossima allo stradone non lungi da Riva di Chieri, proprietà di un certo Genta. Costui, occupato nell'infornare il pane, appena li vide comparire così malconci, temette che fossero malviventi travestiti; ma poi, conosciutili per uomini dabbene, fece loro ogni più onesta accoglienza; li mutò di panni, imbandì una buona cena e corse ad una cappella lontana per avere breviario e calendario. Il cappellano, saputo l'arrivo di que' forestieri, venne a salutarli e s'intrattenne a conversare con loro fino a mezzanotte. Dopo un necessario riposo, si rimisero in viaggio al domani. Via facendo raggiunsero un carrettiere, il quale di quando in quando, per eccitare i suoi cavalli, proferiva orribili bestemmie. D. Palazzolo non potè contenersi, e rivolto al carrettiere: - Queste, esclamò, sono le vostre giaculatorie? È in questo modo che si profana da voi il nome di Dio? - E su questo tono continuò a rimproverarlo. Il carrettiere, irritato, prese ad inveire: non voler sopportare rimproveri; i preti non essere migliori degli altri, quindi badasse a sè, perchè altrimenti si sarebbe trovato a mal partito. - D. Palazzolo rispose per le rime; la questione poteva farsi seria, quando. D. Bosco si intromise. Dopo aver pregato il compagno che lo precedesse a Canelli, omai poco distante, e che facesse la predica d'introduzione, si mise ai fianchi del carrettiere che sbuffava. Scusato il compagno, compativa la vita dura di quell'uomo, e lodatolo per essere galantuomo, lo calmò, entrò in discorsi famigliari e non tardò a farselo amico. Quindi, senza che l'altro se ne avvedesse, lo fece convenire doversi rispettare il santo nome di Dio, gli parlò dei castighi minacciati ai bestemmiatori e finì con invitarlo a confessarsi.

 - Sono pronto, rispose commosso il carrettiere; ma dove?

D. Bosco gli additò un prato ombroso vicino alla strada. Il carrettiere fermò il carro, D. Bosco si assise ai piedi di un albero, e il penitente si inginocchiò e si confessò con molta compunzione. Pieno di contentezza; continuò quindi insieme con D. Bosco un lungo tratto di strada. Nel dividersi non, trovava parole per esprimergli la sua riconoscenza.

D. Bosco nell'entrare in Canelli fu colpito vivamente dalla parola di un giovanetto, il quale ad un compagno che venivagli incontro chiedendogli: - Dove vai? - Vado all'uva - aveva risposto l'interrogato. Questa parola risuonò all'orecchio di D. Bosco con un affetto magico quasi presagio che una grande vendemmia gli preparava il Signore. Nella più tarda età ricordava ancora con amore questa minima circostanza di quel viaggio, tanto gli era profondamente impressa.

Egli predicò in Canelli per otto o dieci giorni, e di qui si rimise in cammino per Castelnuovo ove pure tenne sermone nella novena del SS. Rosario, confessando molta gente, siccome aveva fatto eziandio a Canelli. Grandissimo era il frutto che la sua predicazione produceva in mezzo alle popolazioni di campagna ed ai fanciulli, per il suo metodo speciale nell'istruire e commuovere la gente rozza ed ignorante. “ Fu cosa veramente ammirabile, e più mirabile riusciva a me stesso, narrava poi D. Bosco, poichè nelle mie prediche, ascoltate sempre con tanta avidità, non diceva per nulla cose nuove o preparate. Trattava argomenti che il prete meno istruito sa meglio di me. Fu in queste predicazioni dove io mi avvidi che, per piacere e far del bene al popolo, non ci vogliono cose sublimi o straordinarie e rare, ma che il popolo ha bisogno di capire, vuole capire ciò che il predicatore dice. Se capisce, è contento; se non capisce tutto, si annoia. Fu nel continuo esercizio di tante prediche fatte in questo modo che io imparai a predicare, e credo che se io avessi studiato lutti i trattati dell'arte oratoria e letti tutti i più celebri predicatori, non sarei riuscito per certo a fare del bene al popolo. Dispiace per lo più alla gente rozza quel discorso così diviso; che dopo l'esordio il predicatore dica incomincio, e poi si segga. Così pure che ad un certo punto, per esempio prima della perorazione, si segga di nuovo, senza che il popolo ne vegga il perchè. Eccetto quando si ha da raccomandare l'elemosina, io sono di parere che la predica si debba esporre tutta in un tratto solo. Poi c'è bisogno di spiegare e andare alle circostanze anche minutissime di quel fatto, da cui si vuol trarre una moralità. Ma sovratutto e più di tutto, io lo ripeterò mille volte, bisogna che il popolo capisca, che tutto ciò che si dice sia alla portata della sua intelligenza, ma che nulla si esponga che presenti difficoltà ed oscurità. Alcune volte saranno cose anche triviali, ma sminuzzate molto, finiscono per fare grande impressione. Io mi slanciava senza metodo e senza regole oratorie compassate, badando solo ad essere capito, ed a colorire un po' quelle particolarità che al popolo per lo più dánno nel genio. Perciò folle innumerevoli venivano ad ascoltarmi con piacere. Non sarebbero venute se avessi avute le mie prediche preparate con esordio e prima e seconda parte: col dire col mio primo punto voglio provarvi, e col mio secondo punto passerò a provare.  

Queste arti hanno troppo del magistrale ed il popolo non le capisce. ” Per prepararsi ed avere un certo qual ordine nella predica, cosa principale io credo che sia definir bene l'argomento. Ciò fatto, lo schema della predica deve venir naturalmente da sè. Avuto lo schema ben preparato, tutto è fatto; le parole le daranno le circostanze. L'esordio si prenda da qualunque circostanza di luogo, di tempo, di occasione. Di utilità massima sono le similitudini, le parabole, e altresì le favole è gli apologhi. Con questi si può fermar tanto nelle menti una verità, che non scappi più per tutta la vita. Ricordo ancora adesso l'impressione che feci in una predica, nella quale voleva spiegare che Dio bene omnia fecit, che cioè è Dio che dispose tutte le cose come sono, e l'insieme è di un ordine mirabile e tutto rivolto al bene dell'uomo, per esortare il popolo a prendere tutto ciò che gli avviene come direttamente mandatogli da Dio. Raccontai questa parabola: Un viaggiatore stanco dal cammino si fermò all'ombra di alcune querce e guardando qua e là, andava dicendo tra e se: - Chi sa perchè il Signore a queste piante grossissime ed altissime, come sono le querce, diede frutti così piccoli quali sono le ghiande? Ecco lì una pianta di zucche tutta brutta e piccola, che non si può nemmanco tener su da sè! E Dio perchè le diede un frutto così grosso? Che bel vedere farebbero quelle zucche così grosse, pendenti lassù dai rami della quercia! Veder da tutte le parti della quercia pendere tante centinaia di zucche! Ed in questi pensieri si addormentò. Intanto, ad un lieve soffio di vento, cade una ghianda, colpisce il viaggiatore sul naso e lo sveglia di un colpo. - Ah Signore, gridò quell'uomo saltando in piedi e toccandosi il naso che doleagli forte, avete fatto proprio bene a piante sì alte dar frutti così piccoli; se fosse stata una zucca che da quell'altezza mi fosse caduta addosso, mi avrebbe sfracellata la testa, e già sarei all'altro mondo!

” Un'altra volta volevo far restare ben impresso nella mente de' miei uditori qual follia fosse l'insuperbire, l'invanirsi; come fare? Avessi recato tutti i testi della Sacra Scrittura e dei Santi Padri a questo proposito, i giovanetti ne avrebbero fatto ben poco caso. Si sarebbero annoiati e avrebbero dimenticata presto la lezione. Raccontai adunque loro molto particolareggiata, con nuove circostanze da me inventate, la favola di Esopo, dove dice che una rana voleva farsi grossa come un bue; ma tanto gonfiò, che in fine crepò. Figurai questo fatto avvenuto vicino al Valentino, con mille svariate ridicole circostanze, e feci far dialogo tra questa ed altre rane, per far risaltare alcuni punti morali. L'effetto mi parve straordinario. Eppure che cosa c'è di più triviale di questo racconto?”

Così diceva D. Bosco, il quale però non predicava a vanvera come qualcuno potrebbe supporre per scusare la propria infingardaggine; ei traeva i suoi argomenti dai tesori delle sacre scienze dei quali erasi largamente provveduto, e tenendo d’occhio l'ordine logico ed oratorio col quale aveva scritto moltissime prediche. Ma sopra tutto il segreto per cui riuscì predicatore efficace delle persone ignoranti ed istruite si è che non predicava se stesso, sì bene Nostro Signor Gesù Cristo. - È sapiente colui, così l’Ecclesiastico, che è sapiente per l'anima propria: e i frutti della prudenza di lui sono degni di laude... Istruisce il suo popolo e i frutti del suo sapere sono fedeli. L'uomo sapiente sarà ricolmato di benedizioni; sarà in onore presso del popolo, e il nome di lui vivrà eternamente.

 

 

 

 

 

 

 

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