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Capitolo 27

Il 1848 - Costante fermezza di Mons. Fransoni - Carlo Alberto promette lo Statuto - Emancipazione dei Valdesi - D. Bosco si rifiuta di partecipare alle dimostrazioni politiche - È chiamato in Municipio.


Capitolo 27

da Memorie Biografiche

del 08 novembre 2006

 L'anno 1848 dava principio a grandi avvenimenti. Le sette cosmopolite erano pronte ad entrare in azione. Da un'estremità all'altra d'Italia si chiedevano ai principi le riforme civili. I giornali del Piemonte erano pieni delle invenzioni di sevizie, angherie, oppressioni fatte soffrire dagli Austriaci ai Lombardo-Veneti e in Torino formidabili si levarono le grida di guerra e di abbasso all'Austria, la quale ingrossati i presidii nelle province italiane del suo, dominio, vi teneva in arme 80.000 uomini. Ma a queste grida si frammischiavano ancor più feroci quelle di morte ai Gesuiti, perchè i settari spargevano la voce che questi religiosi fossero partigiani dell'Austria e che Carlo Alberto a loro istigazione non avesse concessa l'amnistia per i delitti politici, la guardia civica e la diminuzione del prezzo del sale. Gli scritti del Gioberti avevano eziandio acceso l'odio contro le Dame del Sacro Cuore spacciandole affigliate alla Compagnia di Gesù.

Intanto Carlo Alberto credeva ancora di poter comporre insieme le pretensioni rivoluzionarie e le regie prerogative di monarca assoluto: Egli aveva detto: - La Costituzione io non la darò mai! - Ma il 7 gennaio i Capi del giornalismo piemontese si radunavano per domandargliela. Era una rispettosa minaccia, e il Sovrano ne rimase perplesso ed impaurito. Ed ecco che il 12 gennaio scoppiava sanguinosa la rivoluzione in Sicilia, preparata dai mazziniani, mentre minacciavano di sollevarsi le province napoletane; e Ferdinando II concedeva la Costituzione, imitato poco dopo dal Granduca di Toscana. Come una scintilla elettrica il primo febbraio, con queste notizie, si sparge nella cittadinanza torinese il motto d'ordine: - Non vogliamo essere al disotto della Toscana e di Napoli. 

E Brofferio e Azeglio colle bande dei demagoghi venuta la sera correvano per le strade colle torce accese, e serenando quasi tutta la notte sotto le finestre del Ministro Napolitano, acclamavano la Costituzione con alti e rumorosi evviva. Si voleva pure che per questo motivo l'Arcivescovo concedesse di cantare un “Te Deum” nella chiesa di S. Francesco di Paola, ma si ebbe una risposta negativa. Questo franco contegno di Mons. Fransoni irritava quei capoccia che volevano la libertà per tutti, fuorchè per il clero. Una turba di mascalzoni aveva già di pieno giorno mandate grida furiose sotto le finestre del suo palazzo, ed altra volta, circondata la sua carrozza mentre tornava da visitare il Teol. Guala gravemente infermo nel convitto Ecclesiastico, lo insultava con fischi ed urla.

In questi giorni assemblee incessanti e sinistre incominciarono a pretendere un governo liberale. Re Carlo Alberto fu avvertito dai ministri della necessità di dare la Costituzione prevedendosi altrimenti inevitabile un conflitto tra il governo e il popolo. L'immensa maggioranza dei cittadini era a siffatte novità o indifferente o contraria, ma i pochi s'imponevano ai molti. Il 5 febbraio gran folla si assembrò in piazza Castello.

Una deputazione del Municipio andò a chiedere al Re la promulgazione delle Istituzioni rappresentative e la milizia cittadina. Il 7 febbraio Carlo Alberto, profondamente commosso per l'importanza della concessione che doveva fare, sedeva coi Ministri in pieno consiglio. Fissando i punti principali dello Statuto, insistette che in quanto alla libertà della stampa, per i libri religiosi, si richiedesse la permissione Vescovile, e che la proprietà Ecclesiastica rimanesse assolutamente intangibile. Stringendo il tempo e il differir più oltre potendo diventar esiziale, l'8 febbraio fu promulgata la promessa dello Statuto esponendone in 14 articoli i punti fondamentali: I poteri del Re; le due camere legislative; il modo di imporre i tributi; la libertà della stampa soggetta a leggi repressive; la libertà individuale garantita; l'inamovibilità dei giudici; l'istituzione della milizia comunale. Con ciò Carlo Alberto si spogliava di una parte di sua regia autorità per investirne il popolo rappresentato dalla Camera dei Deputati e dal Senato, mutando così il suo governo assoluto in governo costituzionale.

Questa promulgazione fu seguita da nuove e caldissime manifestazioni popolari, ma il Municipio non diede esecuzione alla deliberata luminaria generale, avendo il Re fatto conoscere che non gli andava a grado. Il 9 febbraio molti chierici uscirono di bel nuovo dal Seminario andando a passeggio per la città colla coccarda sul petto, riscuotendo così le lodi dei giornalismo rivoluzionario che li eccitò a nuove ribellioni. Intanto D. Bosco continuava ogni giorno a stare per più ore presso il suo Arcivescovo.

Il 12 febbraio ebbe luogo una funzione di ringraziamento nella chiesa del Miracolo con l'intervento dei decurioni, celebrando il Sacro Rito l'Arcivescovo, il quale con lettera assai breve lo stesso giorno dava facoltà a tutte le chiese della Diocesi di cantare un solenne “Te Deum”. Si attendeva da tutti che Mons. Fransoni, come avevano fatto altri Vescovi, desse qualche cenno sullo Statuto nell'annunciare l'indulto della vicina quaresima che aveva principio l'8 di marzo. Ma egli nella lettera pastorale del 24 febbraio ne tacque, e raccomandò ai parroci che nelle prediche non entrassero in cose politiche. Questo scritto fu dai liberali severamente giudicato e preso come evidente argomento di avversione alle concesse franchigie, e quindi si macchinava il modo di allontanare l'Arcivescovo dalla Diocesi.

Intanto la supplica per l'emancipazione dei Valdesi e degli Ebrei era stata in parte esaudita dal Re, e il 17 febbraio un decreto dichiarava essere ammessi i Valdesi a godere di tutti i diritti civili e politici, a frequentare le scuole dentro e fuori della università e a conseguire i gradi accademici. Nulla però sì innovava di quanto era in vigore sull'esercizio del loro culto e le scuole da essi dirette. Si andava perciò dì festa in festa.

Il 27 febbraio il Municipio deliberò di celebrare pomposamente la promessa dello Statuto con una messa solenne e un “Te Deum” nella chiesa della Gran Madre. Monsignor Fransoni fu pregato di presiedervi e dar facoltà di cantare la S. Messa sotto il portico di quella. Egli ricusò questa licenza e di intervenirvi, e solo permise che di là si desse la benedizione col SS. Sacramento. La dimostrazione fu quella di una processione pubblica splendidissima. La gente concorsavi da tutto il Piemonte, dalla Liguria, da Nizza, dalla Savoia, dalla Sardegna e dalla Lombardia gremiva l'immenso tratto di strada che si stende dalla reggia fino all'altra riva del Po. Vi intervenne il Re coi principi, il Municipio, le deputazioni dei Comuni coi propri gonfaloni, quelle delle province, le società artigiane e in capo ad esse una comitiva di Valdesi. La moltitudine cantava a piena gola: Fratelli d'Italia,  l'Italia si è desta. Molti chierici, non ostante un nuovo e preciso divieto dell'Arcivescovo, si erano recati sopra un terrazzo in via Po. Quell'immensa processione non aveva ancora bene spiegati i suoi giri sinuosi, quando giunsero da Parigi i primi dispacci che annunziavano la caduta, di Luigi Filippo, la guerra civile nelle strade di Parigi e la proclamazione della Repubblica in Francia. L'annunzio di quella catastrofe colpì il Re di tanto sgomento, che non lo, seppe dissimulare nè con le parole, nè col colore del volto. Se un tale avvenimento fosse accaduto un mese prima, non avrebbe certamente concessa la Costituzione. Il Prevosto della Metropolitana, assistito da quattro canonici e da altri del clero impartì dall'alto della maestosa gradinata la benedizione col SS. Sacramento. Ma quel tripudio e il contegno della moltitudine fu una vera profanazione del giorno festivo, e i buoni ne trassero un triste presagio.

Il Marchese Roberto d'Azeglio quella stessa sera vide varie centinaia di Valdesi, concorrere intorno alla sua casa con i loro pastori a cantargli l'inno della loro allegrezza, come fecero in quello stesso giorno gli Ebrei del ghetto torinese iniziati da lui alla gloria e alla felicità della nuova Italia. E ben si meritava questi applausi. Le sette avevano, organizzato quella sfilata fin dal principio dell'anno per imporre al Re la Costituzione, e l'esecuzione era stata commessa al Marchese, il quale si adoperò colla solita maestria, invitando con lettere e circolari i municipi ad accorrere. Avendo il Re ceduto prima, quell'immensa dimostrazione aveva servito a festeggiare la promessa dello Statuto. Fu un tradimento che per forza delle cose si mutava in trionfo. Forse Carlo Alberto lo ignorò. Ma l'astensione dell'Arcivescovo e di D. Bosco è prova della loro mirabile prudenza.

Infatti anche a D. Bosco si era presentato il Marchese Roberto d'Azeglio invitandolo con insistenza che alla testa dei suoi giovanetti volesse partecipare con tutti gli altri Istituti di Torino alla festa spettacolosa nella piazza Vittorio Emmanuele. Più volte si era intrattenuto con lui famigliarmente nelle case patrizie di Torino, e si teneva certo che avrebbe accondisceso. Ma D. Bosco gli rispondeva: - Signor Marchese, questo ospizio ed oratorio non forma un ente morale: esso non è che una povera famiglia, la quale vive della carità cittadina; e noi ci faremmo burlare se facessimo di simili comparse.

 - Per lo appunto, riprese il nobile patrizio; sappia la carità cittadina che quest'opera nascente non è contraria alle moderne istituzioni. Ciò le farà del bene; aumenteranno le offerte, ed io stesso ed il Municipio largheggeremo in suo favore.

 - Io la ringrazio dei suo buon volere, ma è mio fermo proposito di attenermi all'unico scopo di fare del bene morale ai poveri giovanetti, per mezzo dell'istruzione e del lavoro, senza ingombrare loro il capo d'idee che non sono da essi. Coi raccogliere giovanetti abbandonati e con l'adoperarmi di renderli alla famiglia ed alla società buoni figli ed istruiti cittadini, io fo vedere abbastanza chiaramente che l'opera mia, lungi dall'essere contraria alle moderne istituzioni, è anzi tutta affatto conforme ed utile alle medesime.

 - Capisco tutto, soggiunse il D'Azeglio, ma lei si sbaglia, e se persiste in questo sistema l'Opera sua sarà da tutti abbandonata e si renderà impossibile. Bisogna studiare il mondo, mio caro Don Bosco, bisogna conoscerlo e portare gli antichi e moderni istituti all'altezza dei tempi.

Le sono riconoscente dei consigli che mi dà, ottimo signor Marchese, e saprò trarne profitto; ma Lei mi perdoni se io non posso con i miei giovanetti fare atto di presenza alla prossima festa. La S. V. m'inviti a qualche luogo, a qualche opera in cui il sacerdote possa esercitare la sua carità, e mi troverà pronto a sacrificare sostanze e vita; ma io non voglio turbare la mente dei miei giovani col farli assistere a spettacoli, dei quali non sono in grado di apprezzare il vero significato. E poi, signor Marchese, nelle condizioni in cui mi trovo è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca a politica. Non mai pro, non mai contro.

D. Bosco intanto gli faceva vedere la sua casa e gli parlava dei suoi progetti futuri, mentre gli raccontava con quale regolamento giornaliero occupasse i giovanetti. Il Marchese ammirando ogni cosa lodava altamente tutto, ma giudicava: tempo perduto quello che s'impiegava nelle lunghe preghiere, e diceva che a quell'anticaglia di 50 Ave Maria infilzate una dopo l'altra non ci teneva guari e che D. Bosco avrebbe dovuto abolire quella pratica noiosa.

 - Ebbene, rispose amorevolmente D. Bosco: io ci sto molto a tale pratica: e su questa potrei dire che è fondata la mia istituzione: e sarei disposto a lasciare piuttosto tante altre cose ben importanti, ma non questa; e anche se facesse d'uopo rinunzierei alla sua preziosa amicizia, ma non mai alla recita del S. Rosario.

Trovato D. Bosco irremovibile nel suo principio, il nobile uomo se ne partì, e da quel giorno non ebbe più alcuna relazione con lui.

Ma queste replicate ripulse di D. Bosco a non voler comparire tra le file dei dimostranti, la sua illimitata devozione al Capo della Chiesa ed all'Arcivescovo, non erano ignorate da chi sorvegliava perchè non sorgesse qualche improvviso moto reazionario. Chi era avvezzo da tanti anni alle congiure, ad ogni passo temeva che i supposti avversari adoperassero le stesse sue armi; e i lunghi e giornalieri colloqui di D. Bosco con Mons. Fransoni, e le centinaia di giovani che parevano pronti ad ogni suo cenno, avevano accresciuti i sospetti. Perciò di quando in quando egli fu chiamato agli uffici del palazzo municipale, ove fra gli impiegati era vivo il fermento per la mutazione di forma nel governo. Alcuni di quei signori lo sollecitavano a manifestare le proprie opinioni e a fare qualche atto che lo mettesse in onore presso il partito liberale. Ma D. Bosco non diede loro che mezze risposte. Rifiutare era un dichiararsi nemico dell'Italia, accondiscendere valeva un'accettazione di principi che egli giudicava di funeste conseguenze. Quindi non condannava mai nessuno e non approvava. Vi fu chi gli disse sdegnosamente: - E non sa lei che la sua esistenza sta nelle nostre mani? - Ma D. Bosco fece le viste di noti intendere la minaccia. Si era presentato col fare di un buon uomo, colla barba da radere, colle vesti indosso più che dimesse colle scarpe quasi rosse e camminando alquanto grossolanamente. Sembrava uno dei più romiti cappellani di montagna. Perciò gli impiegati del municipio, che in quei giorni lo conoscevano solo per nome, finirono cori averlo in concetto di persona da non curarsi, quasi fosse uomo misero di mente; ed egli rendendosi trascurabile non era temuto. Ci par quasi di vedere riprodotto lo stratagemma di David alla Corte di Achis re di Seth.

 

 

 

 

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