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Capitolo 29

Abiura di due protestanti - Lettera di Savio Domenico a suo padre - Singolare scoperta di un ammalato - Gravissima infermità del Re - D. Bosco non accetta gli oggetti confiscati nei conventi - Letture Cattoliche VITA DI S. MARTINO VESCOVO DI TOURS -LA FORZA DELLA BUONA EDUCAZIONE - La banda istrumentale nell'Oratorio - Gita a Castelnuovo e la festa del S. Rosario - D. Bosco e i figli de' signori accollo nell'Oratorio Gavio Camillo.


Capitolo 29

da Memorie Biografiche

del 28 novembre 2006

         Siamo sul finir dell'agosto 1855. Nel numero dell'Armonia, 27 del mese, trovasi la seguente cara notizia: “ ABIURE ALL'ORATORIO DI SAN FRANCESCO DI SALES. È  sempre consolante per noi il poter registrare le nuove prede rapite all'eresia a dispetto di tutta la rabbia libertina per iscreditare i dommi e la morale della Chiesa Cattolica. L'ottimo sacerdote D. Bosco, che così attivamente lavora colle opere e cogli scritti a benefizio della classe popolana, raccoglie sovente i frutti del suo zelo anche nel campo dell'eresia. Eccone un nuovo saggio:

         ” Sabato diciotto del corrente nella chiesa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, due seguaci di Calvino, padre e figlio, rinunziarono all'eresia per ritornare alla religione cattolica, apostolica, romana, da cui i loro antenati sgraziatamente si allontanarono. Il Sig. Marchese Domenico Fassati era padrino; la pia di lui consorte Marchesa Maria nata De - Maistre ne era madrina ”.

     In questo stesso mese il coléra era ricomparso in Torino, ma, grazie a Dio, in modo assai mite. D. Bosco e i suoi giovani erano pronti per l'ufficio d'infermiere e per l'assistenza spirituale, ma non ve ne fu bisogno. I tocchi dal morbo guarivano, e pochi ne morirono.

   Ne scrisse a suo padre il giovanetto Savio Domenico che erasi già restituito nell'Oratorio. Questa lettera noi la conserviamo religiosamente nell'archivio.

 

Carissimo Padre,

 

Ho una novella molto curiosa da scrivervi, ma prima di tutto vi do delle mie nuove. Io ringraziando il Cielo fin qui sono sempre stato bene e ancor godo una perfetta salute, come pure spero di voi e di tutta la famiglia. I miei studi vanno avanti progressivamente e D. Bosco ne è ogni ora più contento. La novella è che avendo potuto stare un'ora, solo, con D. Bosco, siccome per lo addietro non ho mai potuto stare dieci minuti solo, gli parlai di molte cose, tra le quali di un'associazione per l'assicurazione dal coléra. Mi disse che il morbo è in sul principio e se non fosse del freddo che già s'inoltra, forse farebbe un grande guasto. Mi ha anche associato ad una sua compagnia, il che sta tutto in preghiere. Gli parlai anche di mia sorella come voi mi avete detto, e mi disse che la conduciate a casa sua alla festa della Madonna del Rosario per giudicare della sua capacità e delle altre qualità che ha. Quindi v'intenderete. D'altro non mi resta che a salutare voi e tutta la famiglia, il mio maestro D. Cugliero, ed anche Robino Andrea ed anche il mio amico Savio Domenico di Ranello. Sono il vostro

         Torino, 6 settembre 1855

Aff. ed amantissimo figlio

Savio Domenico

 

 

 

La festa della Natività di Maria Vergine si celebrò con affetto dai giovani in Valdocco, e fu rallegrata da una piccola accademia, nella quale si presentarono al Prefetto D. Alasonatti Vittorio alcuni sonetti classici che inneggiavano il celeste avvenimento. Ma in questo giorno la gioia di D. Bosco fu più viva per un fatto alquanto singolare e fors'anco prodigioso.

  In una casa, situata in via Cottolengo non lungi dal pio Istituto del Rifugio, portavasi a lavorare una buona, ma povera donna. Ella vi rimaneva lungo il giorno, e nella sera, eccettuate rarissime volte, ritornava a casa sua. Per comodità di lei il padrone lasciava a sua disposizione un oscuro stanzino presso al solaio, dove quella riponeva qualche oggetto di sua spettanza e prendeva un po' di ristoro. Or bene, il giorno 8 di settembre, Savio Domenico si presenta in quel sito e domanda al padrone: - Vi è forse qui alcuna persona presa dal coléra? - No, per grazia di Dio, qui non ve n'è alcuno, rispose colui. - Eppure qui ci deve essere qualche infermo che sta male, riprese il giovinetto. - Scusa, buon ragazzo, conchiuse il padrone, tu avrai presa una casa per un'altra; ma qui in fede mia siamo tutti sani e fuori del letto. - Ad una negativa così recisa il nostro fanciullo se ne esce di là un momento, dà uno sguardo all'intorno, e poi rientra e dice al padrone: - Mi faccia il favore di osservare attentamente, perchè in questa casa vi deve essere una malata. A questa graziosa insistenza quell'uomo accondiscese a fare una visita per la sua casa. Insieme col giovanetto passa dall'una all'altra stanza, finchè giunge eziandio in quel nascosto bugigattolo. Colà appunto con sua dolorosa sorpresa egli trova rannicchiata quella povera donna, ridotta agli estremi di vita. Credeva il padrone che la sera. innanzi, secondo il solito, ella si fosse recata a casa, ed invece, salitavi forse per un po' di riposo, era stata colpita dal coléra all'insaputa di tutti, e non aveva avuto forza di chiedere soccorso. Le si chiamò subitamente il Sacerdote, il quale, confessata che l'ebbe, ed amministratale l'Estrema Unzione, la vide spirare nel bacio del Signore.

  Intanto nuova disgrazia turbava la Casa Reale. Sua Maestà, nel mese di settembre, venne colta nel castello di Pollenzo da una febbre intensa, con artritide acuta e, diffusa a molte articolazioni. La malattia fu gravissima e mise tutto il regno in grande ansietà; ma come Dio volle si sviluppo un'eruzione migliare che fece il suo regolare periodo, e a poco a poco il Sovrano si ristabilì. Il 27 settembre però era stato obbligato a delegare il principe Eugenio di Savoia Carignano a provvedere in suo nome sugli affari correnti d'urgenza, firmando i decreti reali.

  La legge emanata contro i conventi continuava a portare tristi frutti, poichè non si era dato ascolto alla voce di un suddito fra i più fedeli, il quale per amore dello stesso Re aveva arrischiata la libertà, l'Oratorio, la stessa vita. Tuttavia i ministri nulla avevano mosso contro di lui, perchè troppo importava il silenzio su tale argomento.

  Trovarono però il mezzo, direi, di una rappresaglia, e quasi per ironia, cercarono di fargli accettare una parte della preda tolta ai conventi. Un bel giorno Cavour Camillo mandò in regalo all'Oratorio due carri grossi, carichi di biancheria stata confiscata nel convento dei Domenicani. Benchè D. Bosco si trovasse allora in grandi strettezze, pure comandò che i carri rimanessero in cortile e che nessuno toccasse quella roba. Quindi spedì un dispaccio al Superiore dei Domenicani chiedendo il da farsi. Ebbe per risposta: - Consegnate quella biancheria a chi manderò per ritirarla. - Venne l'incaricato, e D. Bosco fatti riattaccare i muli ai due carri, li mandò ove il Padre Superiore aveva indicato.

   Altra volta giunse un carretto di libri tolti ai frati Cappuccini e fra quelli eranvi i volumi de' Bollandisti. D. Bosco ne avvertì subito i proprietarii e li restituì appena richiesto.

   Egli ebbe sempre ripugnanza a comperare beni dei conventi soppressi. Gli oggetti si vendevano a prezzo vilissimo, ed era il caso di fare un buon mercato. Taluni facevano osservare a D. Bosco come tanti sacri paramenti andassero a finire in mano agli Ebrei, fossero impiegati ad uso profano e quindi la convenienza del riscattarli. D. Bosco replicava:

     - Tutte ragioni belle e buone. Vedo ancor io che sarebbe il momento opportuno di provvedere le mie chiese di tanti oggetti che mi mancano, e che non so quando potrò provvedermeli. Ma io penso che se la mia casa fosse soppressa non vorrei entrare nelle chiese altrui e vedervi oggetti che a me fossero stati tolti. Ciò mi cagionerebbe troppo dolore. Gli stessi sentimenti di angoscia son certo che proverebbero i religiosi, che mi vedessero, vestito delle loro spoglie.

   Così pure non volle mai accettare conventi o monasteri, che ora il governo, ora i municipii, ora i privati gli andavano offerendo, sia in dono, sia per vendita. Si piegò solo a comprarli quando Pio IX, al quale aveva manifestati i proprii pensieri e le proprie ripugnanze, gli disse: - Prendete pure i conventi soppressi. Lo voglio. È  meglio che per mezzo vostro ritornino alla Chiesa, piuttosto che rimangano in mano ai secolari, che ne faranno quell'uso che Dio solo può sapere. Procurate però di ottenere le debite autorizzazioni, e ciò solamente per ovviare complicazioni o dissidii cogli Ordini religiosi che prima ne erano al possesso.

   In mezzo ai suddetti avvenimenti il Tipografo Ribotta aveva stampati i due fascicoli del mese di ottobre. Comprendevano la Vita di S. Martino Vescovo di Tours e tre appendici: I. L'invocazione, le reliquie, il culto dei santi e loro efficace intercessione presso Dio, approvata dalle carte del vecchio e del nuovo Testamento, dalla tradizione e da miracoli senza numero; 2. La morte gloriosa dell'arabo cristiano Geronimo, murato vivo in un bastione di Algeri perchè non volle rinnegare Gesù Cristo; 3. Una nota sul Purgatorio, che accenna quale sia la dottrina della Chiesa Cattolica su tale dogma, e come questa dottrina sia,contenuta nella Bibbia.

   D. Bosco che era autore di questo libro, ne aveva incominciato a scrivere un altro per i due fascicoli di novembre, col titolo: La forza della buona educazione. Curioso episodio contemporaneo. È il giovane Pietro che converte il padre suo coll'ottima e paziente condotta. Il volumetto finiva con litanie tenerissime in suffragio dei defunti, tradotte dall'inglese, e serviva di prova che i Cattolici d'Inghilterra erano d'accordo coi Cattolici d'ogni parte del mondo sul dogma del Purgatorio, al quale tutto quel regno unito credeva fermamente prima della riforma.

   Paravia ebbe incarico di pubblicarlo nel tempo stabilito.

  Ordinate queste cose, D. Bosco verso i primi di ottobre si avviò ai Becchi per la festa del Rosario. Questa passeggiata era anche un premio promesso ai giovani più obbedienti, i quali un nuovo allettamento ebbero in questo anno: la banda musicale.

   D. Bosco avevala organizzata fra gli artigiani come un altro mezzo che giudicava convenientissimo per allontanare i giovani dal male. Diceva: - I ragazzi bisogna tenerli continuamente occupati. Oltre la scuola o il mestiere è necessario impegnarli a prendere parte alla musica od al piccolo clero. La loro mente così sarà in continuo lavoro. Se non li occupiamo noi stessi, si occuperanno da sè, e certamente in idee e cose non buone.

   Alla musica vocale dava sempre il primo posto anche negli Oratorii festivi degli esterni.

   Un giorno trovandosi egli a Marsiglia, venne a visitarlo un religioso che aveva fondato in una città della Francia un Oratorio festivo, il quale gli chiedeva se approvasse la scuola di musica fra i divertimenti dei giovani; e prese a narrargli tutti i vantaggi che dalla musica potevano trarsi per l'educazione, l'occupazione, la ricreazione dei giovani. D. Bosco ascoltò approvando e rispose: - Un Oratorio senza musica è un corpo senz'anima. - Ma, il frate soggiunse, la musica porta i suoi inconvenienti, e non piccoli. - E quindi parlò della dissipazione alla quale induce taluni, al pericolo che i giovani vadano a cantare o suonare nei teatri, nei caffè, nei balli, nelle dimostrazioni politiche e via discorrendo. D. Bosco udì tutto senza dir parola e poi recisamente ripetè: - È  meglio l'essere o il non essere? Un Oratorio senza musica è un corpo senz'anima!

   La musica istrumentale pertanto per la prima volta doveva recarsi a Castelnuovo. Capo ne fu l'alunno interno Cerutti Callisto, eccellente musico, valentissimo nel suonare l'organo, e che esercitava questa sua nobile arte nelle, chiese di Torino. Bersano, suo compagno, era pure, organista e distinto per i suoi studii musicali. La banda, .della quale furono successivamente maestri un tal Giani e poi Bertolini e Massa, musici della guardia municipale, non tardò a far risuonare i cortili colle sue melodie, e: Giuseppe Buzzetti e Pietro Enria vi tenevano i primi posti. Componevasi di soli dodici strumenti, numero che per qualche anno non fu accresciuto.

Qui crediamo opportuno dar qualche notizia pi√π ampiae pi√π ordinata della gita di D. Bosco co' suoi giovanetti.. In tutto il mese di settembre era un gran discorrere nel Oratorio della passeggiata a Castelnuovo, un discuterei quali giovani sarebbero scelti a farne parte, se e quali paesi si sarebbero visitati: era un pregustare le feste e le vendemmie che li aspettavano sulle ridenti colline, e un narrare le allegrezze godute da quelli che l'anno antecedente avevano accompagnato D. Bosco ai Becchi. Le brillanti fantasie non permettevano di pensare ad altro, richiamavano all'Oratorio molti che erano andati in vacanze, e chi non sperava quel premio faceva serii proponimenti per l'anno venturo. Intanto si ordinavano i necessarii preparativi.

     D. Bosco nelle ultime due settimane di settembre verso le otto del mattino partiva da Valdocco con alcuni giovani, i più bisognosi di riguardi, o per la salute poco buona, o, perchè avevano nessuno al mondo che pensasse a loro. Non potendo provvedere a tutti un posto sull'ominibus, si andava generalmente a piedi. Il suo itinerario era per Chieri, Riva e Buttigliera d'Asti; la prima tappa di questa passeggiata fu sempre la regione dei Becchi. La via era lunga; ma i giovani non se ne accorgevano, perchè D. Bosco aveva l'arte di farla sembrar loro più breve,

raccontando ora questo ora quell'altro episodio della storia d'Italia, o della storia ecclesiastica. Avvicinandosi a Chieri, alcuni suoi intimi amici, avvisati prima, fra i quali il Canonico Calosso, gli venivano incontro, e volevano avere il piacere di ospitarlo per il pranzo co' suoi piccoli amici. Dopo qualche ora di riposo, rimessisi in cammino si giungeva alla borgata di Morialdo, ove attendevali il fratello Giuseppe. Il domani D. Bosco faceva visitare a' suoi giovani l'umile catapecchia ove era nato, e soleva dir loro. - Ecco i feudi di D. Bosco!

  La dimora ai Becchi erano giorni pieni di grande edificazione, perchè vedevasi la buona gente dei dintorni venire tutte le sere in bel numero alla novena per ascoltare la predica. Non bastando la piccola cappelletta a contenere tutti i divoti, gran parte stava anche di fuori con molto raccoglimento. Si recitava il Rosari  o, si cantavano le litanie, si dava la benedizione col SS. Sacramento. D. Bosco faticava, ma raccoglieva una buona messe di anime.

  Il grosso della schiera partiva da Torino il mattino del sabato, vigilia della festa del Rosario; il giorno antecedente D. Alasonatti aveva letto i nomi di quelli destinati alla comitiva. Questa, composta di un numero sempre crescente ogni anno, marciava a piedi passando per Chieri. Due di questi portavano sulle spalle i scenarii del teatrino e un terzo uno zaino cogli spartiti della musica. Siccome i giovani non erano tutti della medesima età e forza di camminare, così chi arrivava ai Becchi ad un'ora e chi ad un'altra. Non troppi giungevano in gruppi e riuniti, e più di una volta qualcuno arrivò a notte molto inoltrata. Talora, nei primissimi tempi, vi fu chi poco pratico di quelle vie più immaginarie che reali non giunse che alla mattina seguente, poichè i buoni contadini, incontrandolo smarrito, lo avevano condotto alle proprie cascine per ristorarlo.

   Quando tutti erano giunti, s'aspettava il momento opportuno no per salutar e D. Bosco, il quale dimostrava gran piacere nel rivederli e si faceva dire le vicende del loro viaggio, che venivano raccontate fra grandi risa e tripudio. Quindi conducevali a cena; ma qualcuno incominciava a dormire stando ancora a tavola. Il fratello di D. Bosco, Giuseppe, che aveva coperto con uno spesso strato dì paglia il pavimento di uno stanzone all'ultimo piano, disposto in altro tempo da granaio, dava allora a ciascuno un lenzuolo di tela di bucato, e accompagnati dagli assistenti andavano al luogo stabilito. Altre camere della famiglia erano pur state convertite in dormitorio, e tutti trovavano un letto, se non sprimacciato, certo, bastevole.

   Dopo le orazioni, si faceva un silenzio profondo; nessuno più si moveva fino al mattino, eccettuato alcuno de' più fervorosi che svegliandosi si levava su in ginocchio a pregare stando al suo posto.

   La domenica una grande moltitudine affluiva ai Becchi da tutte le borgate circonvicine, e specialmente da Castelnuovo. Era una festa veramente popolare. Al mattino si celebrava la messa della Comunione generale, preceduta talora e seguita dalle messe di altri sacerdoti venuti con D. Bosco. Nei primi tempi suonavasi un piccolo harmonium che portavasi da Torino. Alle 10 messa solenne, cantata quasi sempre dal buon prevosto, il Teol. Cinzano, che in quel giorno si fermava a pranzo con D. Bosco. La cappella essendo troppo piccola, la musica e il popolo stavano nell'aia. Quivi il mastello per il bucato, capovolto, serviva di pulpito al predicatore che narrava le glorie del Rosario. Data la benedizione, Gastini saliva pure su quella, bigoncia, e tratteneva il popolo colle sue buffonate fino, all'ora del teatro, eretto su di un lato di quell'aia, e che non mancava mai per coronare la festa. Finalmente a notte si facevano partire palloni areostatici, si dava fuoco ai razzi, e a ruote pirotecniche: ed era uno spettacolo incantevole il vedere eziandio nelle circostanti colline innalzarsi le fiamme dei falò di gioia.

L'indomani del Rosario il Teol. Cinzano esigeva che, D. Bosco e i suoi giovani andassero a restituirgli la visita, e fatti venire i suoi massari e apparecchiato un fornello, posticcio nell'angolo del cortile, si preparava una colossale polenta. D. Bosco era accolto con gran festa nella, Canonica. Mentre i giovanetti stessi aiutavano i preparativi del pranzo, i cantori, per contentare il buon Vicario, che voleva sentire della musica buona e classica, salivano in orchestra per eseguire varii pezzi riservati per quella occasione. Bisognava sempre contentarlo in una sua particolare affezione verso la musica del Mercadante e specialmente per il suo famoso Et unam sanctam. Ed ecco comparire nel cortile la polenta accolta al suona degli istrumenti e al canto di una nota canzone popolare, e i giovani, disposti in giro e seduti chi sopra un mucchio di sassi, chi sopra travi, ricevevano la loro razione e quindi pane, cacio, salame, lesso freddo, uva e mele; e tutto sfumava come per incanto.

  Dopo il pranzo dei giovani, D. Bosco co' suoi chierici erano ricevuti a lieta e più comoda mensa dal Prevosto, che in quel giorno voleva pure avere con sè tutti i preti del paese a fargli onore. Soleva dir loro: - Vedrete, quello che sarà un giorno D. Bosco! Ha la testa da Ministro di Stato! - E D. Bosco trattava il suo Prevosto con umile deferenza e quivi e altrove al cospetto di tutti gli baciava la mano i giovani ammiravano e ricordavano sempre quest'atto di ossequio, che D. Bosco mai non ometteva.

   Veniva finalmente l'ora di lasciar Castelnuovo. Pochi giovani perchè infermicci continuavano a fermarsi ai Becchi mentre gli altri, provvisti di abbondanti cibarie, somministrate dalla carità del Prevosto, prendevano la volta di Torino, dove si arrivava verso le nove della sera. Per lo più facevano una breve sosta a Chieri, e poi in un sol fiato fino all'Oratorio. Erano stanchi, ma contenti perchè recavano con sè una cara reliquia. Avevano sgretolato qualche po' di calcinaccio o di mattone della cameretta in cui D. Bosco aveva vissuto ne' primi tempi di sua vita, per mandarlo poi alle proprie famiglie.

   D. Bosco ritornato in Torino ebbe una lettera dalla Duchessa di Montmorency e noi rileggendola ricordammo il molto bene che D. Bosco fece eziandio ai giovanetti di nobili famiglie per anni ed anni, visitandoli nei loro palazzi, ammonendoli quando venivano a vederlo, e scrivendo loro efficaci biglietti, dei quali un certo numero fu a noi consegnato. Eccone un saggio.

 

Carissimo Ottavio,

 

Si avvicina il tempo degli esami e mi dici che ti raccomandi a S. Luigi, e fai bene. Abbi soltanto viva fede nella protezione di questo santo, ed io ti assicuro che l'esito dei tuoi esami sarà felice. Non mancherò di pregare anch'io pel medesimo fine.

   In quanto all'aumento di memoria non darti pena: coltiva quella che hai e crescerà; se poi sarà bene all'anima tua un aumento speciale, Dio lo farà.

Avrei altre cose intorno a cui discorrere, ma spero che dopo i tuoi esami avremo tempo di fare tra noi una buona chiacchierata intorno a quanto occorre. Domani avvi nell'Oratorio di S. Francesco di Sales Indul. Plen.; fa eziandio di acquistarla. Saluta maman e gli altri di casa; amami nel Signore e credimi

Torino 28 giugno 1855.

Tuo aff.m o

D. Bosco Giov.

 

I parenti di questi giovanetti erano felici per l'aiuto che loro prestava D. Bosco nell'educazione dei figli; lo investivano, direi quasi, della loro autorità. Alcuni li conducevano a confessarsi regolarmente da lui e fra questi si videro i Provana di Collegno. A lui acconsentivano con giubilo che li trattasse familiarmente dando loro del tu, ciò che non avrebbero mai permesso ad istitutori o professori, e a chiunque altro non appartenesse a nobile lignaggio. D. Bosco accoglieva pure alcuni come ospiti nel suo Oratorio per settimane e talvolta per mesi. I parenti glieli affidavano, perchè si preparassero bene alla prima comunione, o si esercitassero nello studio di quelle materie scolastiche nelle quali agli esami pubblici erano stati trovati deficienti; si ispirassero alla pietà dei giovani dell'Oratorio e ne imitassero le virtù; ovvero riformassero la loro condotta; e per altri motivi. La riuscita corrispondeva ai loro desiderii. Nel corso degli anni sotto lo stesso tetto si videro raccolti coi figli del popolo il marchesino, il contino, il cavaliere e il barone.

  La Duchessa di Montmorency aveva affidato a Don Bosco due fratelli, suoi protetti, appartenenti a nobile famiglia francese decaduta, che essa educava con affetto di madre e in tempo di vacanze ritirava presso di sè a Borgo Cornalense. Per più di un anno erano stati istruiti nell'Oratorio, e la Duchessa, soddisfatta della loro riuscita, scriveva a D. Bosco una lettera, che noi qui riportiamo tradotta dall'originale francese.

 

Signor Abate Bosco,

 

Voi mi avete prevenuta. Io voleva scrivervi, come faccio colla presente, per ringraziarvi delle cure che vi siete preso dei miei allievi, durante la mia lunga assenza. Io li ho trovati in perfetta stato di sanità, anzi più paffuti e nello stesso tempo fatti più grandi; progrediti l'uno nel disegno, l'altro nella lingua latina; e, ciò che è molto più essenziale, tutti e due hanno molto guadagnato in saviezza, specialmente Luigi. Non litigano più e non si battono. Enrico ha fatto progressi maravigliosi nel disegna ed io ne ringrazio il sig. Tommasini e il sig. Peire della loro attenta sorveglianza. Il mio intendente che vi porta questo biglietto è incaricato di ritirare tutti gli oggetti dei fanciulli, eccettuati i cassettoni, i tavolini e le altre piccole mobiglie delle quali voi avete dovuto fare acquisto per essi. Io voglio ancora, che egli saldi il conto delle spese che, li riguardano.

  La vostra visita, sulla quale io conto, signor abate, sarà preceduta dalla mia che voi avrete lunedì prossimo, se il tempo lo permette, perchè quando piove io non mi pongo volentieri in viaggio. Tutti qui stanno bene e fanno una festa per la vostra apparizione. Questo è il vero motto appropriato per indicare le vostre visite che sono un lampo.

  Aggradite, Sig. Abate, l'assicurazione de' miei sentimenti più, rispettosi.

Giovedì a sera, 22 ottobre 1855.

 

DE MAISTRE D.SSA LAVAL MONTMORENCY.

 

Intanto all'Oratorio ritornavano i giovani dalle vacanze, e venivano accettati i nuovi. Fra questi Bongioanni Domenico, fratello del già nominato Giuseppe, che poi costrusse, la chiesa di S. Alfonso in Torino, e Giovanni Bonetti di Caramagna, che divenne insigne nella Pia Società Salesiana e che allora, per la sua età di anni diciassette e per le sue maniere, ebbe subito dai compagni il soprannome di papà

  Sul finire dell'ottobre entrava come pensionante nell'Oratorio un giovanetto di Tortona, il cui gran genio per la pittura e scultura avevano risolto il municipio di quella città ad aiutarlo, affinchè potesse venire a Torino a proseguir gli studii per l'arte sua. Egli aveva fatto una grave malattia in patria; e come fu all'Oratorio sia per essere convalescente, sia per trovarsi lontano dalla patria e dai parenti, sia anche per la compagnia dei giovanetti tutti sconosciuti, se ne stava osservando gli altri a trastullarsi, ma assorto in gravi pensieri. Lo vide Savio Domenico, e tosto si avvicinò per confortarlo, e tenne con lui questo preciso discorso.

Il Savio cominciò: - Ebbene, mio caro, non conosci ancora alcuno, non è vero? - È  vero, ma mi ricreo rimirando gli altri a trastullarsi.

     - Come ti chiami?

     - Gavio Camillo di Tortona.

     - Quanti anni hai?

     - Ne ho quindici compiuti.

    - Da che deriva quella malinconia che trasparisce in volto; sei forse stato ammalato?

    - Sì, sono stato veramente ammalato; ho fatto una malattia di palpitazione, che mi portò sull'orlo della tomba, ed ora non sono ancor ben guarito.

    - Desideri di guarire, non è vero?

    - Non tanto, desidero di fare la volontà di Dio.

     Queste ultime parole fecero conoscere il Gavio per un giovane di non ordinaria pietà, e Savio continuò: - Hai dunque volontà di farti santo?

    - Questa volontà in me è grande.

   - Bene; ed io ti dirò in poche parole ciò che devi fare. Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore; procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d'oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia serviamo il Signore in santa allegria.

            Questo discorso fu come un balsamo alle afflizioni di Gavio, che ne provò un vero conforto. Che anzi da quel giorno in poi egli divenne fido amico del Savio e costante seguace delle sue virtù.

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