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Capitolo 45

Giovanni riporta il premio - Visita i suoi antichi padroni alla Moglia - È proposto come assistente e ripetitore di lingua greca ai giovani del Collegio Reale ritirati a Montaldo - Si perfeziona nel greco - Ritorna in seminario Sua povertà.


Capitolo 45

da Memorie Biografiche

del 12 ottobre 2006

Il felice risultato del primo anno di seminario così è compendiato da D. Bosco nel suo manoscritto: “Nel seminario sono stato assai fortunato, ed ho sempre goduto l'affezione de' miei compagni e quella di tutti i miei superiori. All'esame semestrale si suole dare un premio di L. 60 in ogni corso a colui, che riporta i migliori voti nello studio e nella condotta morale. Dio mi ha veramente benedetto e pei sei anni che passai in seminario sono sempre stato favorito di questo premio”. Egli partiva da Chieri lasciando nei compagni vivo desiderio di riunirsi a lui dopo le vacanze, come più volte alcuni di essi ci affermarono.

I primi suoi passi li rivolse alla Moglia di Moncucco, per far visita a quella cara famiglia, dalla quale per due anni aveva ricevuto tante prove di affezione e procurare loro una dolce sorpresa. Ed ecco infatti, mentre i signori Moglia stavano battendo il grano, vengono venire alla loro volta in mezzo ai campi un prete, il quale si ferma in fondo all'aia quasi per prendere respiro. I lavoratori cessano di battere e guardano meravigliati quell'improvvisa comparsa, desiderosi di conoscere chi sia e qual motivo l'abbia là condotto. Quegli si avanza; e qual non fu il loro stupore e il gran piacere che provarono quando lo riconobbero. Il chierico Bosco, fatti i primi complimenti co' suoi antichi padroni, che per la commozione avevano le lagrime agli occhi: - Vedete, disse, che io mi faccio prete?

- Quei buoni contadini lo tennero qualche giorno con loro facend6gli mille feste. E il figlio Giorgio, che allora contava già i suoi undici anni e osservava curiosamente tutti i passi e le azioni del chierico ospite, affermava che lo vedeva sempre occupato o nella preghiera o nello studio ed assiduo nel recarsi alla chiesa.

Giunto presso sua madre, Giovanni vi dimorò poco tempo, per la ragione che egli qui espone: “Uno studio, che mi stava molto a cuore, così egli, era quello del greco: aveva già appreso i primi elementi nel corso classico, avea studiata la grammatica ed eseguite le prime versioni coll'uso dei lessici. Una buona occasione mi fu a tale uopo assai vantaggiosa. L'anno 1836, per la minaccia di coléra, che faceva ben 5000 vittime nella sola Napoli e serpeggiava pur nella Liguria, i Gesuiti di Torino anticiparono la partenza dei convittori dal collegio del Carmine per Montaldo, ove essi tenevano una magnifica villeggiatura. Quell’anticipazione richiedeva doppio personale insegnante, perchè dovevansi tuttora coprire le classi degli esterni, che intervenivano al collegio. D. Cafasso che ne era stato richiesto, propose me per una classe di greco. Ciò mi spinse ad occuparmi seriamente di questa lingua, per rendermi idoneo ad insegnarla. Di più, trovandosi nella stessa Compagnia un sacerdote di nome Bini, profondo conoscitore del greco, di lui mi valsi con molto vantaggio. In soli quattro mesi mi fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento, i due primi libri di Omero, con parecchie odi di Pindaro e di Anacreonte. Quel degno sacerdote, ammirando la mia buona volontà, continuò ad assistermi e per quattro anni ogni settimana leggeva una composizione greca o qualche versione, che io gli spediva e che egli puntualmente correggeva e poi mi rimandava colle opportune osservazioni. In questa maniera potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino”. Infatti nel 1886, precisamente il 10 febbraio, alla presenza nostra andava recitando per intero alcuni capitoli delle lettere di S. Paolo in greco ed in latino; poichè ci sapeva a memoria, nelle due lingue, tutto il Nuovo Testamento.'

A Montaldo Giovanni fece scuola per circa tre mesi, sostenendo pure la carica di assistente ad una camerata in tutto quel tempo di vacanza. Quivi ebbe campo di fare conoscenza con parecchi giovani di distinte famiglie, che conservarono sempre di lui ottima memoria e della cooperazione dei quali seppe poi giovarsi, quando ne venne il bisogno. Potè eziandio conoscere, colla sua pietà e collo zelo che l’ardeva per la salute delle anime, i difetti, i pericoli di questa classe di fanciulli, fra i quali era la prima volta che si trovava, e la difficoltà di acquistare su di essi quel pieno ascendente che è necessario per far loro del bene. Quindi si persuase non essere egli chiamato ad occuparsi de' giovani di famiglie signorili. Più tardi infatti, il 5 aprile 1864, diceva a D. Ruffino, che gli parlava di alcuni progetti, tra gli altri quello di avere poi col tempo un collegio di nobili giovani: Questo no; non sarà mai; finchè vivrò io e per quanto dipenderà da me, non sarà mai. Ciò sarebbe la nostra rovina, come lo fu per varii Ordini religiosi, che avevano per primo scopo l'educazione della gioventù povera, cui poi abbandonarono per appigliarsi ai nobili. Eppure egli dovette poi accettare il collegio di Valsalice, per le vive istanze della Commissione dirigente, pel comando di Monsignor Gastaldi e per tutelare l'onore del clero torinese, sottomettendosi a sacrifizii dolorosi, che Dio solo avrà saputo ricompensare.

Durante il tempo delle vacanze, Giovanni non potè ripassare, nè studiare nulla di ciò che doveva portare all'esame dei Santi, causa la continua e coscienziosa occupazione a Montaldo. Tuttavia, ritornato a novembre nel seminario di Chieri, nei pochi giorni precedenti agli esami prese i libri, tagliò i fogli al trattato di metafisica, su cui doveva rivolgersi l'esame, benchè non fosse stato spiegato, si presentò agli esaminatori e superò felicemente la prova.

Nè questo studio ne' suoi risultati può condannarsi come superficiale; poichè Giovanni Bosco facilmente riteneva a memoria i trattati, nè si stancava poi dal meditarli in tutte le loro parti, prove, distinzioni ed obbiezioni. La sua mente matematica era così ordinata, che procedeva sempre ne' suoi ragionamenti per via di definizioni esatte, quali le recano i migliori autori. E di ciò noi, che udimmo parecchi anni le sue istruzioni in chiesa, possiamo far ampia testimonianza; giacchè egli soleva premettere sempre la definizione della verità, del vizio, o della virtù, che formava oggetto del suo dire, ordinatamente poi procedendo alle varie molteplici prove. A questo modo restavano incancellabili le verità che da lui si apprendevano.

Più volte inoltre dovemmo stupire, dopo tanti anni che egli avea lasciato gli studii di filosofia, della prontezza delle sue risposte. D. Ciattino, uomo molto dotto, filosofo che vantavasi seguace di Rosmini, fuggito da Venezia nel 1856 per cause politiche, era stato raccomandato a D. Bosco e per circa un anno ospitato nell'Oratorio. Un giorno, sul finire del pranzo, si venne a parlare dell'origine delle idee e di altre quistioni filosofiche. D. Ciattino espose la sua opinione. D. Bosco tranquillamente trasse dalla proposizione di lui la prima conseguenza, e poi con una sequela di dunque dunque stringati, precisi, schiaccianti, che non ammettevano replica, venne a questa conclusione: - Ma dunque lei è panteista? D. Ciattino, balbettò qualche risposta, ma siccome non era possibile svincolarsi dalle ragioni addotte da D. Bosco e gli pesava scomparire in faccia ai commensali, si sdegnò e uscì dal refettorio sbattendo fragorosamente la porta. Tutti i giovani presenti non sapevano darsi ragione di quella insolita vivacità di modi. Alla sera a cena D. Ciattino era al suo posto e mangiava tutto musorno. D. Bosco lo guardava sott'occhi sorridente, e a un tratto prese a dirgli: Senta, D. Ciattino; forse, stamattina io senza volerlo l’ho offeso. Sono entrato in un argomento, in un campo che non mi appartiene. Io non son filosofo e quindi mi compatirà, se l'ho contraddetto. - D. Ciattino alzò il viso, si rasserenò e poi graziosamente minacciandolo colla mano: - Lei non è filosofo? Dice di non essere filosofo?... - A questa scena era presente D. Francesia.

Verso il 1875 D. Clemente Bretto domandava a D. Bosco:

- Gli animali non possono aver demeritato e non possono meritare: perchè dunque il Signore permette che siano infelici e li lascia soffrire?

- D. Bosco, senza alcuna esitanza, rispose subito press' a poco così:

- Sebbene soffrano, gli animali non sono infelici, perchè la felicità o l'infelicità esigono la ragione, che gli animali non hanno; quindi nulla se ne può inferire contro la bontà o provvidenza di Dio. Un giorno fu interrogato:

- Che cosa è il timore? - Tosto rispose:

- Il timore altro non è che la privazione degli aiuti della ragione.

In molte altre occasioni, che noi lasciamo qui di accennare per non andare troppo in lungo, Giovanni diede prova del suo profitto negli studi filosofici. E noi, allargando l’àmbito del nostro presente giudizio, dobbiamo dire che solo da un attento e fortunato osservatore poteva essere giudicata la molteplice e sincera sua scienza ed erudizione filosofica, teologica, biblica, storica, casistica morale, ascetica, di diritto canonico, fisica, matematica e via discorrendo. Ei conosceva bene quanto gli era necessario per occupare quel posto che la Provvidenza gli aveva affidato nella sua Chiesa. Però non ne faceva mai pompa; anzi il suo umile contegno non permetteva neanco di sospettarla: e solo quando ve ne era bisogno o convenienza ne' famigliari discorsi, essa scattava fuori all'improvviso come un lampo di luce, che abbarbagliava e faceva rimaner stupito chi non lo conosceva. Questi lampi tuttavia non erano frequenti, poichè, fin dal principio del suo ministero involto In un vero turbine continuo d'affari, poco tempo rimanevagli per le dissertazioni scientifiche, e le parole che traeva dal, cuore erano principalmente dirette a far amare da' suoi giovanetti la religione e la virtù.

Egli però in questi anni poneva con santa allegrezza il fondamento del suo sapere in mezzo alle spine di una grande povertà. Non pur lo stretto necessario egli aveva, ma qualche, cosa di meno. Mancavagli perfino il danaro per comprarsi i libri di scuola indispensabili, ed era costretto a farseli imprestare di quando in quando da qualche amorevole compagno. Con gelosa cura indossava l'unico suo vestito, perchè non si sciupasse e subito rammendava la minima scucitura, perchè non accadesse qualche strappo. Cinque centesimi di lucido per le scarpe gli durava un anno intero, e per annerirle ricorreva ne' giorni feriali ad espedienti ancor più economici. Le sue scarpe talora per il lungo uso e per le troppe rappezzature erano venute quasi inservibili e non convenienti per le uscite di casa, e Maurizio Cappella, portinaio del seminario tuttora vivente, afferma avergli egli più volte imprestate le sue calzamenta, perchè potesse recarsi a passeggio ovvero al duomo.

Non invano avrebbe egli potuto ricorrere per sussidio al suo prevosto D. Cinzano e a D. Cafasso; ma suo sistema prediletto era quello di S. Francesco di Sales di nulla chiedere e nulla rifiutare per se stesso, preferendo vivere nelle angustie, piuttosto che importunare i benefattori per cose ch'ei reputava non assolutamente necessarie. In ciò egli era certamente animato dall'amore nobilissimo alla povertà evangelica. Chi fu testimonio continuo della sua lunga vita può attestare come il suo cuore fosse alieno dalle comodità e dalle ricchezze. Maneggiò immensi tesori affidatigli dalla Provvidenza divina, ma tutto per gli altri, nulla per sè. La povertà di N. S. Gesù Cristo era il suo ideale, del quale il reale Salmista aveva profetato: “Povero sono io ed in affanni fin dalla mia gioventù”.

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