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Capitolo 48

Maligne insinuazioni del giornalismo a danno dell'Oratorio - D. Bosco non è ricevuto negli uffici del Ministero - Risoluzione e fiducia in Dio - Lunga e paziente attesa nell'anticamera del segretario generale - D. Bosco è ammesso all'udienza del Segretario: inurbanità e forzata cortesia - Altri giovani raccomandati dal Ministero.


Capitolo 48

da Memorie Biografiche

del 30 novembre 2006

 L’Arcivescovo di Pisa usciva d'angustie, non così D. Bosco. In tempi normali era da sperarsi che l'esposizione mandata da lui al Ministero e l'accettazione di tanti giovani da quello raccomandati, avrebbero potuto rassicurare il Governo e indurlo a cessare dalle molestie contro l'Oratorio; ma tale speranza svaniva in quei tempi, per le quotidiane istigazioni e violenti assalti della stampa malvagia, che inventando e spargendo liberamente le più strane accuse, cercava di traviare l'opinione pubblica ed aizzare le civili Autorità contro l'Oratorio. Così accendevano anche le passioni malvagie dei popolani. Un giorno D. Bosco, accompagnato dal giovane Garino, attraversando piazza Savoia, s'incontrò in due persone, che gli dissero insolentemente sul viso: - Questi preti bisognerebbe impiccarli tutti. - D. Bosco, sorridendo, loro rispose: - Quando abbiano i vostri meriti.

Non mancavano gli scrittori assennati di segnalare il ridicolo di simili accuse, e l'ingiustizia e viltà di cotali assalti, e vari periodici presero pure la difesa; ma tutti i giornali della setta, seguendo come una parola d'ordine, dissimulavano le ragioni e le difese, e andavano ripetendo le loro calunnie, stimolando il Governo a farla finita con l'Oratorio. E purtroppo per il carattere degli uomini sedenti al timone dello Stato, non si poteva sperar molto nella loro equità. Non essendo essi pienamente sicuri sull'esito della causa che avevano a trattare in Italia, si lasciavano con facilità ingannare dai loro agenti, e vedevano sovente nemici e pericoli dove non erano; oppure pieni di paura, tentavano di impaurire coloro che sospettavano avrebbero tentato incagliarli. Era quindi a temersi che un giorno o l'altro prendessero un'estrema misura, ed ordinassero la chiusura dell'Ospizio di Valdocco. D. Bosco sapeva che si era già deciso di mandarlo a domicilio coatto, ma persone influenti e di grande autorità avevano sventato quel disegno.

Bisognava dunque premunirsi - Ma come fare? diceva D. Bosco: Scrivere rimostranze? Non mi rispondono. Chiedere ancora udienza a Farini? Sono convinto che di presenza potrei assai di leggieri fargli rilevare la mia innocenza. Ma purtroppo che il Ministro non vuole accordarmela. Eppure bisogna tentare tutte le prove.

Aveva ripetuta la domanda due e tre volte di essere ascoltato ma indarno. Nelle cosidette sfere governative si temeva in modo straordinario un incontro con D. Bosco, tanto la sua parola aveva potere anche sopra i cuori meno disposti, quindi erano state prese tutte le misure necessarie perchè egli non fosse ricevuto da nessun Ministro.

Egli però con calma e coraggio risolse di superare ogni ostacolo. Avrebbe spesa non solo la vita, ma messo sossopra il cielo e la terra, prima di permettere che gli fossero strappati dal fianco i suoi figli, e senza di lui ed umanamente parlando l'Oratorio era perduto.

Pertanto non potendo riuscire di presentarsi al Farini, D. Bosco si rivolse al Cav. Silvio Spaventa, Segretario generale del Ministero dell'Interno; ma anche costui ricusava di riceverlo e a fine di stancarlo ed evitarne l'incontro, rimandavalo per mezzo degli uscieri da un giorno all'altro, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino. Alla perfine dovette riceverlo ed eccone il modo.

Era il 14 luglio, e per le ore undici antimeridiane il Segretario avevagli fatto sperare di riceverlo in udienza. I giovani dell'Oratorio erano trepidanti per la loro sorte. D. Bosco afflitto, ma per nulla turbato, chiamò il Chierico Giovanni Cagliero e gli disse: - Accompagnami al Ministero. - Giunto in via Palatina si fermò un istante ed esclamò: - Come è cattivo il mondo! Quei signori del Governo hanno una gran voglia di chiudere e distruggere ad ogni costo l'Oratorio. Poverini! Si sbagliano! Non ci riusciranno. Credono di aver a fare col solo D. Bosco; e non sanno di aver da fare con chi è più potente di loro: colla Beata Vergine e con Dio medesimo che disperderà i loro consigli. No, non ci riusciranno a chiudere l'Oratorio!-

Per l'ora fissata D. Bosco giungeva al palazzo del Ministero ed entrato nella sala d'aspetto si faceva annunziare. Ma lo Spaventa o dimentico o pentito della parola data, gli faceva dire essere difficile che lo potesse ammettere stante gravissimi affari che aveva tra mano. A questo annunzio: - Aspetterò, rispose D. Bosco, finchè  il signor Segretario possa ricevermi; - e deciso di fermarsi tanto che fosse necessario per essere ricevuto, con impareggiabile tranquillità non badando nè al caldo, nè al bisogno di rifocillarsi, nè alla sete, rimase in aspettazione fino alle sei della sera. In quelle sette ore d'intervallo la sala si riempiva sempre di moltissime persone di ogni ordine e condizione, che erano introdotte nel gabinetto del Segretario, e financo gli ultimi arrivati; ma il torno di D. Bosco non veniva mai. Gli uscieri attraversavano la sala, guardavano il povero prete con aria beffarda, sorridevano malignamente e incontrandosi si facevano cenno coll'occhio, movendo il capo.

I signori che aspettavano di essere introdotti guardavano con meraviglia quel sacerdote che stava seduto in un angolo, avendo ai fianchi prima il Chierico Cagliero e poi il Sac. Savio Angelo venuto a surrogare il compagno, perchè si recasse a pranzo.

A quando a quando D. Bosco si alzava per avvicinarsi a qualche usciere replicando la sua domanda ed insistendo per essere ammesso all'udienza. Quindi sempre paziente ritornava al posto di prima. La cosa parve cotanto amara che perfino gli uscieri incominciarono a sentire compassione per lui.

Finalmente il Cav. Spaventa preso forse dal rossore di trattare in quel modo un cittadino, che, quantunque prete, era pure uguale agli altri in faccia alla legge, si decise di lasciarsi almeno vedere. Perciò dopo aver brontolato, ma in modo che D. Savio l'udì: - Che cosa vuole questo importuno? - fattosi alla porta del suo gabinetto, - D. Bosco... Che cosa c'è per tanta insistenza di parlarmi? - disse con voce ed aspetto burbero. A quella vista e a tali parole tutti gli spettatori, domestici ed uscieri presenti nella sala, rivolsero gli occhi al povero prete che così rispose:

- Ho bisogno di conferire un momento colla Vostra Signoria.

- Che vuole?

- Vorrei parlarle in confidenza.

- Parli pure anche qui, ma sia spiccio: questa che ci ascolta è tutta gente di confidenza.

Allora D. Bosco per nulla contando quell'atto scortese, disse con alta ed intelligibile  voce: - Signor Cavaliere ho 500 ragazzi abbandonati da mantenere: e da questo, momento li rimetto nelle sue mani, e la prego di provvedere al loro avvenire.

- Chi sono questi ragazzi?

- Sono fanciulli poveri od orfani o pericolanti, che il Governo mi ha dapprima indirizzati ed ora vuol ricacciati in mezzo alla strada.

- Dove sono presentemente?

- Sono ricoverati in casa mia. Chi li mantiene?

- La carità di alcuni benefattori.

- Il Governo non paga pensione per essi? - Di pensione nemmeno un soldo.

A questo dialogo fatto a domande e risposte, così brevi, vivaci ed interessanti, tutti quelli che stavano in quella sala si fecero più da vicino ed attorno a D. Bosco meravigliati ed ansiosi di vedere come andava a finire la cosa, e nello stesso tempo mostravano sdegno pel disprezzo col quale era accolto un uomo così venerando. Da ciò accortosi lo Spaventa, che non faceva la più bella figura del mondo nel condursi in tal modo, si ridusse a migliore consiglio; tanto più che D. Bosco avvicinatosi a lui gli diceva sottovoce: - Abbia la bontà di ascoltarmi, e presto, altrimenti se ne pentirà prima di domani a sera. Il Segretario, sorpreso da quelle parole si risolse di dargli privata udienza, lo prese per mano, dicendogli cortesemente - Venga avanti! - E lo fece entrare nel suo gabinetto.

Ci narrò D. Savio: Essendosi chiusa la porta dietro ad ambedue io nè vidi, nè udii più nulla. Pochi istanti dopo, Spaventa rientrò in anticamera tutto sconvolto ed affannato e voltosi ai segretarii, ai diplomatici e ad altri cospicui personaggi che erano venuti per conferire con lui di affari di Stato: - Scusino, disse; ho un negozio importantissimo, da sbrigare, che non ammette indugi. Oggi non posso dar loro udienza. Ritornino domani. - E si ritirò di bel nuovo chiudendo la porta. D. Bosco stette là entro lunghissimo tempo. Che cosa egli disse a Spaventa da produrre un simile cambiamento non si seppe mai.

D. Bosco narrò poi ai suoi coadiutori, la sola parte di tale colloquio che aveva per oggetto l'Oratorio, e dalle sue parole si potè ritenere il seguente dialogo.

Il Segretario fece sedere D. Bosco presso di sè, e poscia con voce benigna, ed amorevole, disse:

- So che lei fa del bene; mi dica dunque in che cosa la posso servire, chè per quanto dipenderà da me il farà volentieri.

- Domando rispettosamente, rispose D. Bosco, la ragione delle perquisizioni, anzi delle persecuzioni, che mi fa il Governo.

- Ma lei segue una politica... ha uno spirito... Del resto io non sono in grado di dirle tutto. Vi sono pi√π cose riservate al Sig. Ministro. Sarebbe mestieri parlare con lui. Posso per altro dirle che ogni molestia sarebbe immediatamente finita, se ella volesse parlare chiaro e svelare i segreti.

- Non so quali segreti ella intenda, signor Cavaliere.

- I segreti gesuitici, per iscoprire i quali le furono atte le perquisizioni, di cui si lagna.

- Ignoro affatto cotali segreti, e sono ansioso di conoscerli, per dare opportuni schiarimenti, se ciò è in poter mio. La S. V. mi parli pure con tutta schiettezza, ed io le risponderò con eguale sincerità.

- In questo io non posso immischiarmi; ne interroghi il sig. Ministro, che le dirà tutto.

- Se la S. V. giudica di non potermi dire le cose che dimando mi faccia almeno un'insigne opera di carità.

- Sarebbe?

- Ottenermi udienza dal sig. Ministro.

- Sì, vedrò di ottenergliela; ma a quest'ora è assai difficile. Vado nondimeno a farne richiesta. Lei rimanga qui un istante, ma non parli con altri di questo affare, perchè potrebbe essere malamente inteso e peggio interpretato con maggior suo danno.

Ciò detto, il sig. Spaventa uscì dal gabinetto, si recò dal Commendatore Farini, e dopo mezz'ora ritornò, dicendo a D. Bosco:

- Il Ministro è occupato, e per ora non può darle udienza, ma di domani le farà tenere avviso del quando potrà accordargliela.

D. Bosco gli rese le dovute grazie e quando uscì era tranquillo e sorridente. Il Segretario serio e rispettoso lo accompagnò fino alle scale. Gli uscieri veduto quel tratto di cortesia del loro padrone verso D. Bosco, appena quegli si ritirò nel suo ufficio, incominciarono a far riverenze al povero prete, lo circondarono, più d'uno gli baciò la mano e vi fu chi lo accompagnò fino nel portico.

D. Bosco fece ritorno all'Oratorio accompagnato da D. Savio. Erano le 8 di sera ed aveva ancora da pranzare.

Ma prima di andare a riposo fatto lo spoglio delle lettere giunte in quel giorno, trovò uno supplica con alcune righe sovrascritte dal Cav. Salino in favore dell'orfano Alberto Tasso di Oneglia, e col numero d'ordine 2091 in data del 13 luglio. Il giorno 10 ne aveva ricevute due altre degli orfani di padre Reydet e Penchienatti, raccomandati dal suddetto Cavaliere in nome del Ministro, coi rispettivi numeri di protocollo 2039 e 2044.

In una di queste e in altre precedenti si leggeva espressa in vario modo la seguente frase “ Oso pregare V. S. a degnarsi di far accettare il nostro raccomandato in qualche stabilimento di carità in cotesta metropoli, per es. in quello diretto da D. Giovanni Bosco, il quale interpellato non avrebbe difficoltà di ricoverarlo e di pigliarne tutta la cura ”. - D. Bosco prese nota per l'accettazione, quantunque non sembrasse che la sua condiscendenza potesse scongiurare il pericolo dal quale era minacciato.

Il servo di Dio pi√π volte in quella sera deve aver ripetuta con fervore quella preghiera al Signore che Ester rivolgeva al Re Assuero: Si inveni gratiam in oculis tuis, o Rex, et si tibi placel, dona mihi populum meum pro quo obsecro (VII, 3).

 

 

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