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Capitolo 53

Convalescenza a Castelnuovo - L'Oratorio continuato dai cooperatori - La processione nella solennità di Maria SS. Assunta in Cielo - Infedeltà ad un voto punita - Visite ai Becchi - Portare ogni giorno la propria croce - Visite ed inviti agli amici.


Capitolo 53

da Memorie Biografiche

del 30 ottobre 2006

 La malattia, che portò D. Bosco sino alle porte dell'eternità e fu causa a tutti di così gravi angustie, avveniva sul principio di luglio. Solo verso il fine di quel mese il medico gli aveva permesso di uscire dalla stanza; temeva di una possibile ricaduta, che gli sarebbe stata fatale per la grande sua debolezza. Era quello appunto il tempo nel quale avrebbe dovuto lasciare il Rifugio e l'Ospedaletto. Ma non essendo ancor state eseguite le necessarie riparazioni alle tre stanze da lui prese in affitto da Soave Pancrazio, e per altra parte avendo egli bisogno di una buona convalescenza, risolse di recarsi a Castelnuovo d'Asti per dimorare alcun tempo ai Becchi in seno alla famiglia. Prima però, non dimenticando i suoi disegni di conquista, nell'agosto appigionava da un inquilino del Soave, certo Pietro Clapié, una quarta stanza sicchè nel piano superiore di casa Pinardi più non rimaneva che un solo pigionale da indurre a cercarsi altrove alloggio. Volendo eziandio lasciare i giovani con qualche regalo, oltre una distribuzione di immagini e medaglie, comprò nuovi giuochi, come cerchi di legno, coi quali potessero sbizzarrirsi facendoli roteare per i viali deserti, e casse da fucile acciocchè divertendosi ad imitare i soldati imparassero a camminare in ordine e disinvolti.

D. Bosco partiva nei primi giorni della seconda settimana di agosto. Ma appena ebbe lasciato Torino, la Marchesa Barolo, prevedendo che egli sarebbe stato assente per un tempo considerevole, insistette acciocchè fosse sgombrata la camera occupata da lui al Rifugio, per alloggiarvi il cappellano che doveva sostituirlo. Il Teologo Borel fece allora trasportare all'Oratorio di Valdocco i pochi oggetti che appartenevano a D. Bosco, e per incarico avutone da lui, andò a comprare sul mercato delle robe usate, presso la chiesa parrocchiale di S. Simone e Giuda, le masserizie strettamente necessarie per arredarne il poverissimo appartamento. D. Bosio compagno di seminario ed amicissimo di D. Bosco, era stato prescelto dalla Marchesa a cappellano dell'Ospedaletto e non tardava ad entrare in carica.

Intanto l'Oratorio festivo non rimaneva senza Capo, essendosene il Teologo Borel assunta la direzione, appena aveva visto D. Bosco cadere infermo. Ma il numero di ragazzi rendendogli impossibile l'attendere da solo alle funzioni di Chiesa, l'assisterli nel tempo di ricreazione e il procurare lavoro a quelli che ne erano privi, invitò il Teol. Vola, il Teol. Carpano, il sacerdote Trivero a servirgli da coadiutori attivi mattino e sera; ed i zelanti Ecclesiastici accondiscesero volenterosi all'invito, dedicandosi con ogni loro possa al prospero andamento dell'opera. Talvolta ai catechismi interveniva eziandio D. Pacchiotti dal Rifugio. Questi, per lo spazio di quattro mesi, supplirono in tutto all'assente fondatore dell'Istituto. Ma dovettero procurarsi la stima ed affezione di quelle turbe, come aveva fatto D. Bosco, a prezzo di pazienza grandissima, di dura abnegazione e di spese non modiche. Provarono che cosa importasse il trattare con giovani, in gran parte privi di ogni educazione, molti dei quali sovente non avevano un pezzo di pane per sfamarsi, talvolta scapestrati ed all'estremo cenciosi e suicidi. Per soprassello loro toccò, come accade a quanti vogliono fare il bene, di aver a sopportare non poche e non piccole contraddizioni e critiche. Intesero allora quali fossero le delizie di D. Bosco in questa direzione, a costo di quali sudori fosse giunto ad impadronirsi di quelle anime, e si persuasero che il solo premio celeste poteva compensare tanti sacrifici.

I bisogni dell'Oratorio e le spese andavano intanto crescendo ogni giorno, per la cappella e le feste, per le ricreazioni, per le lotterie, per le merende e colazioni ad alcuni o a tutti in certe solennità, per i soccorsi che bisognava somministrare ai più indigenti e per gli affitti dei locali necessari. Non mancavano però mai i soccorsi della Divina Provvidenza. Il Teologo Carpano, quando i giovani erano condotti in corpo a qualche passeggiata, spesso provvedeva quanto era necessario o pel pranzo o per la merenda, versando a loro beneficio quanto riceveva dalla bontà del dovizioso suo padre. L'Avvocato Claretta aveva donato una bella somma, il Conte Bonaudi per più anni sborsava 30 lire al mese, D. Cafasso pagava i fitti. Altre elemosine avevano già dato in quest'anno la Marchesa Barolo e il Conte di Collegno. Ciò si legge in un memoriale, le cui note e cifre scritte di proprio pugno dal Teologo Borel incominciano colla data degli ultimi mesi del 1844 e finiscono col 1850 inclusivamente. In questo memoriale sono messe in nota tutte le somme che venivano erogate per l'Oratorio, del quale egli era, direi così, il cassiere. Tali somme, generalmente esigue, ma abbastanza numerose, erano passate per le mani del Teologo Borel, infaticabile nel questuare pel caro Oratorio. È pregio dell'opera ricordare i nomi dei primi cooperatori registrati da questo santo Teologo. Sono i seguenti: i Canonici Fissore, Vacchetta, Melano, Duprez, Fantolini, Zappata; i Teologi Aimeri Berteù, Saccarelli, Vola, Carpano, Rossi Paolo, D. Pacchiotti; l'Abate Pullini, il Rev. signor Durando; il Conte Rademaker, Marchese Gustavo di Cavour, Generale Michele Engelfred, Carlo Richelmy; gli Avvocati Molina, Blengini; Baronessa e Damigella Borsarelli, Madamigella Moia, il Cav. Borbonese la Contessa Masino, le Signore Cavallo e Maria Bogner; i signori Benedetto Mussa, Antonio Burdin, Gagliardi e Casa Bianchi. Questi, ed altri che non troviamo notati nel registro del Teol. Borel e dei quali pure ci son note le beneficenze, formavano come l'avanguardia di quell'esercito di cooperatori che avrebbero aiutato D. Bosco in tutto il corso della sua vita. D. Bosco adunque era partito tranquillamente per Morialdo e conduceva per compagno un giovane studente, di nome Tonin che frequentava l'Oratorio. Riposatosi qualche giorno a Castelnuovo presso il suo carissimo Vicario D. Cinzano, fu con sua madre ai Becchi. Ansioso di sapere notizie dell'Oratorio, della festa di Maria SS. Assunta in Cielo e della processione che i giovani avevano preparato con molto impegno, il 22 agosto 1846 così scriveva al Teologo Borel:

 

“Carissimo Sig. Teologo,

 

“ Sono a Castelnuovo; il mio viaggio andò bene quantunque ben crollato dal somarello. Lo stato di mia sanità ha di molto migliorato; quel mangiare, bere, dormire e non di più, il passeggiare per queste colline, che spirano un'aria pura, fresca; anche in pochi giorni mi hanno fatto cangiar colore e forma. Io conosco veramente la mano di Dio che cooperò alla mia sanità. Io mi sento più forte e più robusto che non era prima di quest'ultima malattia, e nel tempo stesso scomparsa quell'arsura da cui ero nelle fauci travagliato. Deo gratias.

“  Non so se il caldo siasi anche temperato in Torino: noi respiriamo un fresco veramente vivificatore, e questo, malgrado una siccità che desola tutta la campagna e fa sì che dai poveri contadini non altro intendasi che lamenti e sospiri di miseria, però molto rassegnati alla volontà Divina. Tonin mi fa ottima compagnia e mi tiene maravigliosamente allegro: quanti baci di mano farebbe a Lei e a D. Pacchiotti se potesse averli!

“  Quante volte lungo il giorno penso all'Oratorio! Me ne dia nuove, e specialmente della processione di sabato scorso. La prego a salutare tutte le persone che hanno con noi qualche relazione, data occasione; donare una stretta di mano a D. Pacchiotti, a D. Dosio, al Sig. Teol. Vola. Le scriverò dì nuovo presto. Vale in Domino, vale.

 

Aff.mo. servitore ed amico

D. Bosco

 

“ PS. Tonin la prega di rimettere la lettera inclusa a Cavalli”.

 

 

 

Il Teologo Borel affrettavasi a dare le chieste notizie, e fra le altre cose descriveva la processione che si era svolta nei sentieri e nei viali circostanti all'Oratorio, i sacerdoti assistenti, il celebrante che portava una reliquia della Vergine SS., l'entusiasmo dei giovani che procedevano a centinaia e con bell'ordine, i loro cantici “Ave maris stella” – “Noi siam figli di Maria”, che risuonavano lontano per i prati e per i campi, e la gente accorsa da tutte parti a contemplare quel nuovo e caro spettacolo.

Per la prima volta adunque il nascente Oratorio aveva spiegato il vessillo della Madonna all'aria aperta, in faccia al sole, e con una festa che si sarebbe rinnovata negli anni seguenti, ricordando il giorno natalizio di D. Bosco, per ringraziare Maria. Infatti il Vescovo di Milo Mons. Marcello Spinola, ora Arcivescovo di Siviglia, stampava nel suo libro intitolato “D. Bosco e la sua opera”: “non essere proposizione azzardata l'affermare che nel 1815 l'Immacolata Signora abbia ascoltate le trepidanti preghiere del mondo intero, mandandogli il 15 agosto la sua benedizione sotto la forma del bambinello Giovanni Bosco, strumento futuro della sua misericordia colla salvezza d'innumerevoli anime.”

Frattanto D. Bosco non tardava a scrivere di rimando al Teol. Borel:

 

“ Car.mo Sig. Teologo, ”

 

“ Mi fu oltremodo cara la compit.ma sua lettera, la quale lessi più volte con molta mia soddisfazione, e L'assicuro che se avessi avuto le ali, avrei fatto un rapidissimo volo per deliziarmi nella processione e nelle comunioni che i nostri figliuoli fecero nell'Oratorio; glielo dica che io ne fui contentissimo. Continui, Sig. Teol. a notificarmi le cose buone e avverse dell'Oratorio, e mi serviranno di dolce trattenimento. Lo stato di mia salute continua sempre in bene; non s'inquieti sul mio occuparmi; saprò fare il poltrone; sono già stato pregato a confessare, predicare, cantar messa, far ripetizione, e a tutti ho risposto: “no”. Tonin ad Ognissanti non prende l'esame, e perciò quivi non fa altro che il lavoro delle vacanze; del resto viene sempre meco in giro. Ne ha molto bisogno. La prego di consegnare al latore della presente i fagotti di Tonin, che sono ancora in fu (al Rifugio) mia camera e insieme i libri dello stesso. Favorisca anche di mandarmi un calendario, se no quivi so nemmeno più se sia giorno festivo o feriale. Venerdì e sabato ora scorsi ha piovuto quivi sufficientemente e così fu tolto l'orrido aspetto delle campagne e ridonato un sembiante di primavera.

 Un cordialissimo Dominus tecum a Lei, a D. Pacchiotti, a D. Bosio etc. Ho un po' mal di denti.

“  D. V. S. Car.ma

 

Aff.mo Servitore amico

D. Bosco

 

“ P.S. Dia anche nuove di me a D. Cafasso”.

 

 

 

 

Il Teol. Borel eseguiva le commissioni dategli da D. Bosco e mandavagli una relazione minuta sull'andamento dell’Oratorio. D. Bosco così gli rispondeva:

 

“Carissimo Sig. Teologo,

 

“ Bravissimo, Sig. Teologo! La sua dettagliata lettera servì a me e ad alcuni miei amici di bellissima lettura. Sono molto contento chè le cose dell'Oratorio progrediscono nel modo che si sperava.

“ Va bene che D. Trivero si presti per l'Oratorio; ma stia ben attento chè egli tratta i figliuoli con molta energia, e so che alcuni furono già disgustati. Ella faccia che l'olio condisca ogni vivanda del nostro Oratorio. Le mando due piccioni della nostra stalla, i quali credo che, non dispiaceranno a D. Pacchiotti; io invece voleva mandare due pollastri, e mia madre non ha voluto, perchè intende che questo genere di cibo si venga a mangiare sul luogo dove fu prodotto. Ma di questo parleremo in altra lettera.

“ Ieri quivi vicino si fece là sepoltura di un uomo che fu soggetto di molti discorsi. In una malattia, data dai medici per insanabile, ad istanza di una pia persona, fe' vota di una confessione, comunione e di una messa. Piacque a Dio la promessa e gli donò la sanità. Senonchè l'altro dimenticò quanto aveva promesso; e sebbene fosse dalla propria moglie e da altri più volte avvertito a mantener la parola col Signore, tuttavia egli niente adempì. Che vuole mai! Godette egli un mese circa di sanità e sabato scorso venne sorpreso da improvvisa malattia, e l'infelice in poche ore passò all'eternità, senza potersi nè confessare nè comunicare,

“ Ieri nell'occasione della sepoltura tutti parlavano di questo fatto.

“ Faccia il piacere di mandarmi una copia dei libretti Le sei Domeniche di S. Luigi; Luigi Comollo; L'Angelo Custode; Storia Ecclesiastica, i quali troverà nella guardaroba accanto del mio tavolino.

“ Lo stato di mia salute continua a migliorare; solo da alcuni giorni sono travagliato da' mal di denti, ma questo secca e poi va via. L'uva è già buona: lo dica a D. Pacchiotti e a D. Bosio; ci pensi anche lei.....

“ Avrei molto piacere che mi desse nuove di Genta, Gamba, dei due Ferreri e di Piola, se si regolano bene, o se battono la luna ecc.

“ Saluti i cari nostri colleghi D. Pacchiotti e D. Bosio e mi creda mai sempre quale di tutto cuore mi dico nel Signore

Castelnuovo d'Asti, 31 Agosto 1846.

 

Aff.mo servitore Amico

Sac. Giovanni Bosco

 

“ PS. Dia questa lettera al Sig. Teologo Vola. Parto all'istante per andare a Passerano a far ribotta.”

 

 

 

 

La parola ribotta in dialetto piemontese significa andare a pranzo, ossia passare una giornata festevolmente cogli amici, e D. Bosco, potendolo, talvolta accondiscendeva volentieri all'invito di qualche suo compagno ecclesiastico ed anche secolare desideroso di averlo alla sua mensa. Le convenienze sociali e i diritti dell'amicizia erano da lui rispettati, eziandio a costo di qualche proprio sacrificio, e ovunque andasse, ricordava gli avvisi dettati dallo Spirito Santo: “Siano uomini giusti i tuoi convitati, e il tuo vanto sia di temere Dio. Il pensiero di Dio sia fisso nell'animo tuo, e tutti i tuoi ragionamenti sieno de' precetti dell'Altissimo”.

Altrove parleremo del come sapesse santificare queste allegre radunanze; intanto rifacendoci alla surriferita lettera, faremo notare come non si avverasse mai per D. Bosco e per i suoi giovani il proverbio: - Lontano dall'occhio, lontano dal cuore. Essi formavano l'oggetto de' suoi pensieri e D. Bosco dei loro. Egli era riguardato come la personificazione dei sacramento della Penitenza e della bontà e grazia di Dio, motivo principale pel quale lamentavano la sua protratta lontananza. I giovani infatti in questi primi anni dicevano sovente con rozza semplicità: “Il tal peccato l'avrei fatto mille volte, ma perchè dispiace a D. Bosco, non lo faccio, e non lo farò mai!”

Perciò, sebbene il Teol. Borel, coadiuvato dagli altri sacerdoti, facesse camminare assai bene l'Oratorio, tuttavia mancando D. Bosco pareva mancasse l'anima ed il cuore. Quindi un continuo parlare di lui; quindi un chiedere notizie di sua sanità; quindi un domandarsi gli uni agli altri quando vi farebbe ritorno; quindi un desiderio vivissimo di riaverlo presto tra loro. Dopo qualche settimana di sua assenza da Torino i giovani incominciarono ad importunarlo con lettere; poi datasi la parola e divisi in piccole squadre presero a visitarlo, percorrendo nell'andare e venire non meno di venti miglia. Generalmente partivano al mattino e ritornavano alla sera. Talora egli ne riteneva ed ospitava alcuni e fra questi Giuseppe Buzzetti. Oltre al piacere di rivederlo e di intrattenersi con lui, un altro movente avevano ancora le loro visite, ed era il sapere che i giovanetti di quelle parti già cominciavano a farglisi attorno, e a dare luogo ad un piccolo oratorio in casa sua. Al sapere ciò, alcuni ingenuamente confessarono di provarne un po' di gelosia e non lieve timore che loro lo rapissero. Un giorno uno di essi sorridendo gli disse: - O Lei ritorna a Torino, o noi trasporteremo l'Oratorio ai Becchi. - Ed egli li consolò dicendo - Continuate, o miei cari, a star buoni e a pregare, e io vi prometto che ritornerò tra voi prima che cadano le foglie d'autunno.

Con queste visite, se non gli era più possibile godere intieramente nè il riposo, nè la tranquillità prescritta dai medici, tuttavia per lui era soave medicina e conforto festeggiare il loro arrivo, parlar con essi lungamente di ciò che era accaduto nell'Oratorio, ascoltarne talvolta le confessioni e dare buoni consigli. I giovani intanto pieni d'entusiasmo narravano ai nuovi amici di Castelnuovo e di Morialdo, cose mirabili di D. Bosco, nè tacevano di quel suono inesplicabile delle campane che avevali accolti nel loro giungere alla Madonna di Campagna; e da ciò essi naturalmente argomentavano essere i giovani dell'Oratorio i figli prediletti di Maria SS. Questi racconti però non furono accolti con favore dagli assennati, ai quali ripugnavano le idee di cose sovrannaturali, secondo loro, non dimostrate, e fecero salire la senapa al naso a certi esaltati dagli scritti di Gioberti che avendo in uggia l'opera di D. Bosco, esclamavano: - Arti gesuitiche! - Quindi malevoli nelle loro conversazioni presero a schernire il nostro buon padre, satireggiando che non solo le campane, ma i campanelli degli altari e della sagrestia, anzi l'organo stesso aveva suonato senza opera d'uomo. E taluni incontrando D. Bosco non esitarono a rimproverarlo acerbamente, accusandolo d'ipocrisia. Ma D. Bosco, sempre tranquillo, taceva lasciando spiovere quell'indiscreto zelo, ovvero con poche parole esponeva sue ragioni a, chi voleva intenderle. Era sempre eguale a se stesso in faccia alla lode e all'ingiusto rimprovero, al plauso e allo scherno, dissimulando l'acrimonia altrui, ovvero cercando di scusarla. “La carità a tutto si accomoda”.

In ciò si riconosceva il vero discepolo di Gesù Cristo. La mortificazione interna ed esterna fu il suo quotidiano esercizio. Un giorno egli discorreva col suo Parroco il Teologo Cinzano, delle tante amarezze che sovente abbeverano le anime giuste desiderose di perfezione. Di parola in parola venne il ragionamento sulla mortificazione cristiana, nel Vangelo rappresentata sotto figura di croce, e si notava questa croce essere specialmente il nostro noi, le nostre passioni, lo studio di vincere le cattive tendenze del proprio naturale, e il patire necessario per vincere in queste lotte spirituali. D. Bosco, sapendo a memoria e avendo meditato tutto il Nuovo Testamento, concludeva: “Questa croce non si può lasciare nè di giorno nè di notte, nè per un'ora, nè per un minuto. Si legge infatti nel Santo Vangelo aver detto il divin Salvatore: - Si quis vult posi me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me.

Il Teologo Cinzano a questo punto lo interruppe: “Tu in questo testo aggiungi una parola: quel quotidie nel Vangelo non si trova.” E D. Bosco, a lui: “Questa parola non è registrata da tre evangelisti; ma osservi, di grazia, nel Vangelo di S. Luca, capo nono, versicolo ventitrè, e vedrà che io nulla aggiungo.”

Il buon Parroco, che pur era valente nelle sacre discipline, non aveva fissata l'attenzione su questo versicolo, e parlando poi cogli amici, rilevava lo studio attento che D. Bosco aveva fatto su tutte le divine scritture e come ne eseguisse i precetti e i consigli specialmente tenendo imbrigliata la sua indole focosa e molto sensibile. Pi√π volte D. Cinzano rese questa bella testimonianza del suo carissimo allievo.

In un solo caso D. Bosco non poteva rimanersi indifferente: nei pericoli e nella perdita delle anime, e alla vista delle offese fatte a Dio.

Di quei giorni, ci narrava Buzzetti Giuseppe, egli ebbe un sogno che gli cagionò molto dolore. Vide due giovani (e li conobbe) che si partivano da Torino per venire ai Becchi; ma quando furono giunti al ponte di Po, si avventò loro addosso una bestiaccia di forme orribili. Questa, dopo averli insozzati di bava, li gettò per terra, ravvoltolandoli lunga pezza nel fango per modo che ne furono lordi da fare schifo. D. Bosco narrò il sogno ad alcuni di quelli che aveva con sè, nominando i giovani di cui aveva sognato: e l'evento dimostrò non essere stata quella pretta fantasia, perchè quei due infelici abbandonato l'Oratorio, si diedero in braccio ad ogni fatta di disordini.

Nel frattempo la sua sanità rinvigorivasi ed egli di quando in quando faceva qualche lunga passeggiata a piedi, che riuscivagli di grande giovamento. Invano però aveva chiesto al Teol. Borel il calendario della diocesi, perchè i medici persistevano che non affaticasse la mente e lo stomaco colla recita dei divino ufficio. Egli tuttavia per contentare la propria devozione non tralasciò di recitarne sempre qualche parte, e ben presto soddisfaceva poi intieramente a questa sua obbligazione.

Sempre riconoscente discepolo, andato a Ponzano per godere alcuni giorni della cara amicizia del suo primo maestro D. Lacqua, passava a far visita allo speziale signor Moioglio, che altra volta come già narrammo, avevalo ospitato, in una notte tempestosa. Di qui egli scriveva al Teol. Borel e dal suo foglio, festevole come sono tutte le sue lettere, veniamo a conoscere e il suo desiderio di ordinare sempre meglio l'Oratorio facendo tesoro delle osservazioni del Teologo, e la premura di assicurare un felice avvenire a qualche suo giovane. Questa lettera però incomincia in modo da far supporre che sia la continuazione di un'altra spedita prima e non pervenuta fino a noi.

 

“ Carissimo Sig. Teologo,

Dal Castello dei Merli

 

“ Quando era piccolino mi venivano raccontate certe storielle che coll'andar del tempo giudicava favole. Ora veggo coi propri occhi che erano ben fondate.

“ S'immagini di vedere un gruppo di colline alte si, ma che abbiano in mezzo un monte che le sorpassi. Superate queste colline mercè molti monta e scendi, si trova a pié del castello dei Merli, che sorge nel posto più bello del Monferrato, distante quattro miglia da Moncalvo e otto da Casale. A prima vista questo castello si presenta come un vasto edificio inaccessibile a chi non è perito dei passaggi che guidano di là dei Merli; ovvero scorgi grosse mura le quali a mo' di lumaca incrocicchiate difendono il castello. Sotto queste grosse mura vi sono scavati grossi archi e profondi, che conducono in voragini sotterranee. Quivi al primo porre piede parevami l'antro della Fata Alcina, o l'abitazione del Mago di Sabina, della Sibilla Cumana e simili. Tutti questi antri rendono tetro e curioso il luogo. Questo castello, questi antri, la loro profondità e lunghezza, furono a parecchi scrittori antichi soggetto di parecchie favole e racconti, alcuni dei quali li racconterò otioso tempore...

“ Sono un mese e alcuni giorni che sono venuto via da Torino, e le cose procedettero sempre di bene in meglio, e da una settimana in qua ho fatto prova a recitar tutto il breviario, e non provai alcun incomodo; e se continuo su questo piede, per il dì di Ognissanti posso servire a fare ottima salsiccia. Perciò io stimo molto a proposito il parlarci per vari rapporti, e questo potrebbesi fare in un lunedì, e per quanto Le sarà possibile. Il giorno più opportuno sarebbe il lunedì del 28 corrente. Vada all'albergo dei Vitello d'oro; vi è la vettura di Castelnuovo che parte in sulla sera; oppure (e lo stimo meglio) al mattino del lunedì venga coll'Omnibus a Chieri, ed io La manderò a prendere costì con un somaro che compierà bene il suo uffizio. Prima di partire passi dal Sig. D. Cafasso, al quale dirò anche qualche cosa sopra una lettera che gli scriverò. Bisogna però che mi scriva come si risolve di fare, e nel tempo stesso mi significhi se ho da procurare del vino o no.

“ Non dimentichi di mandarmi un calendario, che ne ho molto bisogno. In quanto a Genta, avrò fra poco una risposta decisiva e forse favorevole. Il succitato mezzo per venire a Castelnuovo può anche servire per D. Pacchiotti e per D. Bosio; e specialmente il Sig. D. Pacchiotti, il quale ha fatto voto di venire al Vezzolano. Sarò esaudito?

“ Ho passato alcuni giorni con un mio antico maestro di scuola in goj vicino al Castello dei Merli; al ventidue di questo mese sarò a casa per vendemmiare.

“ Li saluto tutti cordialmente ed auguro ad ognuno ogni bene dal Signore. Vale et Valedic.

16 settembre

 

Umil.mo servitore

Bosco Giovanni”

 

D. Bosco sul terminare il foglio nomina il Vezzolano. È questo un celebre santuario, un immenso edificio gotico, in una valle circondata da collinette al nord di Castelnuovo, eretto, dicesi, da Carlo Magno in onore della Vergine SS. D. Bosco nella sua giovinezza avevalo fatto meta di molte sue passeggiate, e di tempo in tempo andava a visitarlo.

 

 

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