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Capitolo 6

Spettacolo miserando dei giovani derelitti - D. Bosco nelle carceri - Il soccorso ai poverelli - Ultimo quadro delle miserie umane - Profezia del Venerabile Cottolengo.


Capitolo 6

da Memorie Biografiche

del 19 ottobre 2006

 Quella misteriosa fiamma, che spingeva D. Bosco a prendersi cura dei giovanetti, colla sua venuta al Convitto vieppiù si accese nel suo cuore alla vista della miseria e dell'abbandono, in cui si trovava tanta gioventù nella capitale del Piemonte.

Nei grossi centri, nelle città più popolate la gioventù certamente presenta uno spettacolo ben più miserando che non nei paesi di campagna. Passando vicino alle botteghe ed alle fabbriche ben di sovente capita di udire risuonare sogghignamenti equivoci, triviali canzonaccie, imprecazioni ed urla, e fra le voci degli adulti distinguersi pure quella del giovanetto, che, alle volte, percosso ed inseguito da un padrone disumano, piange, imbestialisce, s'indura e racchiude pensieri d'odio e di vendetta. Rasentando le case in costruzione, si scorgono fanciulli dagli otto ai dodici anni di età ancora tanto bisognosi delle cure e delle carezze di una madre, lontani dal proprio paese, servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti mal sicuri, al sole, al vento, alla pioggia, salir le ripide scale a piuoli carichi di calce, di mattoni e di altri pesi, e senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi, qualche urto o pezzo di mattone scagliato come ammonimento, oppure uno scapaccione tra capo e collo, non di rado accompagnati da bestemmie. Altri bambini s'incontrano, coperti a stento di stracci, che i parenti, o per negligenza o, per infingardia o per vizio, mandano sulla strada o ve li cacciano, non volendo essi andarvi.  

Talvolta è la necessità di un lavoro o di una commissione da eseguirsi, che ciò consigliano, per poter chiudere la stamberga, senza inquietudine delle povere masserizie che in essa vi sono, durante l'assenza. Non di rado però ciò è effetto di calcolo, costringendo i fanciulli a chiedere elemosina ai passanti, assuefacendoli così all'accattonaggio ed all'ozio, per liberarsi dalla spesa di provvedere loro del pane. E questi poveretti sulle cantonate delle vie, lungo i corsi d'acqua, nei viali, insudiciati di fango, e di polvere, correre, divertirsi, rissare, senza che nessuno dia loro consigli di vita eterna; e non vedono intorno a sè che esempi malsani, miseria e cattiveria, che precocemente avvelena le loro tenere animuccie. Di quando in quando avviene d'imbattersi in qualche capannello di giovinastri oziosi, beffardi, provocatori, che sulla fronte portano scolpito il marchio della depravazione, miserabili che tra non molto, strascinati dai perfidi compagni, e dalle loro passioni a qualche delitto, hanno in prospettiva la galera e forse anche il patibolo, e nessuno v'è che pensi a stender loro la mano a tempo per salvarli dalla giustizia divina ed umana. Sul far della sera tu vedi quelle torme di operai, che, ritornando dal lavoro, salgono alla mefitica soffitta o scendono nelle latebre di certe stanze sotterranee, ed ivi, direi quasi accatastati per potere in molti pagare il fitto, prendere il riposo dopo la faticosa giornata. E in mezzo a loro garzoncelli, o privi di prossimi parenti o da questi abbandonati, respirare l'aria corrotta di quei luridi ricoveri e sciupare in quelle compagnie la floridezza della loro vita, senza mai udire una buona parola, un avviso cristiano.

Questo desolante quadro si presentò a D. Bosco in tutta la sua orridezza in fin dai primi giorni della sua dimora in Torino. Ordinate che ebbe le sue cose al Convitto, com'egli stesso ci ha narrato più volte, volle tosto farsi un'idea della condizione morale della gioventù della capitale col percorrerne i diversi quartieri nelle quotidiane passeggiate. Quei giovanetti così abbandonati, vagabondi, in mezzo a compagnie procaci stringevano il suo cuore e lo facevano gemere di compassione. Talvolta imbattendosi in quei piccolini, a sè li chiamava, li regalava di una medaglia o di qualche centesimo, e li interrogava sulle prime verità della fede, cui essi non sapevano rispondere.

Nei giorni festivi sopratutto egli prolungava le sue esplorazioni, e penava nel vedere gran numero di giovanetti di ogni età, che, invece di recarsi alla Chiesa, vagavano per le vie e su per le piazze, guardando con istupida meraviglia le persone profumate e fastose, che andavano e venivano, intorno ad essi noncuranti dell'altrui indigenza, mentre altri dietro l'invetriate di luride osterie, alla luce di lanterne affumicate, sbevazzavano e gozzovigliavano colle carte da giuoco in mano. Quelle turbe specialmente che nei dintorni della cittadella, nei prati fuori dazio e nei sobborghi giuocavano in modo sconvenevole, rissavano, bestemmiavano e tenevano turpi discorsi, per non dire di peggio, gli rappresentavano al vivo la verità del sogno fatto a dieci anni e si andava viemmeglio persuadendo quello essere il campo da coltivare additatogli dalla veneranda matrona la Santa Vergine.

Più di una volta vedendo quel prete avanzarsi soletto fra di loro e fermarsi ad osservarli, quegli sfrontati garzoncelli ne lo deridevano; ma i loro scherni ed insulti risuonavano all'orecchio del giovane sacerdote quali grida del profeta esclamante: Parvuli petierunt panem, et non erat qui frangeret eis. Fanciulli affamati chiedevano il pane della parola di Dio e non v'era chi si movesse a compassione di loro e loro lo spezzasse. E però andava seco stesso meditando come raccoglierli nel maggior numero possibile in qualche luogo, sottrarli a quei pericoli, toglierli dall'ozio e dalle cattive compagnie, assisterli, istruirli, far loro osservare il precetto festivo, condurli ai SS. Sacramenti. D. Bosco capiva che non andavano ai catechismi, perchè niuno li mandava o vigilava perchè vi andassero.

I Parroci si occupavano alacremente nel sacro ministero e molto era il da fare. I cittadini in generale avevano cura di mandare i figli alla Chiesa ed i più ve li accompagnavano; ma vi erano due classi numerose proprio abbandonate. Torino a quei dì incominciava ad ingrandirsi, le fabbriche si aumentavano, e quindi accorrevano per questi lavori migliaia di operai vecchi e giovani dal Biellese e dalla Lombardia. Essi partivano dai loro paesi istruiti, ma qui non sapevano dove andare, nè come presentarsi ai Parroci, e quindi dimenticavano le verità imparate, nè praticavano i doveri del buon cristiano. Eziandio una parte della plebe, nei rioni più remoti, non troppo accessibili ai sacerdoti, stava lontana dalle parrocchie e viveva in una grande ignoranza delle cose di religione. D. Bosco adunque vedeva un campo vastissimo aperto al suo zelo; ma, ricordando la prudente massima di S. Francesco di Sales: “Seguire e non precedere i passi della Divina Provvidenza”, benchè con un po' di santa impazienza, attendeva l'ora da essa stabilita. Se non che, il quadro della desolazione e dello scempio, che producono nei giovanetti la mancanza di religione ed il cattivo esempio, non era ancora completo nella mente di D. Bosco. A formarsene una giusta idea gli era d'uopo recarsi negli ospedali, internarsi nelle misere soffitte dei poveri, penetrare nelle carceri, ove tutte si adunano le sventure che l'irreligione ed il mal costume scagliano sulla misera umanità. E la Provvidenza Divina aveva pur disposto che D. Bosco dal Convitto si potesse recare in simili luoghi a raddoppiare l'ardore del suo zelo per la salvezza dei giovanetti.

Il Teol. Guala, uomo assai munifico, soleva ogni settimana spedire ai prigionieri, massime a quelli del Correctionel, tabacco, pane ed anche danaro; e per quest'ufficio di carità si valeva dei Convittori che vi andavano a fare il Catechismo.

D. Cafasso poi, aggregato da più anni alla Compagnia della Misericordia composta di trecento confratelli, era annoverato fra quei soli otto scelti per visitare le carceri e sovvenire i prigionieri nei loro bisogni spirituali e temporali; fra essi egli era il più zelante.  

Le carceri erano, si può dire, il suo elemento e i carcerati i suoi figli. Il visitare tanti infelici era un bisogno dei suo cuore. Desideroso che il suo discepolo e compatriota D. Bosco si unisse a lui nell'ambito campo delle sue fatiche, lo condusse pur alle carceri. Dal modo, col quale D. Bosco si esprime nel descrivere i portenti del venerato maestro nelle prigioni, ben possiamo dedurre quali siano state le sue prime impressioni nel seguirlo e come avesse comuni con lui gli affetti ed i propositi.

“Il sacerdote Cafasso vi entra, così D. Bosco. Non lo sgomentano le sentinelle e le guardie; passa le ferree porte e i cancelli; non si commuove al rumore dei catenacci; non lo arresta l'oscurità, l'insalubrità, il fetore del luogo. In una di quelle stanzaccie si ride e sghignazza, in un'altra si canta, e sono urla più di animali feroci che di umane creature; ed egli non si mostra nauseato ed infastidito: neppure dà segno d'apprensione nel trovarsi in mezzo a numeroso stuolo di carcerati, un solo dei quali avrebbe messo terrore ad una schiera di passeggieri e alla medesima forza armata. D. Cafasso è tra di loro. Qua si maledice, là si rissa, colassù si parla osceno, colaggiù si vomitano orribili bestemmie contro Dio, contro la B. Vergine e contro i Santi. Il coraggioso sacerdote a simile spettacolo prova in cuor suo amaro cordoglio, ma non si perde di animo. Egli alza gli occhi al cielo, fa sacrifizio a Dio di se stesso, si pone sotto la protezione di Maria SS., che è sicuro rifugio dei peccatori. Appena egli incomincia a parlare a quel nuovo genere di uditori viene tosto ad accorgersi che costoro sono divenuti infelici, anzi abbrutiti, perchè la loro sventura derivò piuttosto da mancanza d'istruzione religiosa che da propria malizia. Parla loro di religione, ed è ascoltato; si offre di ritornare, ed è atteso con piacere. L'intrepido ministro di Gesù Cristo continua i suoi catechismi, invita ad aiutarlo altri sacerdoti e specialmente i suoi convittori, in fine riesce a guadagnarsi il cuore di quella gente perduta.  

Si incominciano le prediche, si introducono le confessioni. In simile guisa per opera di un uomo solo quelle carceri, che per imprecazioni, bestemmie ed altri vizii brutali sembravano bolgie d'inferno, divennero un'abitazione di uomini che conoscono d'essere cristiani, incominciano ad amare ed a servire Iddio Creatore e a cantar lodi all'adorabile Nome di Gesù”.

Però se questi frutti consolanti fin da principio cagionano grande gioia a D. Bosco, un'emozione vivissima egli prova, di spavento e di pietà ad un tempo. L'incontrare nelle carceri turbe di giovanetti ed eziandio di fanciulli sull'età di dodici ai diciotto anni, tutti sani, robusti e d'ingegno svegliato; vederli là inoperosi e rosicchiati dagli insetti, stentando di pane spirituale e temporale, espiare in quei luoghi di pena con una trista reclusione, e più ancora coi rimorsi le colpe di una precoce depravazione, fa inorridire il giovane prete. Egli vede in quegli infelici personificato l'obbrobrio della patria, il disonore della famiglia, l'infamia di se stessi; vede soprattutto anime redente e francate dal sangue di un Dio gemere invece schiave del vizio, e nel più evidente pericolo di andare .eternamente perdute.

Cercando la causa di tanta depravazione in quei miseri giovani, gli parve di trovarla non solo nell'essere stati lasciati, dai parenti in un deplorevole abbandono nello stesso loro primo ingresso nella vita, ma molto più nel loro allontanamento dalle pratiche religiose nei giorni festivi. Convinto di ciò D. Bosco andava dicendo: Chi sa, se questi giovanetti avessero avuto forse un amico, che si fosse presa amorevole cura di loro, li avesse assistiti ed istruiti nella religione nei giorni di festa, chi sa se non si sarebbero tenuti lontani dal mal fare e dalla rovina, e se non avrebbero evitato di venire e di ritornare in questi luoghi di pena? Certo che almeno il numero di questi piccoli prigionieri sarebbe grandemente diminuito. Non sarebbe ella cosa della più grande importanza per la religione e per la civile società il tentarne la prova per l'avvenire a vantaggio di centinaia e migliaia di altri fanciulli? E pregava il Signore che gli volesse aprire la via per dedicarsi a quest'opera di salvamento per la gioventù. Ne comunicò il pensiero a D. Cafasso, dal quale ebbe approvazione ed incoraggiamento, e coi suo consiglio e co' suoi lumi prese tosto a studiare il modo di effettuarlo, abbandonando il buon esito alla divina Provvidenza, senza di cui tornano vani tutti gli sforzi dell'uomo. Frattanto lo stesso Teol. Guala, generoso verso tutti i poveri, le migliori elemosine soleva recarle insieme con D. Cafasso a domicilio, servendosi anche all'uopo dei convittori, per mezzo de' quali periodicamente soccorreva numerosissimi individui e famiglie che sapeva trovarsi nelle strettezze. E di questo incaricò pure D. Bosco, dandogli appropriati consigli di prudenza ed opportuni ammonimenti, perchè i poverelli colla carità materiale ricevessero eziandio la carità spirituale di dolci ed amorevoli parole e di cristiane esortazioni.

D. Bosco pertanto saliva a quelle soffitte, basse, strette, squallide e luride, dalle pareti annerite, che servivano di dormitorio, cucina, stanza da lavoro ad intiere famiglie, ove vivevano e riposavano padre, madre, fratelli e sorelle, con quello scapito di convenienze che si può immaginare. Severa qualche infermo coricato, il visitatore doveva alle volte scavalcare tre, quattro pagliericci, dalle foglie trite e puzzolenti pel lungo servizio reso, onde arrivare all'angolo, ove giaceva il miserello battente i denti per la febbre o intirizzito dal freddo, e dirgli in nome di Dio una parola di conforto. Al comparire di quest'angelo consolatore i volti macilenti e pallidi di que' poveri operai, di quelle infelici madri, di quei teneri fanciulli si rischiaravano tosto di un dolce sorriso. E quante benedizioni non si alzavano al nome di Don Cafasso e del Teol. Guala specialmente dalle povere madri!  

Alcune di esse ignoranti delle verità eterne, altre aliene dalla Chiesa e dai Sacramenti per vergogna della loro povertà, altre irritate e tristi per la propria miseria, non potevano certamente infondere nelle loro creature il sentimento e l'istruzione religiosa, che non avevano esse stesse. Altre, anime dei Signore, rassegnate alla loro indigenza, piangevano la cattiva condotta dei figli pervertiti dagli esempi paterni o dai cattivi compagni. Talvolta s'incontravano uomini disamorati della famiglia, perchè la voce della natura si tace, ogni affezione si distrugge, il sentimento anche più potente finisce per estinguersi, quando l'immoralità si aggiunge alla miseria. Al cospetto degli stessi loro figli non si peritano di bestemmiare, schernire la religione di una buona madre e nella loro ubbriachezza insultare nel modo più villano e persino percuotere la compagna che Dio loro ha dato.  

L'umanità compatisce, la beneficenza porta consolazioni, ma la carità sola si sacrifica, ed è per questo sacrificio che la religione di Gesù Cristo opera miracoli. La elemosina dà il diritto di parlare francamente e la santa parola è ascoltata prima con deferenza, poi commuove, ed infine col tempo opera anche splendide conversioni. Queste scene tutte passavano sotto gli occhi di D. Bosco, il quale ne riportava sempre profonda impressione e si andava vieppiù persuadendo della necessità che i giovanetti venissero fortificati nei pensieri di fede per resistere alle tentazioni del male sotto il peso delle privazioni e della povertà.

Ma un altro quadro delle miserie umane voleva svelare il Signore al nostro D. Bosco. Un giorno di questi primi mesi incontratosi col venerabile Cottolengo, questi, fissatolo in volto e richiestolo di sue notizie, gli disse: “Avete la faccia da galantuomo; venite a lavorare nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, che il lavoro non vi mancherà”. D. Bosco gli baciò la mano, promise e a suo tempo mantenne la parola.

Intanto dopo pochi giorni, insieme con altri convittori, si recò in Valdocco. L'Opera Pia del Cottolengo era già in quei tempi divenuta colossale. Cominciata da tenui principii nel 1827, senza reddito fisso, con solo quei tanto che la quotidiana Divina Provvidenza le somministrava per mezzo di caritatevoli persone, prosperava a segno che annoverava allora 1800 persone d'ambi i sessi, orfani abbandonati, invalidi al lavoro, storpi, paralitici, ebeti, epilettici, ulcerosi, ammalati incurabili di ogni genere, gravità, e schifezza di infermità, stati respinti dagli altri ospedali perchè i regolamenti impedivano di riceverli. E questi accolti tutti gratuitamente, trattati con somma bontà e provveduti del conveniente sostentamento e di tutte le cure necessarie al loro stato. Medici distintissimi li assistevano pure gratuitamente. Molte e varie categorie, ossia famiglie di persone religiose erano addette alla direzione spirituale e temporale. Un numero grande di sacerdoti della città veniva ad ascoltare le confessioni con grande spirito di abnegazione. Tutto questo continua tuttora in proporzione quadruplicata. È una vera porta del cielo, perchè moltissimi dei ricoverati morirebbero altrove senza i conforti religiosi; quivi sono curati egualmente i cristiani e gli acattolici a qualunque setta appartengano, protestanti, eretici, ebrei o gentili; e quasi tutti si rifugiano nel grembo della Chiesa. Sono innumerevoli le anime salvate da questa opera provvidenziale.

D. Bosco nell'entrarvi vide risplendere sul portone il motto che spiegava il segreto di tanti miracoli: Charitas Christi urget nos. E inginocchiatosi innanzi all'immagine di Maria posta nell'anticamera delle corsie, fu commosso alle lagrime leggendo su quell'arco: Infirmus eram et visitastis me. Quindi chiese di essere presentato al venerabile Padre Fondatore.  

Questi lo accolse con amorevolezza e gli fece visitare quei vasti locali. Ogni angolo ispirava carità e fervore. Tuttavia D. Bosco ebbe motivo di tristezza, temperata però da consolazione. Vedeva in certe infermerie i letti occupati da poveri giovani, sui quali l'angelo della morte già distendeva le sue ali. Quelle faccie consunte, quelle tossi ostinate, quella totale prostrazione di forze gli palesava chiaramente che l'abito del vizio aveva avvizzito quei poveri fiori di gioventù. Loro disse qualche parola di conforto ed essi l'ascoltarono con rassegnazione al volere di Dio, e al suo sorriso sorridevano essi pure mestamente. “Oh quanto ha bisogno questa povera gioventù di essere premunita e salvata!” pensava D. Bosco.

Finito lentamente il giro di quella cittadella del dolore cristiano, mentre D. Bosco era sul congedarsi, il venerabile Cottolengo, toccando e stringendo tra le sue dita le maniche della veste di D. Bosco esclamò:

“Ma voi avete una veste di panno troppo sottile e leggiero. Procuratevene una che sia di stoffa molto più forte e molto consistente, perchè i giovanetti possano attaccarvisi senza stracciarla….. Verrà un tempo, in cui vi sarà strappata da tanta gente!”.

Questo fatto ci venne narrato dal Can. Domenico Bosso, uno dei successori del Cottolengo, che essendo ancor fanciullo era presente, nè dimenticò più la profezia. Il tempo previsto dal venerabile Cottolengo non è più tanto lontano, e lo spettacolo d'immense moltitudini di giovanetti circondanti D. Bosco avverrà precisamente nella regione medesima ov'è impiantata la Piccola Casa della Divina Provvidenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

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