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Capitolo ottavo. CON DIO NELL'AZIONE.

"Basta, in una parola, che esca, per così esprimerci, fuori di sé (estasi) e si unisca intensamente all'azione con la quale Cristo risorto continua a compiere la salvezza del mondo, per entrare in sintonia con Lui e divenirgli progressivamente conforme."


Capitolo ottavo. CON DIO NELL'AZIONE.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          La vita di don Bosco è veramente attraversata dalla preghiera - nelle sue diverse espressioni - come il letto del fiume dalle sue acque. La sua intensa unione con Dio attinge perennemente a questa inesauribile fonte. La stessa affermazione va fatta per quanto attiene alla sua multiforme attività: da quella più sacra a quella più quotidiana e feriale, che egli ha saputo vivere come luogo del suo abituale incontro con Dio, come il lettore avrà avuto modo di percepire lungo il discorso fatto fin qui. Sembra tuttavia legittimo e doveroso, sia pure solo a titolo di coronario, precisare meglio come sia possibile dare interiorità e significato soprannaturale all'azione, in quanto tale, e vedere come lo abbia fatto don Bosco.

Partendo dal presupposto che l'«unione con Dio» nell'azione è, essenzialmente partecipazione, in gradi diversi, all'agire stesso di Dio Creatore e Salvatore, possiamo distinguere, semplificando, tre campi di azione o tre tipi di mediazione, di cui si è servito il Santo per entrare e stare in comunione con Dio: quella specificamente sacerdotale, la sua carità pastorale, le attività profane.

 

«Con Dio» nelle attività di ministero.

Le tipiche attività ministeriali di don Bosco, svolte in virtù del carattere sacerdotale, che lo configura a Cristo Capo e ne fa un collaboratore essenziale del vescovo in ordine all'edificazione della Chiesa, si distinguono, come rilevano gli autori, da ogni altra forma di attività benefica, perché sono la continuazione e il prolungamento della stessa attività redentrice di Cristo, che diffonde il suo messaggio di salvezza e comunica la vita divina. In questo tipo di azione don Bosco opera «in persona Christi», è suo «strumento vivo». Perciò non solo le sue intenzioni sono spirituali, ma spirituale è la struttura stessa dell'azione che compie, in quanto prolunga direttamente l'agire salvifico e attuale di Cristo.

L'agire apostolico facilita così di molto l'unione con Dio. «Basta che l'apostolo, per così dire, aderisca seriamente alla sua attività apostolica perché penetri nell'ordine soprannaturale e partecipi all'effusione della grazia» (Ch. Bernard). Basta cioè che corrisponda alla «grazia speciale» del suo sacerdozio perché gli sia consentito di «avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Colui del quale è rappresentante e la debolezza dell'umana natura trova sostegno nella santità di Lui» (PO, n. 12).

Basta, in una parola, che esca, per così esprimerci, fuori di sé (estasi) e si unisca intensamente all'azione con la quale Cristo risorto continua a compiere la salvezza del mondo, per entrare in sintonia con Lui e divenirgli progressivamente conforme.

È quanto don Bosco faceva mosso dal suo istinto spirituale. Per quanto povera fosse stata la sua teologia sul sacerdozio, sotto l'impulso dello Spirito e con la guida di quell'eccezionale formatore di sacerdoti che fu don Cafasso, egli fece della sua mistica identificazione con Cristo sacerdote l'anima della sua anima. In questo senso lo orientavano le gravi ammonizioni che gli rivolgevano, a mano a mano che accedeva agli ordini sacri, i vescovi celebranti: Imitamini quod tractatis», «Vivete ciò che fate». Lo stimolava il catechismo della diocesi che suggeriva, tra i modi con cui assistere al divino sacrificio, quello di «unirsi ai fini» per cui viene celebrato, di «contemplare la passione e morte di Gesù Cristo», di «unirsi a Lui spiritualmente». Egli stesso, fin dalla prima edizione del Giovane Provveduto (1847) aveva indicato una Maniera per assistere con frutto alla Santa Messa, ispirata a testi antichi, ricca di pensieri semplici e toccanti. Nell'Avvertimento iniziale si poteva leggere: «Capite bene, o figliuoli, che nell'assistere alla Santa Messa fate lo stesso come se vedeste il Divin Salvatore uscir di Gerusalemme e portare la croce sul Monte Calvario, spargere fino all'ultima goccia il suo sangue» per la nostra salvezza. Ma il Catechismo suggeriva pure che durante la Messa si potevano recitare altre orazioni. La pratica del Rosario, già diffusa e che don Bosco ritenne ad un certo punto la più adatta per i suoi giovani, divenne una costante.

Umilissimo come era, non rifiutò mai attestazioni di riguardo tutte le volte che erano rivolte ad onorare in lui la dignità del sacerdote, viva immagine di Cristo: «Sono ben contento - disse un giorno a persone distinte che abbondavano in elogi - che si abbia tanta stima del carattere sacerdotale; per quanto si dica bene del sacerdote, non si dirà mai abbastanza».

Si ritenne sempre e solo, come ebbe modo di ripetere in più circostanze, un umile strumento nelle mani «sapientissime e onnipotenti» di Dio. «Io credo - ebbe a dire un giorno, come abbiamo già ricordato - che, se il Signore avesse trovato uno strumento più vile, più debole di me, avrebbe fatto cento volte più di quello che ho fatto». Come accade nei santi quanto più sono vicini, uniti a Dio, tanto più si inabissano nell'umiltà.

Nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali don Bosco si manifestava un uomo completamente astratto dalle cose di questo mondo, tanto era raccolto in Dio. Tutti potevano costatarlo quando celebrava la Santa Messa, quando parlava di Dio con una unzione che gli veniva da regioni superiori. Se ne stava, ad esempio, nel confessionale «parecchie ore di seguito, interamente compenetrato nel suo ministero, senz'aria di noia, senza mai sospendere per ragioni umane. Non sospendeva nemmeno quando convenienze eccezionali sembravano consigliare di farlo. È inutile discutere: per i santi non esistono negozi terreni che reggano al confronto degli interessi celesti» (E. Cena).

Così era don Bosco; in lui l'esercizio del sacro ministero era realmente occasione quotidiana per crescere «nell'amore di Dio e del prossimo» (LG, n. 41).

 

«Con Dio» nelle attività caritative

«Dire don Bosco è dire carità: carità inesauribile nel trattare coi prossimi, carità ineffabile nel sollevare afflitti e confortare moribondi, carità eroica nell'andare in cerca dei mezzi per praticare la carità». Tutta la vita lo prova. Ora il fatto che egli nei suoi rapporti di carità verso tutti - così coinvolgenti e ricchi di calore umano - non operasse più in persona Chlisti, non fosse, perciò, più il suo prolungamento diretto nell'attività salvifica e santificatrice, nulla impediva che facesse della sua carità una mediazione privilegiata della sua abituale unione con Dio. E ciò soprattutto per tre ragioni ben note.

La prima, perché la carità è dono dell'amore infinito di Dio che appella a libere scelte di amore corrisposto: «Aspirate all'amore» (1 Cor 14,1); «Camminate nell'amore» (Ef 5,2).

La seconda è da ricercare nel fatto che ogni azione positiva verso il prossimo, ogni relazione di vero amore, di reciproco scambio è sempre partecipazione in Cristo all'azione stessa di Dio-Trinità, dove ogni Persona esiste solo per darsi e donandosi.

La terza, perché ogni esercizio di carità verso il prossimo è il compimento del grande comando di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Le opere buone fatte dai giusti sono fatte a Gesù: lo avete fatto a me» (Mt 25,40).

Un servizio del prossimo che prescindesse da Dio e dal suo amore non sarebbe carità; come non lo sarebbe un amor di Dio che prescindesse dalla carità. «Il vero Dio è inconcepibile senza il suo ineffabile amore all'uomo; e il vero prossimo è impensabile se non come immagine di Dio» (E. Viganò). La tradizione cristiana, da S. Agostino a S. Gregorio, a S. Bernardo, ai santi moderni non ha mai separato la vita cristiana dall'impegno della carità. Quando s'impone la scelta tra la preghiera e un dovere certo di carità tutti affermano che il dovere di carità è più urgente, perché rispondente ad una più chiara volontà di Dio (cfr. Mt 25,31-46). Don Bosco si è sempre mosso in questa prospettiva. Amava Dio nel prossimo e il prossimo in Dio. «Egli vedeva - parla don Rua - nel suo prossimo l'opera di Dio e Dio stesso nel prossimo; vedeva in ciascuno degli uomini un fratello in Gesù Cristo e quindi li amava per amor di Dio. Non era semplicemente naturale simpatia; era l'amor di Dio, la carità di Gesù Cristo che lo stimolava a spendersi tutto per il suo prossimo». Era convinto che i giovani sono la «delizia e la pupilla dell'occhio divino», e li prediligeva di un amore senza limiti. E più erano prossimi al Salvatore per la loro povertà e il loro abbandono, più stimolavano la sua carità industriosa.

Ma bisogna anche dire che il prossimo - specialmente i giovani - sono stati il sacramento nel quale egli s'incontrava quotidianamente col Signore. I giovani sono il «fiato» del mondo. Don Bosco ha respirato a pieni polmoni il loro «fiato vitale», che gli dava giovinezza, ardire, alimento spirituale, gioia, ogni volta nuovi. Tra lui ed i suoi alunni vi fu sempre, infatti, un mutuo darsi e ricevere che lo riempiva di soddisfazioni profonde: «Oh! quale consolazione si prova quando si giunge alla sera stanco e spossato di forze, avendo impiegato tutto il giorno per la gloria di Dio e la salvezza delle anime!».

 

«Con Dio» nelle attività profane.

Anche delle attività di tipo prevalentemente profano, che abbondano nella vita di don Bosco - lavori manuali, professionali, scuola, stampa, cultura, ecc. - egli ha fatto il luogo del suo incontro con Dio, la via per salire a Lui.

Anzitutto perché ogni attività di tipo anche solo creaturale, purché onesta, è sempre partecipazione all'agire di Dio, alla sua benevola volontà scritta nelle cose e regolatrice degli eventi. La tradizione cristiana, da sempre, vede Dio presente nell'universo mediante la prima rivelazione. Anche l'impegno professionale, sociale, tecnico, essendo cooperazione all'intenzione creatrice di Dio, è in sé buono e può essere trasfigurato e ricapitolato nel mistero dell'incarnazione e della redenzione.

Sappiamo che don Bosco santificava le attività profane orientandole intenzionalmente a Dio. La retta intenzione ha una grande importanza nella sua spiritualità, nel lavoro santificato. «Il lavoro - diceva - basta santificarlo con la retta intenzione, con atti di unione al Signore e alla Madonna e col farlo meglio che potete».

Alle Figlie di Maria Ausiliatrice che gli dicevano: «Ci parli dello stare sempre alla presenza di Dio», rispondeva: «Sarebbe veramente bello! Ma possiamo fare così: rinnovare l'intenzione di far tutto alla maggior gloria di Dio ogni volta che si cambia occupazione. Non è poi tanto difficile fare l'abito della continua unione con Dio».

Don Bosco non si smentisce: anche là dove il suo operare sembra contrassegnato dal profano, le sue motivazioni sono elevate. Gli interessi 0del Regno e delle anime sovrastano tutto. «Dicano gli uomini del mondo che è passato il tempo dei religiosi - confidava ai suoi -, che i conventi rovinano dovunque: noi a qualunque costo vogliamo cooperare col Signore alla salute delle anime». E si lamentava perché a Parigi come a Pietroburgo, come a Londra, come a Firenze non si trattasse e discutesse che «d'armate, di guerre, di conquiste, di finanze». L'elevatezza delle sue intenzioni dava sostanza nuova alle cose.

Il valore dell'intenzione, dice Teilhard de Chardin, «infonde un'anima preziosa a tutte le nostre azioni». La retta intenzione, la volontà cioè di servire unicamente Dio, è «veramente la chiave d'oro che apre il nostro mondo interiore alla presenza di Dio. Esprime con energia il valore sostanziale della volontà divina».

L'intenzione è un elemento molto positivo della vita nello Spirito: saremo giudicati in base alle intenzioni del nostro agire. È vero che «la preghiera e la retta intenzione non bastano a cambiare la qualità intrinseca di una azione, di un lavoro o di un prodotto, e possono anche degenerare in evasione dall'impegno nella prassi». Ma nel suo santo realismo don Bosco non dissociava la buona intenzione dalle buone opere. Alle buone intenzioni, di cui è lastricato l'inferno, preferiva l'opera anche non troppo perfetta. Solo l'opera buona è la dimostrazione pratica e il metro sicuro per misurare il vero amor di Dio.

La retta intenzione non era, però, l'unico mezzo con il quale don Bosco santificava le attività profane. Esse infatti venivano da lui sistematicamente assunte e vissute come «dovere di stato», come esigenza ineludibile di una chiara disposizione divina. Oggi si tende a mettere il silenziatore su tutto ciò che sa di imposizione, di dovere. Al tempo di don Bosco la «.95iritualità del dovere» era molto in auge; anche in campo profano l'etica kantiana aveva il suo seguito. Al di là di possibili false interpretazioni, ricordiamo che si tratta di un valore che non ha perso né il suo mordente, né la sua attualità.

Si dà infatti giustamente per certo che la realtà presente, anche profana, contiene la volontà di Dio. Scrive D. Caussade: «L'ordine di Dio è la pienezza di tutti i nostri momenti; esso si esprime sotto mille apparenze diverse che diventano necessariamente nostro dovere presente, formano, fanno crescere in noi l'uomo nuovo fino alla pienezza che la Saggezza divina ha stabilito per noi».

Quanto più lo sguardo di fede, di speranza e di amore discernerà la presenza di Dio nelle cose, tanto più sarà facilitato l'abbandono alla sua volontà nel momento presente, ed è ciò che veramente conta. Il pieno abbandono alla volontà di Dio è l'espressione più alta del suo amore: «Ama chi fa tutto ciò che Dio vuole in radicale adesione al volere di Dio. Ama chi lo fa perché Dio lo vuole, senz'altra ragione fondante di questo volere di Dio. Ama chi lo fa nel miglior modo possibile, come esige l'eccellenza di Dio» (G. Gozzelino). Don Bosco vive in quest'ottica e di quest'ottica. Egli infatti considera il dovere compiuto esattamente come mediazione sicura e facile per realizzare l'unione pratica con Dio.

Di qui la sua proverbiale e quasi continua insistenza presso discepoli e giovani sul «Dio ti vede», sulla necessità di vivere ed operare alla presenza e nella presenza di Dio: «Questo pensiero della presenza di Dio [qui e adesso] ci deve accompagnare in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni azione». «Ognuno eseguisca i doveri del suo ufficio alla presenza di Dio».

La spiritualità di don Bosco è decisamente, non esclusivamente, una spiritualità del dovere. Lo afferma con autorevolezza A. Caviglia: «La precisione nel dovere è, per don Bosco, il primo articolo di ogni santità, il primo postulato della spiritualità. Chi conosce un po' da vicino il santo Educatore sa che questa concezione stava alla base di ogni suo lavoro educativo, tanto nell'ambiente della vita comune quanto nello spirituale».

Il Santo, che ha dato tanta importanza al lavoro e all'attività in generale, ha intuito che anche le attività profane possono orientarsi a Dio dal di dentro - purché oneste - in ragione di una loro consistenza e relativa autonomia? Sono prospettive moderne che la spiritualità tradizionale non si poneva.

 

La grazia di unità.

Nella misura in cui è vero che chi è guidato soltanto dalla «buona intenzione» difficilmente evita una certa dicotomia o separazione tra vita spirituale da una parte e vita attiva dall'altra, dovremmo trovare qualche traccia di questa divisione in don Bosco.

Santi come Agostino, Gregorio Magno e molti altri, compreso lo stesso Cafasso, hanno sempre sentito, nel pieno della loro attività, una forte nostalgia per i tempi destinati alla preghiera. Nulla di simile si riscontra nella vita del Santo. Quando di notte, con mamma Margherita, aggiusta gli squarci dei vestiti che i giovani si sono fatti di giorno, non rimpiange altri lavori più sacerdotali, non appare diviso tra orazione e azione, non sente la nostalgia dell'altrove; accetta il profano e lo trasfigura, lo unifica con la grnia dell'unità tra interiorità e operosità», che è un unico movimento di carità verso Dio e verso il prossimo.

In questa grazia d'unità - spiega don E. Viganò, suo settimo successore - della vita interiore di don Bosco troviamo l'elemento strategico dell'interiorità salesiana. Unità fra che cosa? Unità tra lo sguardo su Dio - adorazione, ascolto, preghiera - e l'impegno di salvezza che lancia tra i giovani, in modo però che questo impegno non sia una distrazione da quello sguardo, e che lo sguardo non sia una evasione dall'impegno, l'uno alimenti l'altro; l'uno sia il supporto, il momento di ricerca e di riferimento per l'altro. È più facile dirlo che praticarlo, ne siamo tutti convinti; ma don Bosco lo ha vissuto così».

La «grazia dell'unità» si può dire l'asse della sua spiritualità. Una spiritualità che non sacrifica la preghiera all'azione e l'azione alla preghiera. Tuttavia tra una urgenza apostolica, caritativa e umanizzante, e una prolungata orazione, il carisma di don Bosco lo porta a scegliere l'azione, nella quale scorge una precisa volontà divina. Ma bisogna anche dire che egli è talmente unito a Dio nel momento dell'azione da non rimpiangere la preghiera; ed è talmente unito a Dio nella preghiera da non rimpiangere l'azione.

Azione e preghiera sono realmente vissuti come momenti convergenti di una intensa vita teologale, di cui è espressione suprema la carità pastorale. Don Bosco dimostra di trovarsi a suo agio nella città di Dio ed in quella degli uomini perché, in un caso come nell'altro, vive la sua immersione in Dio.

Come lui agivano altri apostoli e missionari insigni. Il Lollemann, ad esempio, coevo del santo dei Becchi, cercava di giustificare il valore santificante dell'azione apostolica parlando di «unione con Dio pratica, attiva». A suo modo don Bosco trovava pratico e logico non dissociare, ma unire la classica tipologia di Marta e Maria.

Quando nelle prime Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice vuole delineare le caratteristiche che le devono distinguere, scrive: «In esse devono andare di pari passo la vita attiva e la vita contemplativa, ritraendo Marta e Maria, la vita degli apostoli e quella degli angeli». In queste parole c'è tutto don Bosco: il suo vissuto esperienziale, il segreto dell'interiorità apostolica. Mai Marta senza Maria, mai Maria senza Marta; mai confuse l'una con l'altra, mai in rapporto antitetico, ma compenetrate e contessute l'una con l'altra nello slancio unificatore della carità apostolica.

Questa grazia è rilevabile nel Santo, a diversi livelli, senza incertezze e perplessità, soprattutto negli ultimi quinquenni della sua vita. È chiaro che ci furono anche in lui dei progressi, delle crescite, delle conquiste interiori non sempre facili; ma la sintesi vitale tra fede e vita, tra azione e contemplazione le caratterizza. Preghi o agisca, il suo cuore vive nel fuoco della carità divina, «anima dell'apostolato» (LG, n. 33).

Lo prova, ad esempio, il fatto che, da quando terminò i corsi al Convitto Ecclesiastico di Torino, a 29 anni, nella sua vita non è possibile reperire dei periodi di una certa consistenza da lui dedicati alla ripresa spirituale, alla ricarica, al «quiescite pusillum» del Vangelo. Gli stessi esercizi spirituali, che fece ogni anno, erano per lui quasi solo una nuova occasione di erogare piuttosto che accumulare, perché li passava in massima parte confessando.

Sembra pertanto che il modo di agire di don Bosco legittimi questa conclusione: per sé e alle condizioni dovute, non è la quantità di preghiera a decidere della santità, come non è la quantità dell'azione, ma il grado di intensità della vita teologale della fede, speranza e carità, grado determinato dalla maggiore o minore conformità alla volontà di Dio, regola suprema del pregare e dell'agire. Quando la volontà di Dio chiama a pregare bisogna pregare, quando chiama all'azione bisogna agire.

 

 

Pietro Brocardo

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