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Capitolo primo. BATTISTIN.

"È un bravo prete che raccoglie molti giovani alle feste e colà si divertono. Oggi si danno le castagne, vieni."


Capitolo primo. BATTISTIN.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Don Battista Francesia, nato a San Giorgio Canavese il 3 dicembre 1838 e morto a Torino il 17 gennaio 1930, appartiene all'età dei Padri della Congregazione, con don Rua, don Durando, il Card. Cagliero, don Albera, ecc. Come loro, vide il sorgere e l'espandersi meraviglioso delle opere di don Bosco, partecipò in prima persona agli eventi eroici di quegli anni lontani, condivise le gioie e le speranze del fondatore, le sue fatiche e le sue pene. In una letterina da Marsiglia, del 12 aprile 1885, don Bosco lo chiama «pupilla dell'occhio suo». Questa predilezione di don Bosco risaliva al tempo del suo primo incontro con lui ragazzo - festa di Ognissanti 1850 - ed era giustificata dalla delicata situazione in cui si trovava.

Figlio di buona famiglia, ma dissestata dalla volubilità del padre, era emigrato dal paese di origine, San Giorgio Canavese, per raggiungere i suoi nella città di Torino in cerca di fortuna. A dieci anni il piccolo Francesia 'Battistin' si guadagnava il pane lavorando come apprendista in una fonderia di ottone. Torino non era la città industriale che diventerà in seguito; l'urbanesimo era ancora contenuto. Lo scandalo degli inizi del secolo, proprio dei paesi già industrializzati, dove si potevano trovare fanciulli, dai quattro ai sette anni, costretti a lavorare nelle filande e persino nelle miniere, non esisteva. Ma era normale che nelle zone rurali, come nelle officine artigianali, i ragazzi sui dieci-dodici anni, ed anche prima, venissero avviati ai lavori dei campi compatibili con la loro età, oppure a qualche arte o mestiere, in qualità di apprendisti, presso padroni che potevano essere più o meno benevoli, più o meno comprensivi e rispettosi delle esigenze della loro tenera età.

A Battistin non mancarono maltrattamenti, violenze fisiche e morali: «Per non volere frammischiarmi - scrive - a certi discorsi, fui preso a motteggi e trattato con mille rimproveri e sgarbi. Il nome di 'gesuita' era il meno insultante. Ma il peggio si fu che vennero anche alle opere. Sovente mi davano delle scoppole, mi prendevano a calci, mi pizzicavano le braccia con tanta forza da portarne le lividure. Guai se le avessi fatte notare a mia madre! Confesso che ero contento e quasi santamente glorioso di quelle persecuzioni e non ne facevo alcun caso».

Don Bosco, dopo averne studiata l'indole buona, gli aveva proposto di studiare e lo accettò definitivamente come interno all'Oratorio il 22 giugno 1852. Da allora don Francesia fu tutto del suo benefattore. «L'insegnamento più suggestivo e salutare [di don Francesia] - dirà don Rinaldi - sarà il suo grande amore a don Bosco». «Don Bosco - afferma a sua volta don Francesia - era il prete che il Signore destinava alla mia salute. Io pertanto di lui dissi in altro tempo: 'Io il vidi, il conobbi; ei mi ama, io lo amo'. Queste parole di Silvio Pellico esprimono mirabilmente la mia condizione con don Bosco».

Don Francesia, uomo sensibile, delicato, dall'animo quasi infantile, buon latinista e poeta dalla vena facile, assai fantasioso, ritrae se stesso in filigrana nei suoi numerosi scritti su don Bosco e i salesiani defunti. Di lui riporteremo qui solo alcuni brani tratti dalle candide pagine autobiografiche, conservate inedite nell'Archivio Centrale Salesiano ed in tre esemplari dattiloscritti. L'origine di questa, che possiamo dire autobiografia - molto lacunosa, diseguale e da verificare - è curiosa. La scrisse per cacciare la malinconia - meglio il taedium vitae che viene nella tarda età - tra quattro assi di un confessionale, fra una confessione e l'altra, quando aveva già superato la settantina: «La mia vita ormai è monotona. Mi levo alle 4 e spesso prima. Recito le 'Ore', poi il Rosario intero prima della Messa. Dopo vado in confessionale dove faccio la meditazione, leggo, ed ho potuto scrivere tutto questo quaderno sempre rinchiuso qua dentro, e con la penna che provvidenzialmente mi ha regalato don Coppo. Avrei voluto che mi si fosse preparato una specie di leggio, ma non mi sono fatto intendere bene. A tutto supplisce la penna d'oro. Mi tengo in mano il quaderno e con una disinvoltura ammirevole scrivo, scrivo, quasi meglio che a tavolino. Chi, leggendo queste pagine, potrà credere che sono state scritte tenendo il quaderno per aria?».

 

Ciao, don Bosco!

Come abbiamo ricordato, il piccolo Francesia - Battistin - ha lasciato San Giorgio e si è unito ai genitori a Torino; ha trovato lavoro presso una fonderia e porta a casa ogni settimana due lire, «somma che allora faceva stupire». A noi fa stupire che ragazzi in così tenera età fossero sottoposti a lavori superiori alle loro forze, per guadagnarsi un pane. Ad essi guarderà, e penserà, con predilezione don Bosco. Anche Battistin ebbe la sorte d'incontrarlo. Ecco come.

¬´Fin dai primi giorni io avevo fatto conoscenza con un vicino di casa che faceva il minusiere (falegname) e che oltre all'essere mio compaesano era alla lontana anche un po' parente. Alla festa dei Santi (1850), io mi trovavo solo a casa, mia madre era andata al paesello, ed il padre era andato per suo conto, non saprei dove. Questo mio cuginetto, mentre si giocava alla trottola lungo il muro dell'Ospedale dei matti in Via Giulio, mi disse:

- Vuoi che andiamo da don Bosco?

- A che fare?

- Oggi si danno le castagne.

- Ma chi è don Bosco?

È un bravo prete che raccoglie molti giovani alle feste e colà si divertono. Oggi si danno le castagne, vieni.

Io ci andai, e vidi per la prima volta ciò che era un Oratorio festivo. Mi avvicinai, tra quel tramestio di giovani, al passo del gigante, come si diceva allora, o volante adesso, e subito mi vi addestrai, superando gli effetti del capogiro. Oh come mi sono divertito! Ma sul più buono, ecco il suono del campanello. Io vidi un correre via come per incanto di tutti quelli che mi stavano d'attorno. Credendo che dovessi fuggire anch'io, corsi per dove mi capitava, e caddi per mia ventura in don Bosco che si avanzava a fermare quell'onda di giovani che minacciava di fuggire non saprei dove. Egli subito mi disse:

- Verresti a dirmi due parole all'orecchio?

-Oh sì!

- Ma sai che cosa significa?

- Sì, sì, che vada a confessarmi.

- Bravo! Hai proprio indovinato.

- E come ti chiami?

- Battistin.

- Per ora vieni con me.

Mi prese per mano e mi condusse in chiesa e mi collocai sotto la finestra - era ancora l'antica Cappella Pinardi - che era vicino al pulpito e vi rimasi durante i due vespri, la predica e la benedizione. Era la prima volta che assistevo tranquillo e senza paura ad una funzione religiosa che durò almeno due ore. Si uscì di cappella che era notte.

Dopo la funzione vidi molti degli adulti, che diventarono poi miei amici, che stavano in bel modo attorno a don Bosco. Ci andai anch'io. Una fora misteriosa mi tirava verso di lui, e senza sapermelo spiegare e capire ciò che si diceva, io stavo là a guardare e sentire. Un po' dopo, quella piccola accolta si mosse tenendo don Bosco in mezzo, e si uscì dall'Oratorio verso Via Cottolengo di adesso, poi si montò per Via Cigna sopra il famoso rondò di Valdocco. Essi cantavano i più bei cori che avevo sentito al paesello e mi piacevano assai. La luna era bella e già mandava i suoi raggi pallidi ed io pensavo alla poesia passata del Rosario di Famiglia, alle relative castagne, a quella pace che finiva quella sera e quasi per sempre.

Salutai don Bosco dicendogli confusamente: 'Ciao, don Bosco!', con meraviglia dei circostanti. 'Che dici? È ceréa che devi dire'. Ma don Bosco non si adontò; mi accarezzò, scusandomi di quella sgarbatezza. Dopo questo mio atto di valore mi allontanai saltando un fossatello che rimase ancora dieci o dodici anni e poi fu coperto come tutti gli altri».

 

L'uccello aveva trovato il suo nido.

La seconda comparsa di Francesia all'Oratorio avvenne solo la domenica dopo la festa dell'Annunziata. «Dopo pranzo, non so se in compagnia dell'angelo che mi aveva parlato dell'Oratorio o da solo, discesi in Valdocco. La giornata era bella: una splendida giornata di primavera. Nessuno mi guardò; entrai con l'aria sospettosa e tutto guardingo, osservando da una parte e dall'altra se mai trovassi qualche faccia amica. Quel di si faceva la memoria funebre di Luigi Rua, fratello di Michele.

Quest'avventura così estranea non mi parve mai fuori dell'ordine della Provvidenza, osservando quale fu poi sempre l'amicizia che mi unì con Rua, dopo due o tre volte che andai all'Oratorio. Entrai tra quella baraonda, presi parte al catechismo, che mi fece per qualche domenica il chierico Gastini, ma non ricordo in che sia consistita la ricordanza funebre del pio giovane. Tornai a casa tardi, stanco come suol dirsi a morte, ma con l'anima soddisfatta e desiderosa che venisse presto un'altra domenica. Avevo fatto tanti giri e rigiri col mio fuciletto di legno e corso per i prati di Valdocco, tutti ancora scoperti fino alla fabbrica delle Armi, che alla sera mi trovai con le scarpe tutte rotte. Andai a casa stanco che non ne potevo più, ma con una soddisfazione immensa.

L'uccello aveva trovato il suo nido ed era la Provvidenza che me lo aveva procurato».

A partire dal maggio 1851 la frequenza all'Oratorio diventa regolare. «Tutte le domeniche e le feste io venivo all'Oratorio. La mia vita era diventata seria, raccolta e direi proprio devota. Cominciavo a servire in chiesa. Ogni domenica venivo a confessarmi e ne provavo un gusto indicibile. Ormai anche don Bosco mi aveva notato e si cominciava quella mirabile catena di carità dalla quale avevo da rimanere legato per sempre. Quando seppe che io avevo già fatto due anni di studio di latino, mi disse: 'E non potremmo continuarli e finirli?'.

Più volte, specialmente nel volgere dell'anno 1851, trovando don Bosco per i Viali di San Maurizio, egli rni diceva di accompagnarlo a casa, e poi mi teneva a pranzo con lui. Quanta carità mi usò sempre quel padre amorevole! Don Bosco era il prete che il Signore destinava alla mia salute».

Nel giugno del 1852 il santo lo accetta come interno.

 

Mi raccomandava alla Madonna.

Il futuro latinista, discepolo prediletto del grande Vallauri, agli inizi trovò difficoltà negli studi del latino e giudicò sempre una grazia singolare della Madonna l'essere riuscito a superarle. «I miei primi esperimenti di scuola andavano maluccio. Il latino mi era un mistero e non riuscivo ad intendere i suoi segreti. Non ricordavo il perché dei casi, dei modi, dei tempi dei verbi e quindi mettevo giù a casaccio. Piangevo e pregavo. E dicevo a me stesso: Guai se avessi a desistere dagli studi! Se riescono gli altri perché non dovrei riuscire anch'io. Nelle preghiere mi raccomandavo alla Madonna e mi pareva che presto mi doveva investire il raggio della divina intelligenza. Andandomi a confessare ed accusandomi di non aver potuto accontentare il maestro dicevo a don Bosco: 'Mi pare proprio che mi verrà la grazia dal Cielo e che capirò il latino'. Don Bosco mi lasciava dire e poi mi consolava parlandomi di tutt'altro.

Fra i molti della Congregazione che ebbero a studiare forse nessuno dovette lottar tanto per imparare il latino. Ebbi a conquistar terreno a palmo a palmo ed a forza di ricerche e di lavori. Ma il buon gusto, ma quella forma che, quasi quasi, la si conosceva al fiuto, e per cui ebbi consolazioni e pene, la riconosco dalla Madonna che pregai sin dai primi giorni che fui destinato allo studio».

 

Don Bosco mi salvò.

Il 4 ottobre 1853 Francesia riceve la veste chiericale a Castelnuovo d'Asti dal parroco don Cinzano e viene ammesso alla terza ginnasiale come allievo di don Rua. Sono gli anni della pubertà e dei primi travagli interni. «Alla festa del Rosario presi la veste per decisa volontà di don Bosco. E qui comincia la seconda crisi che per grazia di Dio fu vinta appunto per questa provvidenziale disposizione. Ero divenuto leggiero, lunatico, poco amante della frequenza ai Sacramenti e facilmente riottoso alle disposizioni di don Bosco. Dirò una cosa che nessuno seppe mai e che non comunicai a nessuno. Non avevo più alcuna confidenza né quella affezione filiale che era sempre stata l'arca della salute in tutti i momenti più difficili. Oh! se don Bosco mi avesse allora parlato! Io avevo la pretesa che fosse lui a venire verso di me. Questa malintesa ambizione mise quasi in pericolo la mia vocazione. Per grazia di Dio non cessai di avere don Bosco per mia guida e mi salvò».

Alla scuola di don Bosco si pregava, ma si lavorava sodo. E quanto lavoro per tutti! Anche Francesia vide, con gli anni, crescere tra le sue mani una mole di impegni che non lasciavano respiro: assistenza, scuola regolare - tra i suoi alunni può contare Domenico Savio, Michele Magone - studio della filosofia e teologia, e, contemporaneamente, assieme ad Anfossi, Durando, Cerruti, esami di ammissione alla Regia Università, seguiti dalla frequenza saltuaria e coronati, infine, con esito brillantissimo.

Per il piccolo apprendista fonditore, la vicenda universitaria, stando all'enfasi con la quale ne parla, fu un evento epico, una stagione delle più gloriose della sua vita: «Non facevamo che studiare dalle due alle nove di sera, andando poi a prendere un boccone di cena quasi per straforo». Nessuna paura degli esaminatori: «Non si sapeva che cosa fosse timore, non si pensava che a prendere esami, sicuri che dovevano essere vittorie». E vittorie erano; salutate dagli applausi dei giovani dell'Oratorio, accolte come una benedizione del Signore da don Bosco, che «poteva respirare per le sue scuole».

E fu affare finito.

Con il solito candore, rifacendosi a quegli anni felici, don Francesia, parla di quella che definisce «grave tentazione», ma che, invece, è un inno alla paternità paziente e comprensiva di don Bosco.

«Mi pare che in quest'anno (?) non ne sono certo, ho corso grave tentazione e fui causa di dispiacere all'anima di don Bosco. Ci si dava il caffè e don Rua, vedendo che la tazza era scarsa ai nostri bisogni, rinnovava così a volta a volta un poco di latte. Non credo che ci fosse abuso, era però una irregolarità! Chi soprastava alla cucina invece di avvisare noi e don Rua, causa innocente di questo po' di disordine, ne avvisò don Bosco che diede ordine di somministrare la tazza piena di caffè e latte, e poi ritirare la caffettiera.

Ancorché la novità ci sorprendesse, io non ci badavo. Ma alla sera si andava a studiare insieme noi tre, Anfossi, Durando ed io, nella camera di don Bosco perché faceva freddo e non si aveva altro luogo più adatto. Anfossi alla sera cominciò a narrare in lungo ed in largo l'avvenuto dandone la colpa a don Savio, allora economo, che non avrebbe dovuto far così e che per tanti motivi non ci si doveva lesinare quel poco di caffè. Un maestro aggiunto, certo Buratto, che, uscito, poco alla volta divenne Vicario di Vercelli, pareva ammalato e sembrava crudeltà. Io credo invece che prese scandalo dalla nostra leggerezza. Quindi con l'animo contrastato, invece di studiare ci siamo messi a discorrere pensando che don Bosco ci avrebbe sentiti e quietati. Ce ne volle! Noi alterati alquanto, ci lamentavamo di quella sconveniente figura fatta a noi che eravamo superiori e meritavamo qualche delicatezza. Io mi sono lasciato scappare: 'A preferenza me ne vado a casa. Almeno si è senza suggestione' Questa parola offese don Bosco che mi disse: 'E tu avresti il coraggio di lasciare don Bosco?'. Gli chiesi subito perdono e la carità che si dimenticasse di quella imprudente espressione! Egli mi disse che l'avrebbe fatto, e fu affare finito».

Le note autobiografiche si snodano ancora con ritmo piacevole, ma solo per cenni. E noi mettiamo qui la parola fine. Non possiamo però non riportare ancora un toccante episodio.

Un suo ardente sogno, accarezzato a lungo, non si avverò mai: far parte del Consiglio Direttivo della Congregazione Salesiana. Anche alle elezioni del 1886, che gli sembravano più propizie, fu il grande escluso. Ne provò una sofferenza indicibile, ma dovette rassegnarsi. Anche in questa circostanza chi lo capì a fondo e lo consolò fu don Bosco.

«Tornata la serenità e disposto a qualunque prova me ne stavo rassegnato all'Oratorio. Don Bosco era andato a San Benigno per trovare un po' di salute e là mi portai un giorno per riconciliarmi. Era l'anno famoso delle elezioni (1886). Don Bosco dopo avermi ascoltato in confessione, vedendomi là tutto solo con Lui, mi disse: 'Avrei creduto che tu fossi stato eletto nel Capitolo Superiore, invece'. 'Che vuole mai, caro don Bosco, Lei ha troppo buona opinione di don Francesia. I confratelli non mi sono d'accordo. Del resto io La ringrazio e non mi lamento della poca stima. Che mai! A chi non garba il mio modo di fa-. re, chi accusa i miei occhi, chi le mie parole e chi una cosa e chi un'altra. Però non mi lamento'. Questo mio contegno commosse il buon Padre che con le lacrime agli occhi si tolse la coroncina del Rosario e porgendomela disse: 'Prendila in memoria del tuo povero don Bosco!'. E la baciai anch'io con le lacrime agli occhi e da quel giorno non la deposi più e la portai con me nei miei pellegrinaggi e spero che mi accompagnerà al tribunale di Dio».

Con ragione don Francesia poteva ripetere che don Bosco era stato per lui un padre, «sempre padre».

 

 

Pietro Brocardo

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