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Capitolo primo. LA MISTICA DEL «DA MIHI ANIMAS».

"«Se salvi l'anima - scrive don Bosco - tutto va bene e godrai per sempre; ma se la sbagli perderai anima e corpo, Dio e il Paradiso, sarai per sempre dannato»."


Capitolo primo. LA MISTICA DEL «DA MIHI ANIMAS».

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Le parole che il re di Sodoma rivolge ad Abramo: «Da mihi animas, caetera tolle: dammi le persone e prendi per te la roba», nella interpretazione accomodatizia, che don Bosco assume da una lunga tradizione, suonano così: «O Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre cose».

In questa versione «il termine chiave è il vocabolo animas, cioè quel termine, che da secoli nel linguaggio cristiano designava l'elemento spirituale dell'uomo, posto nel tempo, ma immortale, tra salvezza e rovina eterna, tra peccato e grazia, tra Gerusalemme e Babilonia, tra Dio e Satana» (P. Stella).

«Se salvi l'anima - scrive don Bosco - tutto va bene e godrai per sempre; ma se la sbagli perderai anima e corpo, Dio e il Paradiso, sarai per sempre dannato».

Oggi abbiamo una visione più inglobante del destino dell'uomo e delle realtà ultime. Don Bosco, nel linguaggio del suo tempo, indica tuttavia la direzione giusta, in cui bisogna guardare l'uomo intero; ripete a tutti che l'uomo non è fatto per la terra, è testimone della tensione e della speranza del futuro che ci attende: possiamo ascoltarlo con fiducia. Si è nel vero quando si afferma che le sue più profonde aspirazioni, la sua più ardente preghiera è per le «anime da salvare» ed assicurare al Regno.

 

Identità sacerdotale.

Il «Da mihi animas» è il suo motto, la sua ossessione, la sua mistica. Mistica che è concentrazione su Dio Padre, su Cristo e il suo Spirito, ma anche conseguenza diretta del suo essere sacerdote, chiamato, per destinazione essenziale, a collaborare con Cristo nel ministero della Redenzione. Non è possibile pensare don Bosco se non sacerdote.

Che cosa è infatti la sua giovinezza se non la consapevole, voluta, assidua preparazione al sacerdozio? «Essere presto prete - diceva a se stesso - per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per aiutarli». E che cosa è la sua vita se non lo scioglimento di questo voto fatto in gioventù?

Di Cristo sacerdote, unico ed attuale Mediatore tra Dio e gli uomini, volle essere l'immagine più perfetta possibile, la mediazione sacramentale più trasparente. Mai venne meno in lui la coscienza dell'indefettibile responsabilità sacerdotale: sempre prete, tutto prete e nient'altro. «Don Bosco è stato innanzitutto e soprattutto un vero prete. La nota dominante della sua vita e della sua missione è stata il fortissimo senso della propria identità di sacerdote prete cattolico secondo il cuore di Dio» (Giovanni Paolo II).

Un prete - ripeteva il santo - «è sempre prete e tale deve manifestarsi in ogni sua parola».

La parola prete - termine allora scomodo se le buone mamme torinesi insegnavano ai loro bimbi a non dire 'prete', voce coperta di troppo fango, ma 'sacerdote' - ricorre sette volte nel breve periodo che apre il colloquio, come da tradizione, con il ministro Bettino Rica- soli, avvenuto a Firenze nel dicembre 1866: «Eccellenza, sappia che don Bosco è prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e come è prete in Torino, così è prete in Firenze, prete nella casa del povero, prete nel palazzo del re e dei ministri».

Con verità, scrive don Cena: «L'essere sacerdote formò in ogni tempo la sua più intima soddisfazione, com'era il suo maggior titolo d'onore, che non smise mai di premettere al proprio nome nei libri e nelle lettere, cosa allora affatto fuori d'uso». La considerazione altissima del sacerdozio ministeriale lo indusse ad onorare nei confratelli sacerdoti il carattere sacramentale, qualunque fosse il loro stato e la loro condotta. Con tutti «abbondava in segni di stima e di rispetto, e, venendo a sapere di chi non rispettasse il suo carattere, se ne affliggeva fino alle lacrime e avrebbe voluto nascondere colui agli occhi di tutti». Lo fece più di una volta, con tratti così delicati, che andavano al cuore e lo trasformavano.

Ma il suo assillo, si può dire quotidiano, furono le vocazioni da donare alla Chiesa e alla vita religiosa. In una lettera, di recente rinvenimento, diretta, il 13 marzo 1846, al marchese Michele Benso di Cayour, Vicario della città di Torino, nella quale domanda il benestare della «società civile» per l'acquisto della casa Pinardi - «somma di duecento franchi» - per stabilirvi il suo Oratorio, ne precisa gli obiettivi in questi termini: «1° Amore al lavoro, 2° frequenza dei Santi Sacramenti, 3° rispetto ad ogni autorità, 4° fuga dei cattivi compagni». Quindi soggiunge: «Questi principi che noi ci studiamo di insinuare destramente nel cuore dei giovani hanno prodotto effetti meravigliosi. Nello spazio di tre anni più di venti abbracciarono lo stato religioso, sei studiano il latino per intraprendere la carriera ecclesiastica». Una messe abbondante, come si vede, se pensiamo ai giorni avventurosi e difficili dell'Oratorio ambulante e se pensiamo che è, si può dire, agli inizi del suo ministero.

Prete «sostanziato di Cristo e della Chiesa», quando predominava ancora l'idea che il buon prete doveva essere un uomo appartato - una specie di supercristiano - chiuso nel suo mondo sacrale, tutto chiesa e preghiera, dedito tuttavia alle opere di carità e misericordia, don Bosco si rivela un precursore, aperto al soffio storico dello Spirito, alle nuove realtà emergenti, proiettato nella missione che Dio gli affida tra i giovani poveri, partecipe e solidale del loro destino.

La convinzione profonda che il prete non si santifica, e non si salva, se non nell'esercizio del suo ministero e della sua specifica missione trapela in certi suoi enunciati perentori e pregnanti: «Il guadagno del prete vogliono essere le anime e nulla più»; «Il sacerdote non va nell'inferno o nel paradiso da solo, ma accompagnato sempre da anime perdute o salvate da lui». «Chi si fa prete sia un santo prete».

«Ogni parola del prete deve essere sale di vita eterna e ciò in ogni luogo e con qualsiasi persona. Chiunque avvicina un sacerdote deve riportare sempre qualche verità che gli rechi vantaggio all'anima». «Il prete non deve avere altri interessi fuori di quelli di Gesù Cristo».

Gli «interessi di Gesù Cristo», Rivelatore e Adoratore del Padre, Redentore dell'umanità, sono, in sintesi, la «gloria di Dio», <da salvezza degli uomini». E questi sono esattamente gli interessi supremi, che don Bosco persegue lungo l'intero arco della sua vita. Salvare e santificare le anime è l'anelito del suo cuore.

Giovanni Paolo II lo ha ricordato ai membri del XXII Capitolo Generale, il 4 aprile 1984: «È importante sottolineare e tenere sempre presente che la pedagogia di don Bosco ebbe una valenza, ed una prospettiva, estremamente 'escatologica': essenziale - come dice ripetutamente Gesù nel Vangelo - è entrare nel Regno dei Cieli».

Entrare nel Regno è entrare nella salvazione definitiva. «Salvare l'anima» e cooperare alla «salvezza delle anime» sono affermazioni ripetutissime da don Bosco ai giovani, ai salesiani, alle persone dei ceti più umili come di quelli più elevati. «Ti raccomando la salvezza dell'anima».

In un «piano di regolamento» che risale al 1854, cita la nota frase del vangelo di Giovanni: Ut filios Dei qui erant dispersi congregaret in unum, e commenta: «Le parole del S. Vangelo ci fanno conoscere essere il Di_ vin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio dispersi nelle varie parti della terra; parmi si possano letteralmente applicare alla gioventù dei nostri giorni».

La vista di Ges√π Buon Pastore, venuto a raccogliere e a salvare i figli di Dio dispersi, stimola don Bosco a prodigarsi per la giovent√π, specialmente per quella pi√π povera.

Il pensiero della salvezza delle anime - tutte, ma specialmente quelle che Dio gli affida - è veramente al cuore del cuore di don Bosco; è «il nucleo essenziale e irrenunziabile, la radice più profonda della sua attività interiore, del suo dialogo con Dio, del lavoro su se stesso, della sua operosità di apostolo conosciutosi come chiamato e nato per la salvezza della gioventù povera ed abbandonata» (P. Stella). Il motto che Domenico Savio poté leggere nella sua stanza: Da mihi animas, caetera tolle: «O Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre cose», è la forte sottolineatura data ad uno dei propositi formulati negli esercizi di preparazione alla sua ordinazione a sacerdote: «Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando si tratta di salvare anime». Veramente il suo cuore ha «palpitato sempre all'impulso del 'Da mihi animas’ (E. Viganò).

 

L'idea unificatrice.

Questa l'idea unificatrice di tutta la sua vita: non viveva che di essa e per essa, come prova la sua fatica di pedagogo, di pastore, di catechista, di scrittore, di fondatore, e come provano le sue più convinte e ricorrenti affermazioni: «I nostri giovani - diceva - vengono all'Oratorio: i loro parenti e benefattori ce li affidano coll'intenzione che siano istruiti; ma il Signore ce li manda affinché noi ci interessiamo delle loro anime ed essi qui trovino la via dell'eterna salute. Perciò tutto il resto da noi deve considerarsi mezzo e il nostro fine supremo farli buoni, salvarli eternamente». Si ricordino, non si stancava di ripetere ai suoi insegnanti, «che la scuola non è che un mezzo per fare del bene: essi sono come parroci nella loro parrocchia, missionari nel campo del loro apostolato».

«Tutte le arti sono importanti, ma l'arte delle arti, l'unico lavoro che conta è la salvezza dell'anima»; «Ogni spesa, ogni fatica, ogni disturbo, ogni sacrificio è poco, quando contribuisce a guadagnare anime a Dio».

Pregava: «O Signore, dateci pure croci, spine, persecuzioni di ogni genere purché possiamo salvare anime e fra le altre anche la nostra». «La mia affezione [per voi] - spiegava agli artigiani di Valdocco - è fondata sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono tutte redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna».

Anche sul letto di morte, assalito da incubi, fu visto scuotersi, battere le mani e gridare: «Accorrete, accorrete presto a salvare questi giovani... Maria SS.ma, aiutateli!» Arrivò a dire: «Se io mettessi tanta sollecitudine per il bene dell'anima mia, come per il bene dell'anima altrui, sarei sicuro di salvarla».

Come l'artista sente il tormento di non poter esprimere in termini umani l'intuizione folgorante che si porta dentro, così don Bosco si rammarica di non potere inculcare il pensiero della salvezza dell'anima, così come lo vive e lo sente: «Oh! se potessi dirvelo come lo sento! - esclama - Ma le parole mancano, tanto importante e sublime è il soggetto».

La sua fatica, le sue istituzioni, la fondazione della Società salesiana, dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, dei Cooperatori, tutto è finalizzato a questa meta suprema. «L'unico scopo dell'Oratorio è salvare anime». «Scopo di questa società, se si considera nei suoi membri, non è altro che un invito a volersi unire in spirito tra loro, per lavorare alla maggior gloria di Dio e per la salute delle anime a ciò spinti dal detto di S. Agostino: Divinorum divinissimum est in lucrum animarum operari». Soggiungeva: «Questo è lo scopo più nobile che si possa immaginare»; questo deve essere «il continuo respiro di ogni salesiano». Con assoluta verità don Rua ha potuto affermare ai processi: «Non diede passo, non pronunziò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù. Lasciò che altri accumulasse tesori, che altri cercasse piaceri, e corresse dietro gli onori; don Bosco realmente non ebbe a cuore altro che le anime: disse col fatto, non solo con la parola: Da mihi animas, caetera tolle».

Anche don Albera, che ebbe una lunga consuetudine con don Bosco, attesta: «Il concetto animatore di tutta la sua vita era di lavorare per le anime fino alla totale immolazione di se medesimo. Salvare le anime.., fu si può dire l'unica ragione del suo esistere».

Più incisivamente, anche perché mette a fuoco le motivazioni profonde dell'agire di don Bosco, don Filippo Rinaldi vede nel motto Da mihi animas «il segreto del suo amore, la forza, l'ardore della sua carità, l'amore per le anime, l'amore vero, perché era il riflesso dell'amore verso N.S. Gesù Cristo e perché le anime stesse egli vedeva nel pensiero, nel cuore, nel sangue prezioso di Nostro Signore. Il nostro Beato Padre era riuscito a perdersi tutto in Dio, in N.S. Gesù Cristo e di là, da quella mirabile unione, si lanciò dietro le anime con gli ardori della carità medesima del Redentore divino in modo da non più vivere, né più respirare che per le anime».

Si direbbero pensieri espressi, con la profondità grave e solenne che gli era abituale, da Pio XI nella solenne udienza accordata il 3 aprile 1934 nella Basilica di S. Pietro, a tutta la Famiglia salesiana, nella quale ha voluto sottolineare la connessione tra il fausto evento della canonizzazione ed i valori dell'Anno Santo della Redenzione: «Don Bosco oggi ci dice: 'Vivete la vita cristiana così come io l'ho praticata e insegnata a voi'. Ma ci pare che don Bosco a voi, figli suoi, e così particolarmente suoi, aggiunga qualche parola anche più specificamente indicatrice. Vi insegna un primo segreto, [che è] l'amore a Gesù Cristo, a Gesù Cristo Redentore! Si direbbe persino che questo è stato uno dei pensieri, uno dei sentimenti dominanti di tutta la sua vita. Egli lo ha rivelato con quella parola d'ordine: Da mihi animas. Ecco un amore che è nella meditazione continua, ininterrotta di ciò che sono le anime non considerate in se stesse, ma in quello che sono nel pensiero, nell'opera, nel sangue, nella morte del divino Redentore. Lì don Bosco ha veduto tutto l'inestimabile, l'irraggiungibile tesoro che sono le anime. Da ciò la sua aspirazione, la sua preghiera: Da mihi animas! Essa è un'espressione dell'amore suo per il Redentore, espressione sulla quale, per felicissima necessità di cose, l'amore del prossimo diventa amore del divino Redentore, e l'amore del Redentore diventa amore delle anime redente, quelle anime che nel pensiero e nell'estimazione di Lui si rivelano non pagate a troppo alto prezzo, se pagate col suo sangue».

I grandi Ordini ed Istituti religiosi hanno condensato in frasi di grande sinteticità aspetti della vita spirituale paradigmatici per il loro carisma; pensiamo all'Ora et labora («Prega e lavora») dei benedettini; al Contemplari et contemplata aliis tradere («Contemplare e trasmettere agli altri le cose contemplate») dei domenicani; al Ad majorem Dei gloriam et ad salutem animarum della Compagnia di Gesù («Alla maggior gloria di Dio e alla salvezza delle anime»), ecc.

«La mia convinzione - scriveva il Rettor Maggiore dei salesiani E. Viganò - è che non c'è nessuna espressione sintetica che qualifichi meglio lo spirito salesiano di questa scelta dallo stesso don Bosco: Da mihi animas, caetera tolle». Essa sta ad indicare una ardente unione con Dio, che ci fa penetrare il mistero della sua vita trinitaria manifestata storicamente nelle missioni del Figlio e dello Spirito quale Amore infinito ad bominum salutem intentus.

 

Salvezza integrale.

Tanta attenzione e manifesta predilezione per le anime da salvare non deve far pensare che per don Bosco l'uomo si risolvesse nella sua anima come nella sua totalità e che questa andasse considerata quasi svincolata dal corpo. No. Dell'uomo egli ha il concetto elevatissimo che gli ispirano le pagine bibliche relative alla creazione. L'uomo «di tutte le creature visibili - si legge nel Giovane Provveduto (1847) - è la più perfetta». Perché creandolo Dio lo ha «dotato di anima e di corpo»; di anima, che è «soffio divino», «spirito della vita», perciò libera e immortale, nella quale si riflette «l'immagine e la somiglianza» con Dio; di corpo, che al pari dell'anima, è 'dono' incomparabile di Dio. «I nostri occhi, i piedi, la bocca, la lingua, le orecchie, le mani sono tutti doni del Signore» (Giovane Provveduto). A suo modo anche il corpo riflette il volto di Dio. «Dio - si legge nel suo Mese di Maggio - creò il corpo con quelle belle qualità che noi in esso rimiriamo». Don Bosco ha esaltato i valori del corpo e della creaturalità, anche se ha sempre messo in guardia contro il pericolo che il corpo, per i guasti del peccato, può rappresentare per l'anima: «A chi vi dice - ammonisce nel Giovane Provveduto - che non conviene usar tanto rigore contro il nostro corpo, rispondete: chi non vuole patire con Gesù Cristo, non potrà godere con Gesù Cristo». Ma quando egli parla della salvezza delle anime ha immancabilmente di mira, al di là della concezione dualistica che condivide con la spiritualità del tempo, il giovane concreto e totale, che - per disturbare Dante - «mangia e bee e dorme e veste panni», e, appunto perché concreto, storico, alla luce della fede è, e sarà sempre, l'uomo creato da Dio nell'ordine soprannaturale, caduto in Adamo, redento da Cristo, destinato al cielo.

La fatica di don Bosco prete-educatore-pastore volta alla salvezza dei giovani è sempre concretamente finalizzata a tre obiettivi pratici, commisti ed indivisibili.

Primo: soddisfare i bisogni materiali e primordiali dei giovani poveri, abbandonati a se stessi, offrendo loro «ricovero, vitto e vestito», renderli «atti a guadagnarsi onestamente il pane della vita», con un mestiere. «Se io nego un tozzo di pane - scrive al conte Solaro della Margherita - a questi giovani pericolanti e pericolosi, l'espongo a grave rischio dell'anima e del corpo». Dunque: un pane, un lavoro, una difesa, una dignità umana.

Secondo: accompagnarli - con pedagogia sapiente, che ha come centro e sintesi la carità pastorale di Cristo - nel loro delicato processo di elevazione e maturazione umana, culturale e morale; abilitarli all'esercizio della libertà responsabile, al dono di sé; aiutarli a prendere coscienza del loro ruolo nella vita. Ogni educatore che si rispetta e rispetti la sua causa «deve essere disposto - asseriva - ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione de' suoi giovani».

Terzo: educare cristianamente. Portare i giovani a vivere con intensità crescente la loro fede, a fare esperienza dell'incontro personale con Cristo, Uomo perfetto, nell'ascolto della Parola, nella preghiera, nei sacramenti, nella dedizione al prossimo. Don Bosco è fermamente convinto che il giovane porta sulle spalle l'uomo di domani. Una giovinezza cristianamente vissuta preannunzia il «buon cristiano» del futuro. Egli non crede ad una educazione puramente umana: la giudica inadeguata, insufficiente: «Senza religione - era sua massima - è impossibile educare la gioventù». Fu sempre fermamente convinto che la religione è fattore fondamentale di progresso e di rigenerazione sociale: «Chi voglia rigenerare una città od un paese non ha altro mezzo più potente: bisogna che cominci coll'aprire un buon Oratorio festivo». Educando alla vita di grazia e all'amicizia con Cristo, mentre non perde di vista le esigenze della città terrena, mira alla città futura ed eterna e punta con i migliori giovani a mete anche altissime, alla compiuta santità. Se non è stato il primo a fare della educazione cristiana una fonte di santità giovanile, è difficile contestargli il merito di aver dato alla Chiesa modelli di santità eroica. Per la prima volta nella storia della Chiesa, come frutto del suo metodo pedagogico, un giovane, Domenico Savio, è stato canonizzato come confessore, il 12 giugno 1954.

Aggiungiamo, come rileva opportunamente P. Braido, che questi tre fini, che vivono concretamente e simultaneamente nell'azione educativa di don Bosco, sono, in realtà, «un fine unico supremo, religioso-morale, soprannaturale, che include in sé i condizionatori terreni individuali e sociali» e non altro. La mistica del «Da mihi animas» lega così indissolubilmente promozione umana e promozione soprannaturale, con una insistenza tutta particolare sull'aspetto religioso. Questo legame intrinseco viene ribadito oggi dal Concilio: «La Chiesa ha il dovere di occuparsi dell'intera vita dell'uomo, anche di quella terrena in quanto connessa con la vocazione celeste» (GS, Proemio).

 

Pietro Brocardo

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