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Capitolo secondo. IL LAVORO COLOSSALE.

"«Gesù Cristo cominciò a fare ed insegnare - leggiamo nel secondo articolo -, così i congregati cominceranno a perfezionare se stessi colla pratica delle interne ed esterne virtù»."


Capitolo secondo. IL LAVORO COLOSSALE.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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           L'importanza assunta dal tema del lavoro nel nostro tempo è dimostrata dalla imponente letteratura, che ne sviscera gli aspetti e le valenze in continuo sviluppo. Anche se sfigurato da certe ideologie, il lavoro è davvero un valore centrale nella società e nella cultura di oggi. Fa emergere un aspetto della missione dell'uomo nel mondo: quello di dominare la natura per umanizzarla e metterla a servizio della persona.

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II traccia, nella sua Enciclica Laborem exercens e in altri numerosi interventi, le linee di una spiritualità del lavoro che ne esalta il valore, ma demitizza ogni idolatria al riguardo. Il lavoro, infatti, non è fine a se stesso, non è un assoluto. È invece «un modo importante di esprimere la persona come 'co-creatrice' o 'co-redentrice' sulla terra e nel tempo. Per noi diviene testimonianza della triade spirituale: «fede, speranza, carità. In questo senso non è tanto la qualità del lavoro a rendere grande la persona, ma le motivazioni e il cuore con cui lo si compie, ossia la misura dell'amore di carità che lo permea» (E. Viganò). Don Bosco ha fatto del lavoro la sua bandiera, si è santificato lavorando e lavorando molto. Vediamolo.

 

L'attività incessante.

L'accademico d'Italia Francesco Orestano, scrivendo di don Bosco, dopo averne sottolineata la grandezza morale e la forza di volontà, prosegue in questi termini: «Per importanti che siano i caratteri dell'uomo e della sua opera, l'originalità di don Bosco non è ancora qui. Eccola. Necessità educative e sociali, profondamente intuite in perfetta relazione con i nuovi tempi, gli fecero scoprire la grande legge di educare col lavoro e al lavoro. Del lavoro come strumento educativo don Bosco sentì la straordinaria potenza edificante della personalità umana in tutti i sensi e momenti. Lavoro, via eminente di nobilitazione dello spirito: «Non vi raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro». E ancora sul letto di morte, lo raccomandava a tutti i salesiani ch'egli volle ordinati come una milizia sociale, non impegnata a pratiche ascetiche, ma tutta penetrata dei bisogni della vita moderna. Né egli apprezzò il lavoro solo come strumento educativo, ma come contenuto di vita. Del lavoro sentì tutta la dignità anche nelle sue applicazioni manuali più modeste, cercò tutte esemplarmente di apprendere e praticare, e perciò stesso nobilitare. Né mai considerò il lavoro mezzo di arricchimento, poiché, anzi, giudicò, come la sua santa mamma aveva rettamente sentenziato, sventura l'arricchirsi; ma soltanto quale pienezza, sanità e santità di vita».

La citazione è pertinente perché coglie, con penetrante chiarezza, l'aspetto forse più originale della sua pedagogia e della sua santità, che è quello della elevazione dell'uomo e del cristiano tramite il lavoro e col lavoro. Ad una condizione, però, che la voce 'lavoro' venga presa nella gamma di significato che aveva per don Bosco, per il quale era, di volta in volta, sinonimo di attività manuale, artigianale, tecnica, professionale; intellettuale, scuola, studio, cultura; apostolica, catechesi, evangelizzazione, zelo pastorale; sacerdotale, azione liturgica, sacramenti; caritativa, nelle sue diverse forme; dovere di stato. «Per lavoro s'intende l'adempimento dei doveri del proprio stato».

Sarà, perciò, il contesto a darci il significato inteso, di volta in volta, da don Bosco quando parla di lavoro.

 

La «scala mistica» del lavoro.

Del lavoro inteso come attività apostolica, caritativa e umanizzante, don Bosco intuì la suprema grandezza, la divina virtù santificatrice e non esitò a farne la sua scala mistica per andare a Dio.

Non disgiunse il lavoro dalla preghiera: «Se vi è stato un santo che nei tempi moderni abbia così meravigliosamente congiunti e impersonati in sé i due elementi della tradizione benedettina 'pregare e lavorare' fu precisamente don Bosco» (Card. C. Salotti). Ma la preghiera non è ciò che più appare in lui, non è la sua divisa. «Ciò che al mondo appare è il lavoro intenso disinteressato. Don Bosco è un santo estremamente concreto: per dirla in una parola un po' cruda ma vera, non crede ad una pietà che non si esprima nella vita, che non diventi azione, carità fattiva, che non si traduca in un lavoro incessante per amor di Dio e dei fratelli» (C. Colli).

Aggiungiamo che nel sec. XIX la preghiera era ancora una realtà così fortemente inserita nel costume cristiano, che don Bosco non ritenne opportuno insistervi ad oltranza come, probabilmente, avrebbe fatto in una situazione diversa. Urgeva, invece, santificare il lavoro e divinizzare l'azione. Fu questo il suo carisma.

A questo si sentiva ispirato e portato. Sapeva che la parola non è persuasiva se non nel momento in cui diventa azione e volle che l'azione diventasse parola, che le sue idee avessero le mani, come di fatto accadeva.

Era per temperamento quello che si dice «uomo di azione», <d'operatore di successo», il «genio dell'organizzazione». Il lavoro era la sua seconda natura. «Iddio - diceva - mi ha fatto la grazia che il lavoro e la fatica, invece di essermi di peso, mi riuscissero sempre di sollievo».

La spinta ad agire era potentemente stimolata dai nuovi immensi bisogni del suo secolo, dalla miserevole condizione in cui versava la gioventù emarginata o disattesa del suo tempo. Ma lo attirava soprattutto l'esempio di Gesù, il divino lavoratore della casetta di Nazaret, l'amico dei fanciulli e degli umili, l'apostolo del Padre continuamente all'opera per la nostra salvezza: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17); Gesù «cominciò a fare e a insegnare» (At 1,1). È questo il modello che propone ai suoi figli quando scrive le Costituzioni.

«Gesù Cristo cominciò a fare ed insegnare - leggiamo nel secondo articolo -, così i congregati cominceranno a perfezionare se stessi colla pratica delle interne ed esterne virtù».

Quando don Bosco cita la Parola di Dio, dimostra una spiccata preferenza per i testi che mettono in evidenza la 'categoria del fare', dell'annunzio, della evangelizzazione; nel suo voluminoso epistolario, l'accenno alle realtà divine e alla preghiera è pressoché continuo, benché quasi mai tematizzato. Vengono invece sottolineate con cura frasi di questo tenore: «Opus fac evangelistae» (2Tm 4,5: «Continua il tuo lavoro di predicatore del Vangelo»); «Tu vero praedica Verbum opportune et importune» (2Tm 4,2: «Predica la Parola di Dio, insisti a tempo e fuori tempo»); «Opera Dei revelare et confiteri honorificum est» (Tb 12,7: «È cosa gloriosa rivelare le opere di Dio»).

Non è stato però un pragmatista, né ha elevato la prassi a criterio di verità. Ha sempre messo al di sopra di tutto sia la dottrina della fede che il Magistero: principi e valori saldamente acquisiti. Ma è stato <d'imprenditore di Dio», il realista che antepone, per istinto, il pratico al teorico, il vissuto all'astratto, i fatti alle parole, che non crede alla fede senza le opere, né ad un Vangelo che non sia incorporato alla vita. Solo «chi fa la verità viene alla luce» (Gv 3,21). Solo il linguaggio dei fatti e delle opere gli pareva abbastanza credibile.

«Il mondo è divenuto materiale - diceva - perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando giorno e notte nella sua cella, il mondo non ci bada e non ci crede più. Il mondo ha bisogno di vedere e toccare. Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare».

In un'epoca nella quale si guardava ai religiosi come a gente oziosa, inutile al progresso della società, volle la sua istituzione fondata sulla grande legge del lavoro e diceva, non senza umorismo, che la divisa dei suoi religiosi sarebbe stata quella delle «maniche rimboccate».

Con il coraggio e l'ardimento degli imprenditori che hanno reso celebre la città di Torino - soprattutto nell'ultimo quarto del sec. XIX - sorretto da una fede incrollabile, lancia i suoi giovanissimi salesiani, formati 'sul campo' e poco in teoria, a fondare le sue opere caritative: oratori, ospizi, scuole, collegi, missioni.

Nel 1878 ha l'audacia di scrivere a Leone XIII, appena eletto, di rivolgere particolare attenzione alle nuove istituzioni che lo Spirito Santo fa sorgere nella Chiesa: «Le famiglie religiose recenti sono chiamate dalla necessità dei tempi. Colla fermezza nella fede, colle opere loro materiali devono combattere le idee di chi nell'uomo vede soltanto materia. Costoro spesso disprezzano chi prega e medita, ma saranno costretti a credere alle opere di cui sono testimoni oculari». Parole antiche; si direbbero di oggi e valide su scala planetaria, tanto è dovunque invocata ed esigita l'apologia vitae dei credenti, la testimonianza autenticamente cristiana.

 

Le affermazioni.

Le affermazioni ardite che altri santi hanno fatto in lode alla preghiera, don Bosco le ha fatte in lode al lavoro.

«Il novanta per cento dei suoi discorsi ai confratelli - scrive A. Caviglia - sono per il lavoro, la temperanza, la povertà. Ecco - soggiunge argutamente - lo scandalo di un santo; di un santo, possiamo dire, 'americano'; dice molte più volte: 'Lavoriamo', che non: 'Preghiamo'.

Scrive, a sua volta, E. Cena: «Sarebbe difficile trovare un altro santo che nella misura di don Bosco abbia coniugato e fatto coniugare il vergo lavorare». Volle i suoi salesiani lieti, poveri, frugali, soprattutto laboriosissimi: «Lavoro, lavoro, lavoro! - ripeteva -. Ecco quale dovrebbe essere l'obiettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare. Quante anime si salverebbero!». «Chi non sa lavorare non è salesiano».

Voleva che il lavoro avesse la continuità del respiro: «Sempre lavorare. Questo deve essere il fine di ogni salesiano e il suo continuo sospiro». L'idea della fatica non doveva fare da pensiero frenante, ma servire da stimolo a fare di più. «Da noi non si vogliono denari, ma fatiche». «Bisogna che ci procuriamo lavori superiori alle nostre forze, e COSÌ chi sa che non si arrivi a fare tutto quello che si può».

La pigrizia e l'ozio gli ispiravano orrore. Giunse a dire questa frase di rigore estremo: «Il prete o muore per il lavoro o muore per il vizio».

Quello che per altri Istituti erano le penitenze afflittive, i lunghi digiuni, per don Bosco era il lavoro: «Miei cari, - ripeteva - non vi raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro».

Quando vedeva il grande lavoro che facevano i suoi figli ne godeva intimamente: «Quando vado nelle case e sento che c'è molto da lavorare, vivo tranquillo. Dove c'è lavoro non c'è il demonio». «È vero, - soggiungeva - il lavoro supera le forze, ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica sia un secondo nutrimento dopo l'alimento materiale».

Era convinto che «da S. Pietro fino a noi i tempi non fossero mai stati così difficili», ma voleva che «invece di riempire l'aria di lamenti piagnucolosi» si reagisse intensificando il lavoro: «Lavorare a più non si può dire».

Pio IX gli aveva detto: «Io stimo che sia in condizione migliore una casa religiosa dove si prega poco, ma si lavora molto, di un'altra nella quale si facciano molte preghiere e si lavori niente o poco». E ancora: «I novizi non metteteli in sagrestia, perché diventino oziosi: ma occupateli a lavorare, a lavorare!».

È quello che don Bosco faceva da sempre, suscitando perplessità e diffidenze in altri religiosi e nella stessa autorità ecclesiastica.

Veniva rimproverato, ad esempio, di sacrificare il 'noviziato ascetico' ed i metodi 'tradizionali' della formazione, impegnando incautamente i giovani confratelli in dissipanti e precoci attività apostoliche. Ma don Bosco rispondeva a sua discolpa: «L'esperienza di trentatré anni ci ammaestra che queste assidue occupazioni sono un baluardo inespugnabile della moralità. Ed ho osservato che i più occupati ed i più laboriosi ricordano meglio l'antica loro condizione, godono di molta sanità, si conservano più virtuosi, e, fatti sacerdoti, riportano copioso frutto del sacro ministero».

La conferma della bontà del suo metodo gli veniva anche dai misteriosi sogni che, come carte dal cielo, segnano le svolte decisive della sua esistenza.

Nel «sogno di Lanzo» (1876), ad esempio, la guida che lo accompagna gli fa vedere il campo sterminato dell'azione salesiana e gli dice in tono perentorio: «Guarda; bisogna che tu faccia stampare queste parole che saranno come il vostro stemma, la vostra parola d'ordine, il vostro distintivo. Notalo bene: Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congrega ione Queste parole le farai spiegare, le ripeterai, insisterai».

Straordinaria importanza ha sempre avuto nella tradizione salesiana il sogno dei «dieci diamanti», o delle dieci virtù, che brillano di luce sfolgorante sul manto del personaggio che personifica il «modello del vero salesiano». Due di questi diamanti recano la scritta: «Lavoro», «Temperanza». Sono collocati rispettivamente sulla spalla destra e sinistra quasi a stagliare la figura del salesiano.

Ricordiamo, in fine, le parole forse più grandi della sua vita: «Quando avverrà - così termina il suo Testamento spirituale - che un salesiano soccomba o cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un gran trionfo e sopra di essa scenderanno copiose le benedizioni del cielo». Ancora sul letto di morte raccomandò per ben due volte a Mons. Cagliero: «Raccomando che dica a tutti i salesiani che lavorino con zelo ed ardore: lavoro, lavoro».

 

La testimonianza.

Ma più alta delle parole è la testimonianza della sua vita. Una vita, come la definì Pio XI, «che fu un vero, proprio e grande martirio: una vita di lavoro colossale che dava l'impressione dell'oppressione anche solo a vederla».

Si stenta a credere che un uomo solo abbia potuto lavorare tanto e attendere a tante cose insieme. Scrive A. Caviglia che in don Bosco sembrano operare, in simultaneità, più persone: «L'educatore e il pedagogista, il padre degli orfanelli e l'adunatore dei fanciulli abbandonati, il fondatore di congregazioni religiose, il propagatore del culto a Maria Ausiliatrice, l'istitutore di unioni laicali estese per il mondo intero, il suscitatore della carità operativa, il banditore di missioni lontane, lo scrittore popolare di libri morali e apologie religiose, il propugnatore della stampa onesta e cattolica, il creatore di officine cristiane e di collezioni librarie, l'uomo della pietà religiosa e della carità e l'uomo dei negozi umani o di pubblico interesse, tutt'insieme ad un tempo operano e avanzano come fossero altrettante persone nate o destinate a quello solo, e si fondono nell'unica persona di un prete senz'apparenze, che non scompone mai la serenità del suo aspetto né la composta modestia del suo tratto coi grandi gesti decorativi, né arricchisce il suo vocabolario con la retorica delle grandi frasi».

Tanta molteplicità di aspetti era però unificata, a livello di profondità, dall'idea che domina la sua vita: quella, come abbiamo visto, della salvezza delle anime e della gloria di Dio.

La Provvidenza aveva temperato don Bosco al lavoro fino dagli anni stentati e poveri della fanciullezza. Sappiamo che fece di tutto, essendo stato pastore di armenti, lavoratore di campagna, servitore, sarto, fabbro, caffettiere, pasticcere, saltimbanco, ripetitore, studente, sacre- stano, barbiere; passò da un padrone all'altro, sperimentando quanto «sa di sale» il pane altrui.

Questa esperienza lascerà in lui un marchio indelebile: sarà per sempre sensibilissimo ai problemi della gioventù povera ed emarginata come a quelli delle umili classi lavoratrici e sarà per sempre un lavoratore ed un realizzatore formidabile: «Le cose non vanno soltanto a vapore - scriveva nel 1878 alla contessa Uguccioni - ma come il telegrafo. In un anno con l'aiuto di Dio e colla carità dei nostri benefattori abbiamo potuto aprire venti case. Vede come è cresciuta la Sua famiglia».

Fedele ad un suo antico proposito, non concedeva al sonno, nella maturità, più di cinque ore per notte. «Si può dire - depose nei processi Mons. Bertagna - che passò metà delle notti lavorando: e lo sentii più volte a dire che, quando era più sano, passava più volte anche due notti a tavolino nello scrivere. Ciò nonostante al mattino si trovava in sacre- stia per dire la messa e sentire le confessioni per più ore». Nei primi tempi dell'Oratorio, in date circostanze, confessava anche molte ore al giorno.

Nel periodo della sua massima operosità scriveva con una velocità sorprendente e di proprio pugno anche 250 lettere in una giornata. «Ne fo passare del lavoro sotto le mie dita - diceva -; ho acquistato una celerità che non so se possa dirsi maggiore». Nei periodi di più intensa attività, molte volte si metteva al tavolino alle due pomeridiane e durava fino alle otto per riprendere ancora dopo. «Sono più mesi che mi metto a tavolino alle due pomeridiane e mi levo alle otto e mezzo per andare a cena».

La «mortale fatica» alla quale lo costringevano le preoccupazioni quotidiane trapela dalle lettere in subitanei sfoghi che non lasciano di commuovere: «Il lavoro mi fa andar matto»; «Mi trovo stanco da non poterne più»; «Sono molto stanco».

Ed era vero. Si può dire che non conobbe altro riposo che quello della tomba. «Non ricordo - ha deposto Mons. Cagliero - che in tutta la sua vita si sia preso un giorno di vacanza per diporto o per prendersi riposo, e sovente trovando noi stanchi ed affranti dal lavoro: 'Coraggio - ci diceva - coraggio, lavoriamo, lavoriamo sempre perché lassù avremo un riposo eterno'».

Morì spezzato dall'eccesso di lavoro, martire - non metaforico - di una fatica che non conobbe soste. Le sue «esagerate veglie e fatiche materiali - leggiamo nella rapida e curiosa biografia del suo medico curante - gli logorarono la vita: da principio quasi inavvertitamente, dopo il 1880 circa [otto anni prima della morte] si può dire che il di lui organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante, in mezzo al quale tuttavia ancor brillava una mente sempre attiva e sempre ansiosa di raggiungere la gloriosa sua meta».

La laboriosità del «vecchio prete», del «filantropo del secolo XIX», del «cattolico intransigentissimo» parve, agli uomini del tempo, incredibile e leggendaria. Alla morte di don Bosco i giornali del tempo definirono la fatica e l'operosità di lui «prodigiosa» (L'Illustrazione popolare), «gigantesca» (La Patrie), «enorme e al massimo grado» (La Perseveranza), «fenomenale» (Il Fanfulla). «Se don Bosco - si legge nello stesso giornale - fosse stato ministro delle finanze, l'Italia sarebbe economicamente la prima nazione del mondo». Ai Processi Apostolici il Promotore della Fede non esitò a dirlo uno dei massimi apostoli della Chiesa del secolo XIX: «La molteplicità e fecondità delle sue opere ha del prodigio: il suo zelo per la salvezza delle anime e per la diffusione del Regno di Cristo sulla terra, è stato così intenso e continuo, che la storia, a buon diritto, lo proclama apostolo grandissimo - 'maximum' - del secolo XIX».

 

 

Pietro Brocardo

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