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Capitolo secondo. SVOLTA SPIRITUALE.

"L'amico non lo approvò: «La tua forza - gli disse - mi spaventa. Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo»."


Capitolo secondo. SVOLTA SPIRITUALE.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Studente a Chieri, Giovanni stringe una forte amicizia con Luigi Comollo, perla di giovane e poi di chierico, deceduto prematuramente e di cui don Bosco scriverà una breve biografia. L'amicizia con il Comollo segna una svolta nella vita spirituale del Santo. Segna l'inizio di una intensa emulazione, di un autentico cammino verso la santità sacerdotale. Di essi si poteva veramente dire con K. Gibran: «Ogni aurora non li trovava mai dove li aveva lasciati il tramonto». Erano fatti per integrarsi e completarsi; sul piano spirituale anzitutto, ma non solo su questo.

«L'uno - scrive don Bosco - aveva bisogno dell'altro. Io di aiuto spirituale, l'altro di aiuto corporale», cioè di difesa. Vi erano infatti studenti maldestri i quali, approfittando della timidezza e della bontà di Comollo, lo maltrattavano; Giovanni fremeva. Un giorno alcuni prepotenti mollarono due schiaffi sonori sul volto pallido ed impaurito del povero Comollo, che subì l'affronto senza reagire e perdonando in cuor suo. Ma era presente il Bosco il quale, davanti a quella scena, non ci vide più; il sangue gli ribollì nelle vene e compì, come lui stesso racconta, una mezza strage: «In quel momento io dimenticai me stesso ed eccitando in me non la ragione ma la forza brutale, non capitandomi tra mano né sedia né bastone, strinsi con le mani un condiscepolo colle spalle e di lui mi valsi come di un bastone a percuotere gli avversari. Quattro caddero stramazzoni a terra, gli altri fuggirono gridando».

L'amico non lo approvò: «La tua forza - gli disse - mi spaventa. Dio non te la diede per massacrare i compagni. Egli vuole che ci amiamo, ci perdoniamo».

L'influenza del Comollo su don Bosco fu notevolissima come si ricava dalle sue Memorie. Lo «sbalordiva» quell'«idolo di compagno» e quel «modello di virtù», dal quale egli aveva appreso «a vivere da cristiano», vivere cioè una vita di forte impostazione sacramentale e mariana, di intenso esercizio della carità, di senso del dovere e di alta tensione verso l'ideale del sacerdozio. Un ideale ritagliato sul modello di prete della riforma tridentina e della restaurazione, più liturgo che apostolo, più ritirato che immerso nella realtà umana, uomo dell'eterno e meno del temporale. Il sacerdote è certamente tutto questo, ma più di questo.

In realtà don Bosco sarà un prete diverso; porterà però sempre con sé la coscienza acuta e mordente dell'alta dignità e responsabilità sacerdotale che gli era stata inculcata in seminario. Considererà sempre la condizione del sacerdote non come un privilegio, ma come un ministero rischioso nel quale, per poco che si trascurino i propri doveri, si rischia il destino eterno. «Purtroppo è certo - predicava il Cafasso - che qualcuno tra i sacerdoti andrà a perdersi e ognuno di noi può correre questo grave pericolo se non stiamo bene in guardia».

 

Essere un buon prete.

È un fatto che il giovane Bosco entra in seminario col disegno di mutare 'radicalmente' vita: «La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata». Di qui il proposito di rinunziare ai «pubblici spettacoli», ai «giuochi di prestigiatore, di destrezza» che reputa «contrari alla gravità e allo spirito ecclesiastico». Vivrà «ritirato e temperante»; combatterà «con tutte le sue forze» quanto anche lontanamente possa offuscare la «virtù della castità»; si darà alla preghiera e all'apostolato tra i compagni. In una parola contraddirà se stesso anche nelle tendenze per sé legittime, dandosi, come si esprime P. Stella, a quel continuo «sforzo ascetico che lo spingeva sulla via dei digiuni, delle astinenze e delle collere con se stesso allorché si sorprendeva talvolta indulgente con le antiche sue abilità secolaresche, come l'esibirsi in virtuosismi di agilità o nel suonare il violino; tensione ascetica che contribuì a portare il suo amico Comollo alla morte e don Bosco stesso all'estremo limite di forze».

Che la violenza fatta a se stesso negli anni del seminario sia causa, non ultima, del deperimento organico che lo colse e della malattia mortale che ne è seguita, trova conferma nella testimonianza del Dott. Albertotti, il quale scrive: «Avvedutosi della sua impetuosità come di un male, fece tali sforzi, come già aveva fatti per il passato nel corso ginnasiale per correggersi che, come poi narrava a quando a quando ai suoi discepoli, gli si rivoltò il sangue addosso e cadde ammalato con pericolo di morire».

Questo episodio della vita di don Bosco dà la misura del duro corpo a corpo ingaggiato per rettificare le tendenze devianti della natura, per essere padrone di sé, tutto di Dio e degli altri, specialmente dei giovani. «Ogni vita compiuta in bellezza, o Signore, dà testimonianza di Te; ma la testimonianza del santo è come strappata con tenaglie infocate dal corpo vivo». Con questa immagine, che ricorda l'inferno dantesco, Bernanos esprime una legge vera della santità cristiana. Don Bosco l'ha vissuta sulla sua pelle. L'eroismo cristiano, destinato a durare, non spunta come l'alba di un giorno.

Nei tre anni trascorsi al Convitto Ecclesiastico di S. Francesco di Assisi in Torino (1841-1844) don Bosco plasma e riplasma ancora se stesso, il suo sacerdozio, in linea però pastorale e pratica: «Qui si impara ad essere preti». Il Teol. Luigi Guala e don Giuseppe Cafasso, «due celebrità in quel tempo», il convittore Felice Golzio sono i «tre modelli che la divina Provvidenza mi porgeva e dipendeva solamente da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù».

Don Cafasso diventa suo confessore e guida spirituale. Scrive nelle sue Memorie: «Se ho fatto qualche cosa di bene, lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita». Tenace e quasi cocciuto nelle sue idee, «ubbidì sempre - riferisce Mons. Bertagna - e senza discussione a don Cafasso». È per «ubbidienza a don Cafasso - dirà ai suoi figli - che mi fermai a Torino, è dietro suo consiglio e direzione che presi a radunare ogni di festivo i monelli di piazza per catechizzarli; fu mediante il suo appoggio ed aiuto che incominciai a raccogliere nell'Oratorio di S. Francesco di Sales i più abbandonati perché fossero preservati dal vizio e formati alla virtù. Ricordatelo!».

La virtù di don Bosco, giovane prete, brilla di luce nuova nella fondazione e conduzione dell'Oratorio festivo al Convitto, poi al Rifugio e finalmente nella sede fissa di Valdocco, dove si insedia il 12 aprile 1846, Pasqua di risurrezione. Qui il Santo dovette affrontare difficoltà immani di vario genere. Difficoltà esterne: angustie della povertà, abbandono dei suoi collaboratori, vessazioni da parte delle autorità municipali; difficoltà interne determinate dalla eterogeneità o dall'indole stessa degli oratoriani provenienti dai quartieri poveri della città o girovaghi senza lavoro, veri cani senza collare intolleranti di ordine e di disciplina. Occorrevano nervi saldi e tanta, tanta pazienza.

Un'idea di che cosa fosse l'Oratorio di Valdocco in quei lontani primordi, l'abbiamo in questa realistica, tardiva evocazione di don Bosco: «Quando il mio pensiero confronta i tempi presenti coi tempi passati, la mia immaginazione ne resta schiacciata. Trentacinque o trentasei anni fa che cosa c'era [qui a Valdocco]? Nulla, proprio nulla. Io correva qua e là dietro ai giovani più discoli, più dissipati; ma essi non volevano saperne di ordine e di disciplina, si ridevano delle cose di religione, delle quali erano ignorantissimi, bestemmiando il nome santo di Dio, ed io non ne poteva far nulla. Quei giovani erano proprio di trivio e di piazza ed accadevano battagliuole a sassi, e risse continue. Le cose allora erano più nei pensieri che nei fatti».

A «stare con don Bosco» verranno in seguito giovani splendidi come Michele Rua, Battista Francesia, Giovanni Cagliero, Domenico Savio ed altri, ma quanta violenza egli dovrà imporre a se stesso, trattando con elementi ostinati e difficili, per restare fedele al programma della sua prima messa: «La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa».

Il salesiano deve avere - era una delle sue massime - «la dolcezza di S. Francesco di Sales e la pazienza di Giobbe». Una 'dolcezza' non languida, non debole; ma frutto della carità pastorale che è «benigna e paziente; tutto soffre, tutto spera, tutto sopporta». Per conservarla «si dovrà sudare e sudare molto e talvolta spargere persino il sangue»: è l'ammonimento che, nel cosiddetto 'Sogno delle confetture', viene rivolto a tutti i salesiani e che ha già avuto il suo collaudo nella esperienza viva di don Bosco.

Un giorno l'amico don Giacomelli scende a Valdocco mentre don Bosco, rosso in viso, rincorre un gruppetto di ragazzi i quali, giunto il momento delle orazioni, cercavano di svignarsela: «È la seconda volta che ti vedo alterato», gli dice. «Questi benedetti ragazzi!» fu tutta la sua risposta; ma quanto eloquente. Accadeva anche che lo sorprendesse nell'atto di percuotere ragazzi in lite fra di loro, ma le mani restavano ferme a mezz'aria. Non percuoteva i giovani, anche se un certo costume portava allora a fare così in parecchi casi e non tollerava che altri si comportassero in questo modo. Sappiamo dalla testimonianza di don Rua e del Card. Cagliero che qualche schiaffo scappò pure dalle mani di don Bosco quando non era ancora avanti negli anni. Ma si tratta di casi che stanno sulla punta delle dita di una mano e che si riferiscono a situazioni del tutto particolari. A cose fatte non ne restava però contento. Sapeva invece essere comprensivo, tollerante, paziente anche quando si sentiva 'ribollire' il sangue nelle vene.

 

Costa anche a me.

Nella piena maturità e nella terza età don Bosco possiede realmente un eroico e sicuro dominio di sé; una pazienza e calma superiori ad ogni elogio e una dolcezza di tratto senza pari. È l'artista che ha sbozzato il suo capolavoro e lo rifinisce con cura. Ma il «fondamento che natura pone», domato, non estinto, ha ancora i suoi sussulti: «Non crediate - disse la mattina del 18 settembre 1876 agli esercitandi riuniti a Lanzo Torinese - che non costi anche a me, dopo di aver incaricato qualcuno di un affare, o dopo avergli mandato qualche incarico d'importanza o delicato o di premura e non trovarlo eseguito a tempo o mal fatto, non costi anche a me il tenermi pacato; vi assicuro che alcune volte bolle il sangue nelle vene, un formicolio domina tutti i sensi. Ma che? impazientirci? Non si ottiene che la cosa non fatta sia fatta, e neppure si corregge il suddito con la furia».

Così faceva, così insegnava: «Quando siete adirati o agitati astenetevi sempre dal fare riprensioni o correzioni». Aggiungeva: «Ci saranno casi in cui si sarà costretti 'a gridare un po''; si faccia, ma si pensi un momento: in questo caso S. Francesco di Sales come si comporterebbe? Posso assicurarvi che se faremo così, si otterrà quanto disse lo Spirito Santo: In patientia vestra possidebitis animas vestras».

Il suo primo biografo ha fatto al riguardo questa penetrante sottolineatura: «Don Bosco quando sentiva in sé qualche contrasto di passione allora pareva che la natura si lamentasse e il suo accento aveva qualcosa di così dolce ed affettuoso che piegava al suo volere chi lo ascoltava».

Un riflesso della sua capacità di autocontrollo è la corrispondenza numerosissima e varia. Un animo che non fosse abitualmente unito a Dio difficilmente avrebbe resistito alla tentazione di rispondere ad armi pari a certe lettere provocatorie ed ingiuriose. Sapeva invece essere conciliante e delicato. Era sua legge non rispondere quando si sentiva agitato dalla passione: pregava, lasciava passare ore e giorni finché non fosse ritornata in lui la calma assoluta.

«Più volte - scrive ad esempio al Teologo Valinotti riguardo alla sofferta vertenza sulle Letture Cattoliche - ieri mi provai per rispondere, ma l'agitazione me l'ha sempre impedito. Questa mattina soltanto dopo aver celebrato il sacrificio della S. Messa e raccomandato ogni cosa al Signore, rispondo semplicemente narrando le cose nel reale loro aspetto».

«Sono in collera: - dirà un giorno a don Ruffino - questo foglio non sarebbe dettato da me, ma dallo sdegno; non è il momento di scrivere». Riproverà più tardi e più volte: niente da fare! Finirà per strappare tutto e non rispondere affatto. Avrà la gioia di dire a se stesso: «Ho fatto bene».

Il Card. Cagliero ha evocato nei processi canonici un episodio della vita del Santo che dà la misura della sua eroica capacità di reagire con calma alle contrarietà. Si era nel gennaio del 1875: Don Bosco pranzava tranquillamente con i confratelli, quando gli si avvicina don Rua e gli comunica che deve versare la somma di L. 40.000 - cifra ingente per quel tempo - per avallo di una cambiale firmata in favore di un amico morto improvvisamente e che gli eredi si rifiutavano di pagare. Quale fu la sua reazione? «Stava mangiando la minestra - racconta il teste: vidi che tra un cucchiaio e l'altro, si era in gennaio e la sala non era riscaldata, gli cadevano dalla fronte nel piatto gocce di sudore, ma senza affanno e senza interrompere la modesta refezione».

C'è tanta verità in questa affermazione del Teol. Savio Ascanio: «Aveva saputo dominare talmente il suo carattere bilioso da parere flemmatico; e così mansueto da accondiscendere sempre ai suoi alunni, purché non ne andasse di mezzo la gloria di Dio o il bene delle anime».

Ed in quest'altra di Mons. Bertagna: «A mio giudizio, a vederlo negli ultimi otto o dieci anni, già pieno d'acciacchi, sovraccarico di occupazioni, assediato sempre da ogni sorta di gente, e lui sempre tranquillo, non dar mai in un'impazienza anche minima, senza mostrar fretta, non mai precipitare quello che gli era messo a mano, dà ben motivo a dire, che se non era un santo, di un santo rendeva però l'immagine. L'esito poi dell'opera sua principale e come di tutta la vita, cioè la sua Congregazione, è quello che ha per me più forza a volermi persuadere che don Bosco fu un santo».

La fatica di farsi santo emerge emblematicamente nelle imprese più intense della sua vita. Possiamo pensare, ad esempio, ai trent'anni di sforzi ostinati sostenuti per ottenere da Roma il riconoscimento della Congregazione. Ad impresa compiuta potrà asserire con piena verità: «Se avessi saputo prima quanti dolori, fatiche, opposizioni e contraddizioni costi il fondare una società religiosa forse non avrei avuto il coraggio di accingermi all'opera».

Pensiamo all'arditissima impresa missionaria degli ultimi dodici anni della sua esistenza. Con essa egli poteva sciogliere, è vero, tramite i suoi figli, un voto che, da quando era giovane sacerdote, portava fisso in cuore: piantare la Chiesa in terre lontane a salvezza di tutti. Ma essa comportava preoccupazioni e difficoltà a non finire. Ancora una volta il suo ardimento chiamò in causa l'equilibrio del santo. Eppure nello spazio di un ventennio la Congregazione salesiana entrava, a pieno titolo, nel novero delle grandi società missionarie della Chiesa. La logica dei santi non è quella degli uomini comuni perché scende da regioni superiori.

E pensiamo, infine, all'incessante suo pellegrinare, segnato da brucianti umiliazioni, in cerca di aiuti e sostegno per le sue opere culminato nella «fatica mortale» del lungo viaggio in Spagna (Barcellona) fatto nel marzo 1886, già allo stremo delle sue forze. Quando, nel suo estenuante viaggio di ritorno, sostò a Montpellier, fu ripetutamente visitato dal dott. Combal, una celebrità medica che aveva già incontrato e che volle sottoporlo a tre visite accurate. Il verdetto, espresso a don Rua e don Viglietti, a conclusione degli esami, è un elevato inno allo spirito di immolazione di don Bosco, al suo eroismo cristiano: «Se don Bosco non avesse mai fatto nessun miracolo, io crederei il maggiore di tutti la sua esistenza. È un organismo disfatto. È un uomo morto dalla fatica e tutti i giorni continua nel lavoro, mangia poco e vive. Questo è per me il massimo dei miracoli».

La fatica sostenuta da don Bosco per farsi santo è stata davvero grande, benché non conclamata e poco manifesta. Riferendosi alla pienezza della sua santità, Pio XI, nel discorso del 17 giugno 1932 agli alunni dei Pontifici Seminari Romani, l'ha come sintetizzata in queste vigorose affermazioni: «La sua vita di tutti i momenti era una immolazione continua di carità, un continuo raccoglimento di preghiera; è questa l'impressione che si aveva più viva della sua conversazione. Si sarebbe detto che non attendeva a niente di quello che si diceva intorno a lui; si sarebbe detto che il suo pensiero era altrove, ed era veramente così; era altrove: era con Dio in spirito di unione. Ma poi eccolo a rispondere a tutti e aveva la parola esatta per tutto e per se stesso, così proprio da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi meravigliava. Questa vita di santità e di raccoglimento, di assiduità alla preghiera il Beato menava nelle ore notturne e fra tutte le occupazioni continue ed implacabili delle ore diurne».

 

 

 

Pietro Brocardo

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