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Capitolo terzo. IL DOTTOR ALBERTOTTI E SUO FIGLIO.

"Questa testimonianza è preziosa. Coglie aspetti tipici di don Bosco: la sua conoscenza eccezionale dell'animo giovanile, la sua indomabile attività, il lato gaio della vita, la sua sincera umiltà."


Capitolo terzo. IL DOTTOR ALBERTOTTI E SUO FIGLIO.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Il medico personale di don Bosco - e dell'Oratorio - fu il dottor Giovanni Albertotti. Psichiatra, primario del manicomio di Torino, per un certo tempo assistente presso la cattedra universitaria di patologia, era una mezza celebrità. Ma, con la psicologia e la medicina del tempo, non recava sempre grandi benefici ai suoi pazienti. Aveva tuttavia per don Bosco una ammirazione sincera, maturata attraverso una lunga amichevole frequentazione. Lo considerava un uomo «straordinario», tanto che, dopo la sua morte, volle anche lui scrivere una breve biografia - originale quanto discutibile - dal titolo Chi era don Bosco: biografia fisico, psico, patologica. Non ne curò, tuttavia, la pubblicazione, lasciando che il figlio Giuseppe, medico oculista, si assumesse questo compito. Il libro, dimenticato a lungo nel cassetto, fu pubblicato a Genova, nel 1934, anno della canonizzazione di don Bosco, per assecondare la volontà del padre, ma anche a dimostrazione della simpatia che il dott. Giuseppe serbava per don Bosco, con il quale si era incontrato più volte, quando, ancora studente di medicina, veniva condotto, di tanto in tanto, dal padre a fare pratica nella infermeria di Valdocco e nella stessa camera del Santo. Risalgono a questo tempo alcuni suoi «ricordi» personali che hanno tutto il sapore del «buon tempo antico».

Il libro, tolto dalla circolazione, è pressoché introvabile.

 

«Da mihi animas».

«Ricordo di essere stato una delle prime volte in camera di don Bosco quando egli era ancora a letto convalescente da una grave malattia, e che mi colpì la semplicità della sua camera. Una volta, in una di queste soste da don Bosco, un po' più lunga del solito, mi annoiai terribilmente, perché discorrevano [don Bosco e suo padre] di cose che non mi interessavano.

Sul tavolo, di legno greggio, c'era un mucchio di ritagli di carta, come quelli che vengono su dalla legatoria, sui quali egli aveva scritto qualche cosa. Alla mia domanda, sul perché si servisse di quei ritagli, mi rispose: 'Per ch'a vadó nen an malóra' ('Perché non vadano sprecati').

Sopra la testata del letto - un semplice letto di ferro - sulla parete bianca era scritto a grandi caratteri maiuscoli: Da mihi animas, caetera tolle. Alla mia domanda del perché di quella scritta: 'Ch'am dagó - disse - na masnà ch'a l'abia nen 'ancór 14 ani, i n'a fass lon veui' ('Mi diano un ragazzo che non abbia ancor 14 anni, io ne faccio quello che voglio')».

 

Partimmo ambedue da Torino.

«Un autunno - mi pare quello del 1873 - don Bosco, avendo sentito da mio padre che io sarei andato ai bagni di mare, gli offrì di condurmi seco ad Alassio, e di darmi colà ospitalità nel suo Collegio. E così venne deciso.

Partimmo ambedue da Torino in seconda classe - a lui era stato concesso un biglietto di circolazione gratuito con la facoltà di portarsi seco pure una persona di compagnia - al mattino. Strada facendo osservavo che egli lavorava sempre; ora leggeva, ora scriveva, come poteva, e più che altro correggeva bozze di stampa. Ad un certo punto gli domandai: 'Don Bosch, perché c'a tra vaja tant?' ('Don Bosco, perché lavora tanto?'). E lui: 'Dótórin, Dótótin, 'l cambié d'ocupasión a riposa' ('Dottorino, Dottorino, il cambiamento di occupazione riposa')».

 

Si applaudì e si bevve.

«Una volta all'anno, in quell'epoca, don Bosco invitava a pranzo - credo il giorno di San Giovanni perché era l'onomastico suo e di mio padre - mio padre e mia madre. E nel 1875, se non erro, fui invitato anch'io.

Don Bosco sedeva fra mio padre e mia madre, io vicino a mia madre. Alla stessa tavola sedevano forse una ventina di sacerdoti, fra cui mi ricordo l'allora don Cagliero. Non c'era punto musoneria, e chi teneva allegra la conversazione era naturalmente don Bosco.

Verso la fine don Bosco volle farci assaggiare una buona bottiglia divino del Monferrato - mi ricordo che era vino nero - ed un vicino a me si accinse a stapparla. Avvitò nel tappo il cavatappi e poi alzatosi e posta la bottiglia fra le ginocchia e, tenendola con la mano sinistra, inutilmente cercava con la destra di tirar su il tappo.

Don Bosco, ciò vedendo, si rivolse a questo Don [non ne fa il nome] e gli disse: 'Da 'n poch si a mi chi són d' bosch' ('Dalla un po' qui a me che sono di Bosch, ossia di legno'), facendo il doppio gioco di parole tra bosch, legno, e il suo cognome Bosco.

Prese la bottiglia e stando seduto la posò sulla tavola. Colla mano sinistra l'afferrò pel collo oltrepassandolo in alto di un dito traverso. Colla mano destra afferrò in direzione opposta il gambo non elicato del cavatappi rimasto fuori del tappo, così che i due pugni si incontravano al disotto dell'assicella orizzontale del cavatappi, colla parte inferiore della quale era a contatto la parte superiore - pollice e indice - del pugno destro. Che è che non è, girò i due pugni in modo che, a mano a mano si alzava il pugno di sotto, si alzava, senza perderne il contatto, il pugno destro. Tutto ciò senza scomporsi, e il tappo venne fuori benissimo. Si applaudì e si bevve».

 

È il primo che ho, il primo che do.

Quando il dottorino andò per l'ultima volta a congedarsi da don Bosco, dovendo lasciare Torino, il Santo gli disse: «`Dótórin, ch as seta' ('Dottorino, si segga'). Poi, rivolto a don Berto: 'Dis, Berto, daje 'n poch si al Dótórin col liber' ('Senti, Berto, da' un po' qui al dottorino quel libro').

Melo porse dicendomi se l'avrei gradito. Data un'occhiata al frontespizio - si trattava del volume allora uscito di Albert du Boys: Dom Bosco et la pieuse Société des Salésiens - io lo ringraziai del volume che mi riusciva gradito e gli aggiunsi che graditissimo mi sarebbe stato pure un suo motto sulla copertina al mio indirizzo, da cui risultasse che il dono mi veniva da lui stesso.

Questa mia domanda a bruciapelo lo scombussolò in apparenza, cambiò due volte colore in viso, ammiccò più volte, si schermi con gesti dalla mia richiesta, soggiunse confusamente: 'A l'è 'l prim chi l'hai, a l'è 'l prim ch'i dag' ('È il primo che ho, è il primo che do'); finché temporaggiando gli venne fuori la risposta buona: 'A dis trop bin d' mi' ('Dice troppo bene di me'). Don Berto mi dissuase dall'insistere - ché altrimenti l'avrei ottenuto sicuramente - e desistendo lo ringraziai di nuovo soggiungendo: 'Come vede, io cerco di cogliere al volo anche don Bosco', e mi congedai, riflettendo che in fondo la mia domanda era stata involontariamente un attacco alla sua modestia, dato che il libro conteneva già la sua apologia. Il volume lo conservo tuttora gelosamente e da esso ho tratto i particolari di questo racconto».

Questa testimonianza è preziosa. Coglie aspetti tipici di don Bosco: la sua conoscenza eccezionale dell'animo giovanile, la sua indomabile attività, il lato gaio della vita, la sua sincera umiltà.

 

 

Pietro Brocardo

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