La nuda fede non è mai mancata all'appello, nei momenti cruciali, "da duemila anni". Il problema è quanto siamo disposti a desiderarla e a farla desiderare. Lo dobbiamo fare per i figli che arrivano, almeno, se non per noi. Noi anziani - anche nella Chiesa - gridiamo le nostre delusioni con troppo avvilimento in faccia ai figli che ci guardano.
Caro Olmi (mi permetta, con stima, di chiamarla così, dopo aver letto il suo intervento ieri su "Repubblica" intitolato "Cara Chiesa, ti scrivo", tratto dal libro Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù, edito da Piemme; anche se lungi da me la pretesa di parlare come se fossi la Chiesa, alla quale lei confidenzialmente si rivolge), ok, il prezzo è giusto. Le ferite sono gravi. La tentazione di unirsi al coro è comprensibile. Il momento ha la sua indiscutibile soglia critica e il sentimento ha i suoi diritti (lei sicuramente sa bene "chi" ci ha appena aperto il varco decisivo, per questo sentimento di purificazione profonda ed epocale). È dunque l’ora del sentimento, e anche, fatalmente, del risentimento. L’invocazione e la recriminazione hanno ragioni che in molti punti si sovrappongono, persino, a buon diritto, fra gli stessi credenti. Non è di questo che vorrei parlare. Né ho intenzione di intrattenermi con lei su questioni di teologia alle quali Lei allude en passant (non è questo che ci accomuna). Parliamo pure di affetti. E di ragioni degli affetti, se ce ne sono ancora: struggenti e accorati quanto si vuole, ma pur sempre affetti. Mi consenta perciò di condividere un paio di riflessioni, in certo modo anche molto personali.
Un grande teologo (protestante), Karl Barth, per molti versi affine e amico del grande teologo Hans Urs von Balthasar (entrambi fra i "padri nobili" della cultura teologica del Novecento, molto amati da Joseph Ratzinger), mi ha inchiodato, nei miei anni giovanili, a una terribile provocazione.
Nel suo celebre commento della Lettera ai Romani, Barth ha scritto che se uno guarda le cose dal di fuori - senza cognizione della forza crocifissa del Vangelo, senza affetti per la vulnerabile fragilità del testimone - è impossibile negare che il Grande Inquisitore e il Poverello d’Assisi appartengano, a tutti gli effetti, alla storia del cristianesimo. Entrambi parlano del Signore, entrambi pretendono di difendere il vero cristianesimo. Eppure, il miracolo del cristianesimo è che il secondo c’è sempre. E sempre impedisce, pur fra mille ostacoli, che il primo requisisca la storia del cristianesimo. Solo nei romanzi e nei film accade questo. Nella realtà, il Grande Inquisitore non può addomesticare il Vangelo, che rimane visibile a tutti e lo giudica implacabilmente. Il Grande Inquisitore non può requisire la tradizione della buona testimonianza, che impone di confessare la fede come fede, e il peccato come peccato. Senza confusione possibile. I Vangeli stessi possono permettersi di dire a chiare lettere, fin dal racconto fondatore, che Giuda reclamava per lo spreco di profumo versato su Gesù da una peccatrice, perché teneva la cassa e rubava. Giuda appartiene certamente, "da duemila anni", alla storia del cristianesimo. Ma certissimamente, "da duemila" anni, non è Giuda che fa la storia del cristianesimo. Persino al di fuori della fede, non si potrebbe raccontare il cristianesimo in questo modo.
E come prende e riprende ogni volta la sua forza, questa "verità" indistruttibile del cristianesimo di chiesa? Non c’è che un modo. Le passioni e le affezioni di coloro che, in ogni secolo, "fecero l’impresa": senza chiamarsi fuori, come piccoli o grandi inquisitori del grembo che ha nutrito le loro passioni migliori (compreso lo sdegno per il tradimento). I loro eredi sono tutti coloro che nella Chiesa, in alto e in basso, non vanno a ingrossare le fila degli svagati ed eccitati spettatori "in attesa del naufragio". Il momento presente ha lusingato larghe falde dell’intellighenzia mediatica, reticente e codarda nei confronti dell’umanesimo smarrito e nichilista che il narcisismo-senza-dio ha inflitto all’epoca, con l’idea di accordarsi per maramaldeggiare su un cristianesimo che appare smarrito e svuotato. Un lavoro per mosche cocchiere, che non rischiano nulla. Un lavoro che mira a includere anche Dio fra le passioni tristi dell’epoca. L’oppio dell’irreligione renderà più sopportabile il nichilismo della ragione?
Sono sicuro che lei, caro Olmi, stia da tutt’altra parte, a questo riguardo. Perciò mi permetto di condividere la sua passione, chiedendole di mutare segno al suo appello. Non glielo propongo per onere di mandato ecclesiastico. Le propongo di condividere il senso che il suo appello riceve nelle parole di una signora fine e gentile, madre di quattro figli che sono stati cresciuti nell’identica passione intelligente per il Vangelo. Una persona che, come moltissimi, crede che la ferita non è la Chiesa che ha tradito il Vangelo, ma gli ecclesiastici che hanno tradito la Chiesa. «Nel momento in cui il giornalismo mostra tutta la sua stoltezza - mi ha scritto - e i nostri figli ci urlano "Ma che cos’è la Chiesa?", "Che cosa vuol dire che siamo cattolici?", ci mancano parole. E quelle del catechismo non bastano. La parola e la passione di tutti i saggi che si sono dedicati alla Parola di Dio ci servono. E ci servono adesso».
Questa nuda fede non è mai mancata all’appello, nei momenti cruciali, "da duemila anni". Il problema è quanto siamo disposti a desiderarla e a farla desiderare. Lo dobbiamo fare per i figli che arrivano, almeno, se non per noi. Noi anziani - anche nella Chiesa - gridiamo le nostre delusioni con troppo avvilimento in faccia ai figli che ci guardano. E così siamo una barriera, non un pungolo, fra la speranza della Chiesa che deve venire e le generazioni che sono già qui.
Pierangelo Sequeri
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