Non è facile parlare della castità. Si tratta di una parola, e di una realtà, spesso compresa riduttivamente o addirittura misconosciuta e derisa, oppure confusa con la verginità o identificata con l'astinenza sessuale...
del 01 gennaio 2002
Non è facile parlare della castità. Si tratta di una parola, e di una realtà, spesso compresa riduttivamente o addirittura misconosciuta e derisa, oppure confusa con la verginità o identificata con l’astinenza sessuale... Per questo è opportuno riscoprire la valenza antropologica della castità e quindi anche la sua valenza spirituale cristiana. L’etimologia ci suggerisce che il casto (castus) è colui che rifiuta l’incesto (in-castus). Il non-casto, in radice, è l’incestuoso. Il casto vive le sue relazioni accettando la distanza e rispettando l’alterità (che non si riduce alla differenza). Il non-casto cerca non la relazione, ma la fusione e la con-fusione che definiscono normalmente l’incesto. Questo senso fondamentale situa la castità nel solco del cammino di apprendimento dell’arte di amare e di vivere la sessualità in modo maturo e adulto. Non si tratta dunque di una virtù negativa, contrassegnata da proibizioni e divieti, ma eminentemente positiva, «che conferisce alle relazioni umane la loro trasparenza e il loro calore, e permette alle persone di riconoscersi nel rispetto del loro essere più intimo» (C. Flipo). Scrive J. Gründel: «La castità è la disponibilità interiore dell’uomo ad affermare pienamente la propria sessualità, a riconoscere gli impulsi sessuali nel loro carattere integralmente personale e sociale, e a inserirli in maniera ricca di senso nella globalità della vita umana».
La castità è «l’amore ordinato (amor ordinatus), che non pospone le cose grandi alle minori» (Agostino). Implicando l’assunzione radicale della propria corporeità, essa chiede non il rinnegamento del corpo o della sessualità, ma la loro integrazione nella vita personale, chiede all’uomo di adempiere il mandato di essere il proprio corpo, gli richiede di vivere la sessualità sotto il segno del simbolo, non dell’immagine. In particolare, ricorda all’uomo la necessaria integrazione della temporalità nell’amore: la castità è attesa, gradazione e durata. Essa rifiuta la fusionalità del «tutto e subito», la logica dell’immediato e del consumo. E così si configura anche come lotta contro l’assolutizzazione e l’impersonalità della pulsione sessuale, contro la ricerca della soddisfazione a ogni costo, la dissipazione, la reificazione della sessualità. La castità ci ricorda che l’amore è anche ascesi, fatica, lavoro, e richiede una purificazione per essere intelligente e rispettoso dell’altro e del suo mistero, davvero teso al bene dell’altro. Scrive Rilke: «Non c’è nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro, un lavoro a giornata. I giovani, poi, non sono assolutamente preparati a questa difficoltà dell’amore; di questa relazione estrema e complessa, le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così. L’amore è una cosa difficile!». Dunque la castità riguarda ogni uomo, e, in ambito cristiano, non è riservata ai cosiddetti «celibi consacrati», ma è dimensione che dev’essere assunta e vissuta da ogni battezzato, quale che sia lo stato di vita in cui si trova. Certo, la configurazione cristiana della castità la vede innestata nella fede in Cristo, connessa all’adesione personale a lui, radicata nella sua sequela ed espressione dell’amore per lui. Tanto nel matrimonio come nel celibato la castità è rispetto del mistero del proprio e dell’altrui corpo: essa percepisce il corpo come personale ed espressivo, prima di coglierlo come oggetto di desiderio. Anzi, essa confessa il corpo umano come tempio dello Spirito santo e dimora di Dio (cfr. 1Corinti 6,19), come luogo di glorificazione di Dio (1 Corinti 6,20). E il celibato casto a motivo del Regno è vivibile solo grazie a un grande amore per il Signore e alla fede nella resurrezione, oltreché a una maturità umana contrassegnata da capacità di amare e adesione alla realtà. In particolare, come afferma lo stesso Freud, l’equilibrio umano è definito essenzialmente dalla concreta capacità di amare e di lavorare con efficacia. E questi due elementi caratterizzano la maturità umana essenziale a una piena crescita spirituale anche nella vita celibataria.
Certo, la castità si gioca nel profondo del cuore ed è pertanto un cammino, una tensione incessante, una lotta, e non si configura mai come uno stato raggiunto una volta per sempre. San Cesario così si esprime a proposito della castità: «Fra tutte le lotte che i cristiani devono combattere, le più dure sono quelle per la castità: lì, infatti, quotidiano è il combattimento e rara la vittoria». La vittoria non è che un dono, un evento di grazia, l’imporsi – grazie alla fede – delle energie della resurrezione sulle pulsioni egocentriche dell’uomo. E un sostegno e un magistero per questa lotta, il cristiano lo trova nell’eucaristia che gli ricorda che «il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo»(1 Corinti 6,13). Lì, nel confronto con il corpo del Signore donato per amore, il credente trova il magistero per il rapporto con il proprio e l’altrui corpo. E si vede confermato nella vocazione alla comunione, all’amore, alla fraternità, a fare di sé un segno dell’amore di Dio per gli uomini. La castità infatti, mentre genera un cuore puro che sa vedere la realtà e gli altri in Dio, fa dell’uomo una trasparenza dell’amore e della potenza di Dio. Quella potenza con cui «Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi» (1 Corinti 6,14).
Enzo Bianchi
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