Cattivi sono gli altri da Giovani per i Giovani

Le motivazioni chiamate in causa per spiegare la violenza giovanile sono quanto mai molteplici e complesse, difficilmente esauribili in un breve contributo; vi sono cioè molte interpretazioni differenti anche sulla base del punto di vista di chi analizza il fenomeno. Cercherò, pertanto, di riassumere i principali...

Cattivi sono gli altri da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 02 ottobre 2009

Aggressività e violenza nei ragazzi di oggi. Fenomeno attuale o storia di sempre?

 

Qualche perché

 

Le motivazioni chiamate in causa per spiegare la violenza giovanile sono quanto mai molteplici e complesse, difficilmente esauribili in un breve contributo; vi sono cioè molte interpretazioni differenti anche sulla base del punto di vista di chi analizza il fenomeno. Cercherò, pertanto, di riassumere i principali spunti su cui ruotano normalmente le ipotesi di comprensione.

 

Istinto alla difesa

 

Innanzitutto, su un piano primariamente biologico, o, più precisamente etologico, l’aggressività rappresenta l’espressione dell’istinto della difesa o dell’affermazione del proprio territorio. Così come un cane ringhia quando ci avviciniamo al suo territorio, così fanno anche gli esseri umani: l’istinto difensivo del proprio territorio porta già un bimbo in tenera età ad arrabbiarsi con il suo fratellino quando quest’ultimo gli porta via la sua macchinina. Solamente a una visione superficiale il pestaggio tra bande di adolescenti rivali è più crudele o più scandaloso della decisione di una multinazionale di cambiare fornitura o decentrare una produzione mandando centinaia di famiglie sul lastrico: entrambe queste forme di violenza, anche se spargono sangue differente necessitano della medesima insensibilità empatica, o, in altri termini, della medesima percezione dell’altro come svuotato del suo valore umano.

 

Affermazione di sé

 

L’aspetto psicologico della faccenda è il bisogno d’affermazione di sé, parente prossimo del bisogno di supremazia sull’altro. Da questo punto di vista, l’aggressività e la violenza sembrano espressione di una cieca compulsione di “dimostrare” a tutti i costi (prima di tutto a se stessi) il proprio potere. Il bisogno di “essere qualcuno” a qualsiasi costo, compreso quello di affermare se stessi “buttando giù” l’altro. Questa compulsione lascia presupporre almeno due fenomeni. Innanzitutto la disistima sottostante: solo chi non percepisce il proprio valore ha bisogno di “dimostrarlo”; in secondo luogo, la medesima insensibilità empatica di cui parlavo poc’anzi: dobbiamo necessariamente disprezzare l’altro per poterlo maltrattare o violentare!

 

Fenomeno di gruppo

 

Ci spostiamo verso il piano sociologico: l’aggressività e la violenza come fenomeni sociali, come fenomeni visibili in determinate popolazioni o gruppi di individui: la violenza dei giovani, la violenza degli extracomunitari, la violenza di determinate etnie, ecc., interpretate come modalità di espressione della minoranza in questione. E gli stessi bisogni territoriali e di autoaffermazione si amplificano su scala sociale, diventando fenomeno di un intero gruppo; ma anche su questo livello ritroviamo, ed ovviamente in forma amplificata, lo stesso disprezzo per l’altro che anima la violenza individuale. Oltre a tutto ciò, non c’è da dimenticare che l’aggressività e la violenza rappresentano forme di stimolazione emozionale: la ricerca del limite e del superamento del limite come evento intrinsecamente adrenalinico. Alcuni sostengono che la noia e lo svuotamento di significato in una vita vissuta come insulsa generano inevitabilmente il bisogno di emozioni forti. Ma come è possibile vivere una vita svuotata di valore se non partendo da quel disprezzo che dopo aver investito l’altro, in questo caso si estende alla vita stessa nel suo complesso? Sembra una storia che viene da lontano: da Caino e Abele, ai ragazzi dei nostri giorni che si accoltellano; dal marito che picchia la moglie, piuttosto che dalla moglie che cerca di portar via i figli al marito. Dal genitore contro il figlio, al figlio contro il genitore; dal palestinese contro l’israeliano, all’israeliano contro il palestinese: forme diverse della stessa vecchia storia ovvero un essere umano contro un altro essere umano, in quel momento, però, percepito come disumano.

 

A quale livello la soluzione?

 

Sono state proposte tante soluzioni, eppure è come la guerra su larga scala: non sembra dare grossi segni di cedimento… Se ne parla, la si condanna e si continua a combattere! Che fare, quindi? Einstein sosteneva che nessun problema può essere risolto nel livello in cui è stato creato. Forse anche nelle riflessioni intorno ai fenomeni di aggressività e violenza giovanile dovremmo ricordarci questo monito, visto che quando parliamo di aggressività e violenza c’è un altro filo conduttore che si accompagna regolarmente: il cattivo è sempre un altro, è sempre “fuori” di noi. E questo è esattamente lo stesso filo conduttore che anima gli atti di violenza: il livello in cui è creato il problema, dal quale sarà impossibile risolverlo. Quando parliamo dei giovani violenti, è così scontato percepire i cattivi fuori di noi, così come quando restiamo sconvolti dalla ennesima notizia di crimine: il cattivo è sempre fuori di noi! Forse in questo si cela parte della trappola. È il vecchio gioco della vittima e del carnefice…Se la violenza è l’espressione di una percezione disumanizzata dell’altro, forse i fenomeni della violenza non potranno essere risolti se non da una percezione “umanizzata” dell’altro. Cosa significa questo? Semplicemente che io e l’altro siamo simili, apparteniamo allo stesso genere. Ma questo è scomodo, dal momento che la sopravvivenza psicologica è fondata sul senso di separazione; percepirsi come separati e distinti gli uni rispetto agli altri sembra proprio essere una trappola della coscienza umana. È il concetto di ego delle tradizioni spirituali. Forse se la nostra sensibilità è toccata dai fenomeni di violenza giovanile o siamo preoccupati per il destino dei nostri figli o delle generazioni future, la cosa migliore che possiamo fare, anziché indignarci o restare sopraffatti dall’ansia. È occuparci seriamente e responsabilmente del nostro “senso di connessione” nelle nostre realtà personali, ovvero della qualità delle nostre relazioni, da quelle fondanti la nostra personalità come la relazione con i nostri genitori, a quelle che caratterizzano il nostro presente: partner, amici, figli, colleghi e via dicendo, compresa la relazione con noi stessi e con Dio, comunque venga concepito. La maggior parte delle persone, anche se magari per brevissimi momenti, ha conosciuto il senso di “essere connessi”, il sentirsi un “tutt’uno” con qualcun altro, o con l’ambiente in generale, e sa cosa consegue naturalmente da tale stato: semplicemente la felicità. La felicità è la conseguenza del senso di “connessione” o di “unità” e, personalmente, non credo esista un antidoto all’aggressività e alla violenza migliore di essa.

 

Danilo Toneguzzi

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