Ci sono brani del Nuovo Testamento che nel corso della bimillenaria storia della chiesa hanno conosciuto stagioni di grande eloquenza, alternate a periodi di oblio durante i quali venivano confinati nell'utopia. È il caso dei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli in cui Luca descrive in modo efficace e sintetico la vita della prima comunità di...
del 18 settembre 2009
Ci sono brani del Nuovo Testamento che nel corso della bimillenaria storia della chiesa hanno conosciuto stagioni di grande eloquenza, alternate a periodi di oblio durante i quali venivano confinati nell’utopia. È il caso dei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli in cui Luca descrive in modo efficace e sintetico la vita della prima comunità di Gerusalemme, facendone una vera e propria norma capace di ispirare l’agire delle comunità cristiane di ogni tempo e latitudine.
 
“I credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune … erano un cuore solo e un’anima sola … Nessuno diceva suo quello che gli apparteneva, ma tra loro tutto era comune … nessuno tra loro era bisognoso” (cf. At 2,42-45; 4,32-35): sono affermazioni di forte impatto che, fino alla pax costantiniana, hanno conosciuto un’interpretazione mirante a rinvenirvi la forma primitivae ecclesiae, dunque un autentico modello per il rinnovamento della comunione intraecclesiale. Cessate le persecuzioni, questi stessi testi hanno conosciuto grande fortuna presso i padri monastici, Pacomio e Basilio su tutti, che vi hanno trovato una fonte d’ispirazione decisiva per la vita delle loro comunità. In seguito, sono stati oggetto delle più svariate letture etico-sociali, che vi hanno ravvisato l’ideale cristiano della condivisione dei beni, le esigenze della giustizia sociale, e molto altro ancora, così come hanno conosciuto, per contro, congiure di silenzio e sono stati disattesi nel vissuto quotidiano della chiesa.
 
Ma questi testi degli Atti possono ispirare ancora oggi la koinonía, la comunione ecclesiale? La narrazione di come i credenti vivevano al tempo degli apostoli può fornire indicazioni su come i cristiani dovrebbero sempre vivere la comunione ecclesiale, al di là del mutamento di tempi e condizioni? E, in particolare, la stagione ecclesiale e civile che stiamo vivendo può ancora trovare ispirazione e stimolo nella vita di una comunità cristiana così lontana nel tempo? Il messaggio che ci giunge dalla chiesa primitiva di Gerusalemme appare chiaro ed esigente per i cristiani di ogni epoca: chi ha ricevuto il dono dello Spirito santo e ha conosciuto l’irrompere della forza di Dio nella propria vita, è generato a vita nuova. Tale novità deve esprimersi concretamente nella differenza cristiana, “differenza” rispetto al proprio passato da non credente, differenza rispetto a chi non è credente, una differenza che consiste soprattutto in un “bel comportamento” (1Pt 2,12), rivelato da un tratto ben preciso che siamo venuti riscoprendo a partire dal concilio Vaticano II: la differenza della koinonía, della comunione. Infatti a partire dall’assise conciliare i cristiani sono tornati a porre al centro della loro prassi e della loro riflessione l’ecclesiologia di comunione, tesi a riscoprire nella chiesa, situata nella compagnia degli uomini, la sua dimensione di “casa e scuola di comunione”, secondo la profetica intuizione di Giovanni Paolo II.
 
Ma come ci viene presentata la realtà della koinonía nel Nuovo Testamento, la norma normans del cristianesimo di ogni epoca? Innanzitutto la koinonía avviene solo grazie all’iniziativa di Dio: è la relazione di Dio Padre, Figlio e Spirito santo con il credente e con la comunità cristiana, resa possibile dall’umanizzazione di Dio; è l’inaudita possibilità di partecipare della vita divina, apertaci dal Padre, nella sua infinita misericordia, attraverso il Figlio. Di conseguenza, la koinonía è l’alleanza tra i credenti, che trova la sua fonte nella comunione intratrinitaria partecipata alla comunità cristiana: la chiesa è koinonía di fratelli e sorelle, animata dalla comunione al corpo e al sangue di Cristo, segno della partecipazione del credente a tutta la vita del Figlio, riassunta nella sua passione, morte e resurrezione. In questo senso la koinonía è anche “comunione dello Spirito santo” (2Cor 13,13), attraverso la quale il cristiano si dispone ad abitare con Dio e a vivere come suo tempio.
 
Comprendiamo allora come sia stata possibile un’ulteriore accezione della koinonía che troviamo testimoniata negli scritti del Nuovo Testamento: la “colletta” in favore di chi si trova nel bisogno. Siamo così ricondotti all’istanza della condivisione dei beni, che gli Atti testimoniano non come un ideale, bensì quale vera e propria necessitas per la chiesa nascente. Essa non nasce da una valutazione pessimistica delle realtà terrene, non nasce dalla volontà di orgoglioso distacco rispetto ai beni del creato, e neppure da una spiritualità pauperistica: la sua unica fonte è la discesa dello Spirito santo che è agápe e, in quanto tale, esige che i cristiani si adoperino per eliminare il bisogno e la povertà. “Questo è il comandamento che abbiamo da Cristo: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,21). Sì, la comunione con Dio non può essere vissuta senza un’attenzione reale per la comunità degli uomini, senza divenire comunione con i fratelli e le sorelle anche nei beni!
 
La vita del cristiano e della chiesa deve perciò essere plasmata dalla comunione, la quale non è una tra le tante opzioni, bensì la forma ecclesiae fin dai primi passi compiuti dai discepoli all’indomani della resurrezione del Signore Gesù Cristo e della discesa dello Spirito santo: la chiesa è comunione, ovvero, “la comunione incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della chiesa” (Giovanni Paolo II). Nella chiesa non c’è posto per l’atteggiamento di sufficienza di chi afferma di non avere bisogno dell’altro; non c’è alcuna possibilità di dominare come fanno i grandi di questo mondo; non si può partecipare alla vita ecclesiale senza che un vero sensus ecclesiae sia anteposto all’appartenenza al gruppo o al movimento; nella chiesa non è possibile contraddire quella comunione dei beni spirituali e materiali che il Signore ci ha chiesto come segno del nostro essere suoi discepoli.
 
Certo, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Ma questa fragilità, questa incompletezza non esonera le generazioni dei credenti dal percepire la propria chiamata a “essere un cuore solo e un’anima sola”, nel vissuto quotidiano: le esigenze poste dai sommari degli Atti non hanno perso nulla della loro attualità e del loro valore normativo per la prassi cristiana. Se mai, occorrerebbe l’onestà di chiedersi per quale motivo oggi siamo così restii ad ascoltare queste parole, che suonano ormai come desuete agli orecchi della maggior parte dei cristiani: perché insistiamo tanto su alcuni aspetti dell’agire morale, mentre preferiamo tacere sulla necessità della condivisione materiale dei beni, via maestra per eliminare il bisogno e la povertà? È la nostra una stagione che mette a tacere e disattende questa esigenza ineludibile della “buona notizia” cristiana?
 
L’esigenza della koinonía materiale non rappresenta un’istanza di fondamentalismo arcaizzante, né una riedizione delle ideologie pauperistiche: no, rimettere al centro della nostra attenzione la koinonía significa riandare alle sorgenti dell’esperienza cristiana per riscoprire che il vero nome della povertà cristiana è condivisione fraterna, praticata nelle forme e nei modi che volta per volta si discerne come buoni. In questo senso anche lo stile di vita dei singoli e delle comunità cristiane deve essere eloquente e manifestare che si ama la semplicità, la povertà bella, e che questa è sempre garantita e rinnovata ogni giorno dalla condivisione con gli altri, con i poveri. Il cristiano è colui che si adopera per eliminare la situazione di bisogno che fa soffrire il suo fratello: questo avvenne nelle diverse forme di condivisione praticate dalle comunità primitive, questo è avvenuto lungo tutta la storia della chiesa, questo deve avvenire ancora oggi. Il cristiano infatti sa bene che, come amava ripetere Giovanni Crisostomo, “il ‘mio’ e il ‘tuo’ non sono altro che parole prive di fondamento reale. Se dici che la casa è tua, dici parole inconsistenti, perché l’aria, la terra, la materia sono del Creatore, come pure tu che l’hai costruita, e così tutto il resto”. Il cristiano sa che nel giorno del giudizio la sua fedeltà al Signore, che ha condiviso la nostra condizione umana, verrà pesata anche su questa condivisione fraterna, che è il nome comunitario dell’amore.
 
Enzo Bianchi
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