Usciti da una libreria, un teatro, una mostra verrebbe da chiedersi: che fine ha fatto, nella contemporaneità, la carità intellettuale e la cultura che da essa traeva nutrimento?
del 29 settembre 2017
Usciti da una libreria, un teatro, una mostra verrebbe da chiedersi: che fine ha fatto, nella contemporaneità, la carità intellettuale e la cultura che da essa traeva nutrimento?
In questo inizio ormai avanzato di millennio la cultura cattolica pare, a un osservatore un poco competente, in una stagione di crisi. Fatto in sé non nuovo, il quale eredita tensioni, contrasti e smarrimenti del Novecento, un secolo che lascia in eredità tanto il patrimonio e la lezione di grandi e grandissimi intellettuali, siano essi pensatori o artisti, ma anche, soprattutto con l'incedere pervasivo della secolarizzazione, un ritirarsi progressivo della cultura cristiana.
Non è un fenomeno solo cattolico: è noto che, finiti malamente la contestazione, la 'fantasia al potere' e le ideologie, è tutta la cultura occidentale alla ricerca di un proprio ruolo nel mondo, che non sia solo una posizione di rendita o, al contrario, il gusto dell'innovare o provocare per se stesso (archiviata l'esperienza delle avanguardie e delle postavanguardie finite senza più ossigeno).
Tuttavia, quella che appare oggi in una situazione ben poco fiorente è proprio la cultura di ispirazione cattolica, erede di millenni di civiltà, pensiero, arte, parole ispirate al Vangelo, alla vicenda di Gesù di Nazareth e alla storia, zoppicante ma anche gloriosa e solida, della Chiesa cattolica. È una crisi di senso, di finalità, forse anche di mezzi. In ultima analisi: una crisi esistenziale.
Verrebbe da chiedersi, usciti da una libreria, un teatro, una mostra: che fine ha fatto, nella contemporaneità, la carità intellettuale e la cultura che da essa traeva nutrimento?
Nel panorama odierno, tre sembrano i fenomeni presenti in ambito cattolico, tutti manifestazioni ultime di tendenze che durano da almeno cinquant'anni.
In primo luogo c'è il complesso d'inferiorità nei confronti della cultura laica, quasi non si potesse dire una parole cristiana che sia anche intellettuale, come se non ci fossero alle spalle cattedrali di pensiero. È un sentimento di vergogna, non di rado mascherato da falso rispetto, nei confronti di una supposta superiorità di tutto ciò che è laico. In questo vi è anche un tentativo di dialogo, buono nelle intenzioni, ma che può divenire un monologo laddove si rinunciasse a un umile, ma al tempo stesso consapevole, punto di vista cristiano.
Questo complesso di inferiorità si rintraccia spesso nelle iniziative culturali ufficiali, nelle terze pagine dei quotidiani e delle riviste 'cattoliche', nelle manifestazioni organizzate ad alto livello, quando si prova imbarazzo per una parola cristiana che non sia un generico richiamo al Vangelo, tanto annacquato da rimanere insapore; quando si fa riferimento a qualche buon valore umano; quando, in ultima analisi, ci si vergogna di Gesù Cristo. E allora si corre alla ricerca dell'intervento genericamente spirituale dell'intellettuale laico, della parola, dello spettacolo, dell'arte vagamente 'sacra', unendo tutto sotto un aggettivo che diviene di un'ambiguità sconcertante. Ci si adopera per scovare la piccola traccia cristiana nell'opera del pensatore o dell'artista che, spesso a favore di intervista, non disdegna di accontentare il pubblico cattolico. Opera ammirevole cercare il seme cristiano, ma un'operazione di tal fatta, se fine a se stessa, manifesta una scarsa fiducia nella cultura cattolica propriamente intesa, quasi essa possa essere legittima solo se poco appariscente o nascosta. È un rischio su cui metteva in guardia lo stesso Papa Francesco in Evangelii Gaudium [79], dove si legge del pericolo rappresentato da una «specie di ossessione per essere come tutti gli altri e per avere quello che gli altri possiedono».
Il secondo fenomeno è speculare al primo e si manifesta in un identitarismo muscolare, erede anche di un ventennio di progetti che alla fine hanno mostrato limiti evidenti, soprattutto nell'intendere la cultura come un semplice strumento per forme di egemonia anacronistiche. Si tratta di un ribadire a ogni piè sospinto il proprio carattere cattolico, apostolico, romano e ortodosso, in modo rumoroso e appariscente, ma spesso poco radicato nella prassi. È un fenomeno che produce un'apologetica battagliera, ma che si rivela non raramente stanca, sfibrata e priva di speranza, quasi che il 'ridotto' cattolico fosse l'unico modo per salvaguardare una presunta purezza originaria, ignorando (o fingendo di ignorare) quanto la cultura cristiana si sia trasformata nei secoli e come essa abbia trovato nel cambiamento forza e fecondità.
Infine vi è il fenomeno dell'autoreferenzialità compiaciuta e compiacente, spesso animata da tare che in ambito ecclesiale possono ritrovarsi in movimenti e associazioni intimoriti dall'oggi e illusi di avere trovato la verità, quasi essa non fosse stata rivelata duemila anni fa. Questa autoreferenzialità cattolica, pur generando iniziative lodevoli, ha il tarlo dell'occasione mancata: si leggono gli stessi autori, si citano gli stessi intellettuali, si ascoltano gli stessi relatori, si vedono le stesse mostre, si assiste agli stessi spettacoli degli stessi registi. Certamente la ripetizione dà sicurezza, ma a ben guardare il rischio della chiusura nei confronti della realtà esterna è grande: a una prospettiva saggiamente inclusiva se ne sostituisce una esclusiva, che divide e conia etichette, e priva spesso di esperienze esterne di valore.
A ben guardare, questo terzo fenomeno racchiude in sé elementi dei primi due, poiché da un lato di ribadisce un'identità forte che rassicura, mentre dall'altra si teme il confronto vero, come se non si avesse fiducia nei propri mezzi.
Rimane il sospetto che sottotraccia ci sia anche una certa ignoranza, che trascura la ricchezza di una robusta tradizione di pensiero e arte: è il problema dei classici, che oggi, forse, vengono visti come superflui. È il terreno faticoso della formazione, la quale è distillata in piccole dosi per seguire i tempi forsennati della contemporaneità.
Difficile abbozzare una proposta, ma forse è venuto il momento, in ambito culturale, di usare parresia, e provare almeno a sollevare il problema per suscitare il dibattito.
Oggi, a quasi vent'anni dall'inizio del secondo millennio, in un contesto di mutamento (non è un'epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca, ha detto più volte il Papa), globalizzazione, crisi economica e ancora di più crisi antropologica, una cultura cristiana (e cattolica) ha ancora qualcosa da dire e da dare: forse la strada è quella dell'identità dialogante, rispettosa di sé e degli altri, non impaurita e nemmeno ostile al mondo: forse è il tempo di una cultura che rinasca da una profonda consapevolezza della propria storia, con le sue luci e le sue ombre, che si ponga in modo sapiente nella tradizione a cui appartiene, che sappia osare profezia e sia animata da coraggio, che sia libera dalle contingenze e dalle strutture (che passano), che sappia essere trasparente nei mezzi; forse abbiamo davvero sete di una cultura che senta ancora lo zelo per una carità intellettuale che è, in fondo, «amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero» (Paolo VI).
Sergio Di Benedetto
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