Non so, miei cari giovani e venerati signori, non so se l'argomento di questa mattina debba per noi considerarsi come oggetto di dolore o di consolazione. Certamente se nella morte del Sacerdote Caffasso noi consideriamo la perdita di un benefattore della misera umanità, noi abbiamo gravi motivi di dolerci e piangere come colpiti da grave sciagura. Sciagura pei buoni, infortunio pei poveri, disastro pel clero, calamità pubblica per la religione.
Ma se giudichiamo questa perdita nel conspetto della fede noi abbiamo ragionevole motivo di cangiare l'affanno in consolazione, perciocchè se abbiamo perduto un uomo che ci beneficava sopra la terra, abbiamo ferma fiducia d'aver acquistato un protettore presso Dio in Cielo.
Difatti se noi diamo un'occhiata sopra la vita del Sacerdote Caffasso, sopra l'innocenza de' suoi costumi, sopra lo zelo per la gloria di Dio e per la saluto delle anime, sopra la tua fede, speranza, carità, umiltà e penitenza; noi dobbiamo conchiudere che a tante virtù sia stato compartito un gran premio, e che egli morendo non abbia fatto altro che abbandonare questi vita mortale piena di miserie, per volare al possesso della beata eternità.
Inoltre, secondo S. Paolo, le virtù dell'uomo mortale sono imperfette e sono neppur degne di essere paragonate colle celesti: perciò se la carità del Sacerdote Caffasso fu grande in terra, quanto più lo sarà ora che lo crediamo in Cielo? Quindi, se in terra egli ci beneficava come uno, in cielo ci beneficherà come dieci, come cento, come mille. Fortunati adunque coloro che poterono godere della carita di Don Caffasso quando era sopra la terra, ma assai più fortunati essi e quelli tutti che ora lo riconoscono protettore presso Dio in Cielo.
Affinchè siamo persuasi di quello che dico, vi prego di accompagnarmi colla vostra pietosa attenzione, mentre vi andrò esponendo le principali azioni della vita di quest'uomo maraviglioso. Dico di esporvi soltanto le principali azioni, perchè la maggior parte di esse sono ancora sconosciute, che col tempo però si andranno con diligenza raccogliendo a fine di farne glorioso deposito per la storia. Io pertanto mi limiterò a quelle sole cose che io stesso ho vedute, oppure udite. Queste pure debbo in parte tacere sia per tenermi alla brevità voluta in un discorso, sia perchè molte di esse mi cagionerebbero troppo grande commozione da cui forse mi sarebbe impedito di poterle esporre. Tuttavia stando pure alla brevità di un discorso e tenendomi al solo racconto delle cose per lo più note a quanti lo conobbero, credo che esse basteranno a persuaderci che il Sacerdote Caffasso Giuseppe visse una santa vita, cui tenne dietro una santa morte.
Sono questi i due pensieri che primi ci corrono alla mente ricordando questo caro e compianto amico; e questi due pensieri sono eziandio la materia del nostro trattenimento. Intanto mentre noi andremo ricordando le virtuose azioni e la preziosa morte del Sacerdote Caffasso, diremo che egli fu maestro di ben vivere e modello a tutti quelli che desiderano di fare una santa morte.
Accade a molti giovanetti che per lo sfortunato incontro di perversi compagni, o per la trascuratezza dei genitori e spesso ancora per la loro indole infedele alla buona educazione, dalla più tenera età diventano preda infelice del vizio, perdendo così l'inestimabile tesoro dell'innocenza prima di averne conosciuto il pregio e divenendo schiavi di Satanasso senza nemmeno aver potuto gustare le dolcezze dei figliuoli di Dio. Per B. Caffasso non fu cosi. Nacque egli nel gennaio del 1811 in Castelnuovo d'Asti da onesti contadini. La docilità, l'ubbidienza, la ritiratezza, l'amore allo studio ed alla pietà del giovinetto Caffasso, fecero sì che egli presto divenisse l'oggetto della compiacenza dei genitori e de' suoi maestri.
La cosa caratteristica fin da quella giovanile età era la sua ritiratezza congiunta ad una propensione quasi irresistibile a fare del bene al prossimo. Egli stimava giorno per lui il più felice quando poteva dare un buon consiglio, riusciva a promuovere un bene o ad impedire un male. All'età di dieci anni la faceva già da piccolo Apostolo in sua patria. Fu spesso visto uscire di casa, andare in cerca di compagni, di parenti e di amici. Grandi e piccoli, giovani e vecchi tutti invitavali a venire in casa sua, di poi accennava loro d'inginocchiarsi e fare con lui breve preghiera; poscia montava sopra una sedia, che per lui diveniva un pulpito, e da questa faceva la predica, cioè andava ripetendo le prediche udite in Chiesa, o raccontando esempi edificanti. Egli era di piccola corporatura, ed il suo corpo era quasi tutto nella voce; perciò ognuno al rimirare quel volto angelico, quella bocca da cui uscivano parole e discorsi cotanto superiori a quella età, andava pieno di maraviglia esclamando colle parole proferite da quelli che rimiravano il fanciulletto San Giovanni Battista: chi mai sarà questo fanciullo? Quis putas puer iste erit?
Voi, o Castelnovesi, che attoniti ascoltando il fanciullo Caffasso dimandaste chi egli sarà per essere; allora non lo sapevate, ma io adesso sono in grado di appagarvi. Quel fanciullo sarà modello di virtù nelle scuole, quello che i maestri proporranno come esempio di diligenza ai condiscepoli; sarà lo specchio di divozione, egli dovrà guidare tanti discoli sul cammino della virtù, confermare tanti buoni nella via del bene; egli sarà il padre dei poveri, la delizia dei genitori; egli sarà colui che in breve giungerà a tal grado di virtù da non conoscere più alcuna strada se non quella che conduce alla Chiesa ed alla scuola; egli sarà colui che dopo aver passato quindici anni nello studio e nella virtù risolve di darsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico; lavorare unicamente per la gloria di Dio; egli sarà colui che un giorno divenuto maestro del clero somministrerà molti degni ministri alla Chiesa e guadagnerà molte anime al Cielo.
Qui la brevità mi obbliga ad ommettere inciti fatti per tosto portarmi a quel momento per me fortunato che feci la prima personale di lui conoscenza. Era l'anno 1827, ed in Murialdo, che è borgata di Castelnuovo d'Asti, si festeggiava la Maternità di Maria SS. che era la solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa, o di chiesa, mentre altri erano spettatori o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.
Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Egli era appoggiato alla porta della Chiesa. Io ne fui come rapito dal suo sembiante, e sebbene io toccassi soltanto l'età di dodici anni, tuttavia mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gl'indirizzai queste parole: signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? io vi condurrò di buon grado ove desiderate.
Egli mi fe' grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se io era già stato promosso alla Santa Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili. Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi quasi per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l'offerta di accompagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novità.
Mio caro amico, egli ripigliò, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione che sono sempre nuove e perciò da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la chiesa per poter entrare.
Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: È vero quanto mi dite; ma v'è tempo per tutto; tempo di andare in chiesa, e tempo per ricrearci.
Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il programma delle azioni di tutta la sua vita: colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore; e di quanto avvi nel mondo, nulla deve più stargli a cuore se non quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime.
Allora rutto maravigliato volli sapere il nome di quel chierico, le cui parole, e il cui contegno cotanto manifestavano lo spirito del Signore. Seppi che egli era il chierico Giuseppe Caffasso studente del 1° anno di Teologia, di cui più volte aveva già udito a parlare come di uno specchio di virtù.
Se mai avessi tempo di venire ad un minuto racconto delle virtù luminose che egli fece risplendere negli anni del suo chiericato, sia quando viveva in patria, sia quando viveva in seminario a Chieri, quanti curiosi edificanti fatti vorrei esporvi! Dico solo che la carità verso i compagni, la sommessione ai superiori, la pazienza nel sopportare i difetti degli altri, la cautela di non mai offendere alcuno, la piacevolezza nell'accondiscendere, consigliare, favorire i suoi compagni, l'indifferenza negli apprestamenti di tavola, la rassegnazione nelle vicende delle stagioni, la prontezza nel fare catechismo ai ragazzi, il contegno ovunque edificante, la sollecitudine nello studio e nelle cose di pietà sono le doti che adornarono la vita clericale di D. Caffasso; doti che praticate in grado eroico fecero diventar familiare a' suoi compagni ed amici il dire, che il chierico Caffasso non era stato affetto dal peccato originale. - Giunto a questo punto io sono costretto di ommettere una lunga serie di fatti edificanti compiuti dal chierico Caffasso per aver tempo a dir qualche cosa della vita di lui sacerdotale.
Ma chi sei tu, io dimando a me stesso, che pretendi esporre le maravigliose gesta di questo eroe? Non sai che le più belle azioni di lui sono soltanto note a Dio? e non sai che le più dotte penne dovrebbero scrivere grossi volumi per parlare degnamente delle cose che son note al mondo? Lo sa: e vi assicuro che mi trovo come ragazzo che per fare un mazzetto di fiori entra in un giardino e lo trova in ogni angolo pieno di fiori così belli e svariati che rimane confuso e non sa che farsi. Così io volendo parlare delle virtu sacerdotali di D. Caffasso, non so nè dove cominciare, nè che cosa dir prima o di poi. Perciò mi limito a raccogliere e mettere insieme un piccolo serto delle virtù che egli fece in modo particolare risplendere nella sua vita sacerdotale pubblica, nella sua vita privata, e mortificata. Cominciamo dalla vita pubblica.
Il suo zelo, la sua facilità nell'esporre la parola di Dio; il buon successo delle sue prediche lo facevano cercare da tutte parti per dettar tridui, novene, esercizi spirituali e missioni al popolo di varii paesi. Egli coraggioso facevasi tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù Cristo. Ma dopo alcuni anni non potendo più reggere a così gravi e continue fatiche dovette limitarsi a predicare al clero, che pareva la porzione dell'umana società in modo speciale dalla divina provvidenza a lui affidata. E qui chi può enumerare il gran bene che ha fatto cogli esercizi spirituali; colle conferenze pubbliche e private; col somministrare libri, mezzi pecuniarii ai sacerdoti ristretti di mezzi di fortuna affinchè potessero compiere i loro studi, ed esercitare così degnamente il sacro loro ministero!
Appartiene alla vita pubblica di D. Caffasso la sollecitudine che egli prendevasi specialmente dei poveri giovanetti. Questi istruiva nelle verità delle fede; quelli provvedeva di abiti affinchè potessero decentemente intervenire alla chiesa, e collocarsi al lavoro presso ad onesto padrone; ad altri poi pagava la spesa dell'apprendimento, o somministrava pane finchè avesse potuto guadagnarsi di che campare colle proprie fatiche. Questo spirito ardente di carità cominciò a mettere in pratica quando era semplice borghese, e continuò quando fu cherico e con zelo raddoppiato fece vie più risplendere quando fu sacerdote. Il primo catechista di questo nostro oratorio fu Don Caffasso, e ne fu costante promotore e benefattore in vita e dopo morte ancora.
Appartengono alla vita pubblica di D. Caffasso le intere giornate che passava nelle carceri a predicare, confortare, catechizzare quegli infelici detenuti, ed ascoltarne le confessioni. Qui non so se sia degno di maggior lode il suo coraggio o la sua carità. Se non vogliamo dire che l'ardente sua carità inspiravagli coraggio eroico. Dei moltissimi atti di cui sono stato testimonio trascelgo il seguente; ascoltatelo, che è curioso.
Egli, per disporre i carcerati a celebrare una festa che occorreva in onore di Maria Santissima, aveva impiegata un'intiera settimana ad istruire ed animare i detenuti di un colloquio, ovvero camerone, ove erano circa quarantacinque de' più famosi carcerati. Quasi tutti avevano promesso di accostarsi alla confessione alla vigilia di quella solennità. Ma venuto il giorno stabilito niuno risolveasi a cominciare la santa impresa di confessarsi. Egli rinnovò l'invito, richiamò in breve quanto aveva loro detto nei giorni trascorsi, ricordò la promessa fattagli; ma fosse rispetto umano, fosse inganno del demonio od altro vano pretesto, niuno si voleva confessare. Che fare adunque?
La carità industriosa di D. Caffasso saprà che cosa fare. Egli ridendo si avvicina ad uno che a vista sembra il più grande, il più forte e il più robusto dei carcerati. Senza proferir parola, colle sue piccole mani lo piglia per la folta e lunga barba. Il detenuto da prima pensava che D. Caffasso facesse per burla, perciò in modo garbato, quanto si può aspettare da tale gente; mi prenda tutto, disse, ma mi lasci stare la mia barba.
- Non vi lascio più andare finchè non siate venuto a confessarvi.
- Ma io non ci vado.
- Ma io non vi lascio andare.
- Ma... io non voglio confessarmi.
- Dite quello che volete, voi non mi scapperete più, ed io non vi lascerò andare via finchè non vi siate confessato.
- Io non sono preparato.
- Io vi preparerò.
Certamente se quel carcerato avesse voluto, avrebbe potuto svincolarsi dalle mani di D. Caffasso col più leggiero urto, ma fosse rispetto alla persona, o meglio frutto della grazia del Signore, fatto sta che il prigioniero si arrese, e si lasciò tirar da D. Caffasso in un angolo del camerone. Il venerando Sacerdote si asside sopra un pagliericcio, e prepara il suo amico alla confessione. Ma che? In breve questi si mostra commosso, e tra le lacrime e tra i sospiri, appena potè terminare la dichiarazione delle sue colpe.
Allora apparve una grande maraviglia. Colui che prima bestemmiando ricusava di confessarsi, dopo andava a' suoi compagni predicando non essere mai stato cotanto felice in sua vita. Quindi tanto fece, e tanto disse che tutti si ridussero a fare la loro confessione.
Questo fatto, che scelgo tra migliaia di tal genere, sia che si voglia chiamare miracolo della grazia di Dio, sia che si voglia dire miracolo della carità di Don Caffasso è forza di conoscere in esso l'intervento della mano del Signore.
Il rimanente della vita pubblica di Don Caffasso lo vengano a raccontare quei molti sacerdoti e borghesi, ricchi e poveri, che a lui sono debitori chi della scienza, chi dei mezzi di acquistarla, chi. dell'impiego, o della felicità che gode in famiglia, chi del mestiere che esercita, e del pane che mangia.
Lo vengano a raccontare quei molti infermi da lui confortati, i moribondi assistiti, le lunghe schiere di penitenti d'ogni età e condizione che in ogni giorno e in ogni ora del giorno trovavano in lui un pio, dotto e prudente direttore delle loro coscienze.
Lo vengano a raccontare tanti infelici condannati all'ultimo supplizio, che datisi in preda alla disperazione non volevano saperne di religione; ma che assistiti, e direi, vinti dall'irresistibile carità di D. Caffasso morirono nel modo più consolante, lasciando morale certezza della eterna loro salute.
Oh! se il paradiso venisse a raccontarci la vita pubblica di D. Caffasso, sarebbero, io credo, a migliaia, a migliaia le anime che ad alta voce direbbero: se noi siamo salvi, se noi godiamo la gloria del cielo, ne siamo debitori alla carità, allo zelo, alle fatiche di D. Caffasso. Egli ci scampò dai pericoli, ci guidò per la via della virtù; egli ci tolse dall'orlo dell'inferno, egli ci mandò al Paradiso.
Ma sospendiamo di parlare della vita pubblica di D. Caffasso per trattenerci un momento intorno alla vita privata. Per vita privata intendo particolarmente l'esercizio delle virtù praticate nelle private sue occupazioni familiari, quelle cose che per lo più appaiono dappoco agli occhi del mondo, ma che forse sono le più meritorie davanti a Dio. E qui che lunga serie di fatti edificanti, di virtù luminose si presentano alla nostra considerazione! Quante mortificazioni, penitenze, astinenze, preghiere, digiuni, si compierono tra le mura di quella sua abitazione. Ogni momento libero dalle occupazioni del sacro ministero era impiegata nella prolungata udienza, che si può dire illimitata. Egli era sempre pronto a ricevere, consolare, consigliare, e confessare nella medesima sua camera. Talvolta era stanco a segno che non poteva più far sentire il suono della voce e non di rado egli doveva trattare con gente rozza che nulla capiva, o di m'Ha mostravasi appagata. Nondimeno era sempre sereno in volto, affabile nelle parole, senza mai lasciare trasparir una parola, un atto, che desse alcun segno d'impazienza.
Oh se le pareti di quel fortunato abitacolo potessero parlare, di quante virtù, di quanti atti di carità, di pazienza, di sofferenza, ci render ebbero gloriosa testimonianza! Sempre affabile, benefico, non lasciava mai partire alcuno da lui senza renderlo consolato con spirituali o temporali conforti, o almeno senza aver prima loro suggerito qualche massima utile per l'anima. La moltitudine di quelli che chiedevano di parlargli lo costringeva ad esser molto spedito. Perciò senza perdersi in complimenti o in cerimonie entrava subito in argomento e con una sorprendente disinvoltura al primo cenno comprendeva quanto gli si voleva dire e ne dava pronta, franca e compiuta risposta.
Ma ciò faceva con umiltà, con rispetto e con tale prestezza che una persona assai stimata non seppe altrimenti esprimere questa singolare prerogativa di D. Caffasso se non con queste parole: Ègli aveva niente per l'umanità, ma tutto per la carità.
Sapeva e lo andava predicando che ogni spazio di tempo è un gran tesoro, perciò approfittava di ogni momento e di ogni occasione per fare del bene. Nel salire o discendere le scale, nell'andare o venire dal visitare gli infermi o i carcerati, per lo più era sempre accompagnato da qualcheduno con cui trattava di cose del sacro ministero, o dava parole di conforto a persone che in altra guisa non avrebbero potuto parlare con lui.
Dopo la mensa avvi un po' di ricreazione. E questo era il tempo della maravigliosa scuola di D. Caffasso. Qui i suoi alunni succhiavano come latte la bella maniera di vivere in società; di trattare col mondo senza farsi schiavo del mondo; e diventar veri sacerdoti forniti delle necessarie virtù per formare ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio.
Ma niuna cosa è tanto maravigliosa nella vita privata di D. Caffasso, quanto l'esattezza nell'osservanza delle regole del convitto ecclesiastico di S. Francesco. Come superiore da più cose avrebbesi potuto dispensare, sia a motivo della sua cagionevole sanità, sia per la gravità e moltitudine dello occupazioni che in certo modo lo opprimevano. Ma egli aveva fisso nella mente che il più efficace comando di un superiore è il buon esempio, è il precedere i sudditi nel adempimento dei rispettivi doveri. Perciò nelle più piccole cose, nelle pratiche di pietà, nel trovarsi per le conferenze, alle ore della meditazione, della mensa, egli era come una macchina, che il suono del campanello portava quasi istantaneamente all'adempimento di quel determinato dovere.
Mi ricordo che un giorno per bisogno gli fu portato un bicchiere d'acqua. Già l'aveva in mano, quando udì suonare il campanello pel Rosario. Non bavette più, lo depose, e si recò immediatamente a quella pratica di pietà. Beva, gli dissi, e poi andrà ancora a tempo per questa preghiera. Volete, mi rispose, volete preferire un bicchiere d'acqua ad una preghiera così preziosa quale si è il Rosario che diciamo in onore di Maria SS.?
Parte della vita privata di Don Caffasso è quella segreta, ma continua mortificazione di se stesso. Qui si scorge un' arte grande usata da lui per farsi santo. Si giudica con fondamento che egli usasse il cilicio, mettesse oggetti per incommodarsi nel letto, facesse altre gravi penitenze. Lascio per ora queste cose da parte. Dico soltanto quelle che io, e tutti quelli che lo conobbero, abbiamo veduto. Comunque stanco non si appoggiava mai nè col gomito ne altrimenti per riposare. Non accavallava mai un ginocchio sull' altro; a mensa non diceva mai: questo mi piace più o meno; tutto era di suo gusto. Fin dalla più giovanile età aveva consacrato certi giorni ad atti particolari di mortificazioni. Il sabato era con rigoroso digiuno dedicato {29 [379]} a Maria SS. Ma che vo dicendo del digiuno del sabato, mentre che ogni settimana, ogni mese, l'anno intero erano per lui un rigido e spaventevole digiuno? Da prima egli diminuì il numero delle refezioni e si ridusse a mangiare una sola volta al giorno, e il suo vitto era una minestra ed una piccola pietanza. Alcuni al mirare tale prolungata austerità gliene fecero rispettoso rimprovero accennando al danno che avrebbe cagionato alla sanità. Si usi qualche riguardo, gli dicevano; se ciò non vuol fare per amor di sè, lo faccia pel bene degli altri. Egli ridendo rispondeva: godo miglior salute facendo così. Ma adducendogli lo sfinimento di sue forze che andavano ogni giorno diminuendo; tosto conchiudeva: O Paradiso! Paradiso! che fortezza e sanità tu darai a coloro che ci entreranno! Fosse intirizzito dal freddo, soffocato dal caldo, oppresso dal sudore, non mai ne cercava conforto, neppure si udiva proferire voce di lamento o di pena.
In ogni tempo dell'anno passava molte ore ad ascoltare le confessioni dei fedeli, e non di rado entrava in confessionale alle sei del mattino e ne usciva alle dodici. Lo stare immobile cosi lungo tempo anche quando il freddo è essai crudo faceva sì, che uscendo egli per recarsi in sacrestia traviava e doveva appoggiarsi di banco in banco per non cadere, e talvolta a metà della chiesa era costretto ad inginocchiarsi o porsi a sedere. A quella vista ognuno sentivasi commosso, e parecchi volevano a loro spese comperare uno sgabelletto calorifero, sopra cui appoggiasse i piedi, e così potesse ripararsi alquanto dalla crudezza della stagione.
Per timore che egli nol permettesse qualora ne fosse a lui fatta parola preventivamente, il cherico di sacrestia comperò tale sgabelletto ad insaputa del padrone e lo portò ai confessionale prima che egli vi giungesse. Appena vide quell'oggetto di agiatezza, come egli lo chiamava, lo respinse con un piede in un angolo del confessionale e dopo ordinò che più non si portasse dicendo: queste cose sono inutili, danno idea di troppo riguardo in un prete che non ne ha bisogno.
Gli si fecero varii riflessi, ma nè in questa nè in altre circostanze fu mai possibile di piegarlo a temperare quell'ardori; di penitenza, che certamente contribuì a consumare una vita cotanto preziosa.
Era alieno da ogni specie di divertimenti, a trentadue anni che io conobbi non lo vidi mai a prendere parte a giuoco di carte, tarocchi, scacchi, bigliardo od altro trastullo. Invitato qualche volta ad uno di questi divertimenti, ho ben altro a divertirmi, rispose. Quando io non abbia più alcuna cosa di premura andrò a divertirmi.
- Quando sarà questo tempo?
- Quando saremo in Paradiso.
Oltre il mortificare costantemente i sentimenti del corpo, era nimicissimo di ogni abitudine anche la più indifferente. Dobbiamo abituarci a fare del bene, e non altro, soleva dire. Il nostro corpo è insaziabile. Più glie ne diarno, più ne dimanda, meno gliene si dà, meno egli dimanda.
Quindi non si è mai voluto abituare al tabacco, nè a commestibili dolci, nè a bibite particolari ad eccezione di quelle ordinate dal medico. Nel corso de' suoi studi, in collegio, in seminario non volle far uso nè di caffè, nè di frutta a colezione ed a merenda.
Egli era da dieci anni al convitto ecclesiastico, era già prefetto di conferenza, e. la sua colezione consisteva tuttora in alcuni tozzi di pane asciutto. In vista delle dure fatiche da lui sopportate, un giorno gli dissi di prendere qualche cosa più confacente alla sua gracile complessione. Pur troppo, egli soggiunse con ilarità, verrà tempo in cui si dovrà concedere qualche cosa di più a questo corpo; ma non voglio appagarlo finchè non possa più farne a meno.
Soltanto alcuni anni dopo fu dall'ubbidienza costretto a temperare tale rigida maniera di vivere. Non ostante però la debole sua complessione, e la sua sanità cagionevole, non volle mai abituarsi ad alcun cibo particolare, anzi lo andò sempre diminuendo finchè, come or ora ho detto, sì ridusse ad una sola refezione al giorno, e refezione di una minestra e di una pietanza. Sebbene soggetto a molti incommodi non volle prolungare un momento l'ordinario suo riposo, che era di sole cinque scarse ore ogni notte. Onde nel crudo freddo di inverno, anche quando pativa malori di stomaco, di capo, di denti, per cui a stento reggevasi in piedi, egli prima delle quattro del mattino era già in ginocchio a pregare, a meditare, o disimpegnare qualche sua particolare occupazione.
Questo tenor di vita laboriosa, penitente, vita di preghiera, di carita, di stenti e di annegazione praticò fino alla morte, che venne a colpirlo nel momento che noi avevamo maggior bisogno di lui, nel momento da noi inaspettato, ma da lui atteso con calma, ed a cui tutta la vita fu una costante preparazione.
Ma tu, o tempo, perchè fuggi cotanto in fretta, e mi costringi a tacere tante cose ch'io vorrei ancora raccontare? Sebbene sia già alquanto prolungato il mio discorso, spero che vorrete ancora usarmi un momento di pazienza per ascoltare il racconto delle ultime ore del Sacerdote Caffasso. E questo farò dopo breve respiro.
Tiriamo un velo sopra gli avvenimenti che certamente contribuirono a privarci d'una persona cotanto cara, utile e preziosa. Diciamo solo che una vita così pura, cosi santa, còsi simile a quella del Salvatore, doveva pure essere con ingratitudine pagata da quel mondo, che nol conobbe; da quel mondo a cui vantaggio aveva impiegate le sue sostanze, la sua sanità, la sua vita. - Noi in ciò adoriamo i decreti della divina provvidenza.
È verità di fede che in punto di morte l'uomo raccoglie il frutto di quanto ha seminato nel corso della vita: quae seminaverit homo, hæc et metet. Ora Don Caffasso avendo vissuto una vita piena di buone e sante opere, buona e santa ne doveva essere la morte. Egli stesso aveva per detto familiare e spesso lo andava ripetendo specialmente nelle conferenze morali: fortunato quel prete che consuma la sua vita pel bene delle anime, fortunatissimo colui che muore lavorando per la gloria di Dio; egli avrà certamente una grande ricompensa da quel Supremo Padrone per cui lavora.
Ora colle stesse vostre parole diremo noi: fortunato voi, o Don Caffasso, che avete consumata l'intera vostra vita nel promuovere la gloria di Dio e la salvezza delle anime; voi fortunatissimo che terminaste la vostra vita in mezzo alle fatiche del sacro ministero.
Si crede con fondamente che egli abbia ricevuto da Dio speciale rivelazione del giorno e dell'ora di sua morte, e ne diede non dubbi segni a quelli che negli ultimi giorni ebbero la bella fortuna di potergli parlare. Egli era solito di aggiustare i suoi affari ogni giorno come se si trovasse alla vigilia di sua morte. E prima di coricarsi ogni sera disponeva le cose di casa come se quella notte fosse l'ultima di sua vita. Ma i tre giorni che precedettero la sua malattia, li passò quasi sempre chiuso in camera. Aggiustò ogni cosa che riguardasse il buon andamento del convitto. Diede gli ordini opportuni a' suoi famigli; rispose ad alcune lettere; ordinò ogni scritto; rnise a posto regolare ogni pezzetto di carta; noto alcune cose da aggiugnersi alle sue disposizioni testamentarie; poscia fece l'esercizio della buona morte che egli soleva fare inalterabilmente una volta al mese.
Intanto giunge il mattino del lunedi 11 giugno dell'anno corrente; e D. Caffasso che cosa fa? Egli ha ogni cosa aggiustata' , tutto è preparato pel suo viaggio all'eternità. Egli va passeggiando per la sua camera aspettando la voce del Signore che gli dica: vieni. Ma che? pensando allo stato di sue forze, gli pare di poter ancora impiegare alcuni momenti a vantaggio delle anime. Con animo allegro, ma con fatica, dalla camera si porta al confessionale e là impiega più ore nell'ascoltare le confessioni dei fedeli, di quei fedeli che egli con singolare dottrina, prudenza e pietà guidava per la via del cielo. Fu però osservato che il suo modo di confessare non era il Consueto. A tutti raccomandava di staccare il cuore dalle cose terrene; amar con tutte le forze Iddio creatore; pregarlo di toglierci presto dagli affanni della vita per darci il bel Paradiso. Oh Paradiso, Paradiso, disse ad un penitente, perchè tu non sei cercato, desiderato da tutti? perchè ritardi ancora, perchè, perchè...? Ma l'uomo vale per
un uomo; l'ardore di guadagnar anime a Dio continua in quell'anima grande; le forze però gli mancano. Egli è costretto di abbandonare quel confessionale ove per lo spazio di circa venticinque anni era stato fedele dispensatore dei celesti favori a prò di tante anime, e questo confessionale deve abbandonarlo per non ritornarvi mai più.
A passo lento si reca nella sua camera. Ma prima di porsi a letto s'inginocchia e dice queste memorabili parole che egli si teneva scritte: «Il dolore ch' io provo, o Signore, per non avervi amato, il desiderio che io sento vie più d'amarvi, mi rendono oltremodo noiosa e pesante questa vita, e mi sforzano a pregarvi a voler abbreviare i miei giorni sulla terra, e perdonarmi il purgatorio nell' altra vita, sicchè presto io possa andarvi a godere in paradiso...» Non potè più dire, e per non cadere sfinito andò a porsi a letto circa alle undici del mattino.
La malattia era un'affezione ai polmoni con corso di sangue allo stomaco. I medici praticarono quanto suggerisce l'arte loro, ma tutto invano. Quasi tutti i giorni loro sembrava che l'infermo fosse in via di miglioramento, ma in realtà, com'esso diceva, si andava avvicinando al momento di volare al cielo.
Fin dal primo giorno di malattia egli disse francamente che non guarirebbe più, e che voleva andarsene al Paradiso.
A chi gli domandava se stava meglio, se aveva riposato bene, rispondeva sempre: come Dio vuole. Si raccomandava alle preghiere di tutti. Mi disse un giorno di ordinare speciali preghiere in casa fra i nostri giovani. L'abbiamo già fatte, gli risposi, e continueremo a pregare; ma ho detto ai nostri giovani che voi sareste, poi venuto un giorno festivo a darci la benedizione col SS. Sacramento. State tranquillo, egli soggiunse: andate, pregate e dite ai vostri giovani, che vi benedirò tutti dal Paradiso.
Dimandato se aveva qualche cosa a fare scrivere, qualche memoria a prendere, commissione a lasciare, egli mi guardò ridendo e disse: sarebbe bella che avessi aspettato a quest'ora ad aggiustare le mie faccende. Tutto è aggiustato per me nel mondo; una cosa sola mi rimane ad aggiustare con Dio; ed è che nella sua grande misericordia voglia darmi presto il Paradiso.
Una singolarità era da tutti notata, ed era il ricevere colla solita bontà chiunque si avvicinasse al suo letto; ma dopo alcuni minuti dava segno che se ne partissero. Sicchè non voleva che alcuno si trattenesse con lui più del tempo richiesto dallo stretto bisogno. Per questo motivo io partendo lo stava qualche volta osservando dall'uscio della sua camera. Io lo vedeva giungere le mani, baciare e ribaciare il crocifisso, poi cogli sguardi volti al cielo parlare interrottamente come in discorso famigliare.
Da ciò potei convincermi che desiderava d'essere solo a fine di potersi più liberamente trattenere coi suo Dio. Tuttavia un giorno rimasto solo con lui mi feci animo a dirgli essere cosa migliore l'avere regolarmente persona presso al suo letto, sia per que' servigi che frequentemente gli occorrevano, sia anche per ricevere qualche parola di conforto. No, tosto rispose, no. Dipoi alzando gli occhi al cielo disse con forza: e non sapete che ogni parola detta agli uomini, è una parola rubata al Signore?
Eziandio quando la malattia gli minacciava la vita; nella stessa agonia amava di essere solo; anzi non dava segno di gradimento neppure quando gli erano suggerite giaculatorie, quasi che tali preghiere gl'interrompessero gli ordinari colloqui che egli certamente aveva con Dio. Diceva però a tutti di pregate per lui e di raccomandarlo alla protezione della B. Vergine e di S. Giuseppe. Una persona di grave autorità e che frequentò D. Caffasso nel corso della vita, lo visitò più volte nel corso della malattia, dopo averne esaminato attentamente il contegno, quanto diceva e faceva, proferì questo franco giudizio: {40 [390]} Egli, D. Caffasso, non ha bisogno dei nostri suggerimenti; egli è in diretta comunicazione con Dio, egli si trattiene in familiari colloquii colla madre del Salvatore, col suo Angelo Custode e con San Giuseppe.
Molte cose dovrei raccontarvi dell'ammirabile sua pazienza nel tollerare il male, delle parole indirizzate a' suoi amici, della benedizione data a molti, e specialmente a' suoi cari convittori; intorno al modo edificante con cui ricevette gli ultimi sacramenti; ma queste cose mi cagionano troppo grande commozione, e non potrei forse reggerne il racconto.
Vi dirò soltanto che confrontando la malattia e la morte del Sacerdote Caffasso con quella di S. Carlo Borromeo, di San Francesco di Sales, di S. Filippo Neri e di altri gran santi, parmi di poter asserire essere egualmente preziosa agli occhi di Dio. E come poteva essere altrimenti? Se fu santa la sua vita, perchè non doveva esserne del pari santa la morte?
Egli fu gran divoto di Maria, e fu costantemente promotore della divozione verso di questa madre celeste. Ogni giorno, e si può dire ogni momento, faceva qualche pratica o qualche giaculatoria in onore di Lei. Il sabato era giorno tutto di Maria. Lo passava in rigoroso digiuno; ogni cosa chiestagli in quel giorno era con prontezza conceduta. E molte volte aveva esternato il desiderio di morire in giorno di sabato. Spesso in vita andava dicendo e lo lasciò pure scritto: «Che bella morte morire per amor di Maria. Morire nominando Maria. Morire in un giorno dedicato a Maria. Morire nel momento più glorioso per Maria. Spirare tra le braccia di Maria. Partire pel Paradiso con Maria. Godere in eterno vicino a Maria».
O anima fortunata! i tuoi desiderii sono appagati; tu sei al decimoterzo giorno di tua malattia; è giorno di sabato; giorno di Maria; tu hai ricevuto da poche ore il sacratissimo corpo di Gesù. Or bene, Gesù ti chiama e vuole darti quel Paradiso che tanto desideri, per cui hai impiegata tutta la tua vita. Maria tua Madre, di cui fosti cotanto divoto in vita, ora ti assiste e ti vuole Ella stessa condurre al cielo. Ed ecco il nostro D. Caffasso fare un sorriso... egli manda l'ultimo respiro... L'anima sua con Gesù e con Maria vola a godere la beata eternità.
Noi speriamo fondatamente che dopo una morte cosi preziosa agli occhi di Dio l'animi di D. Caffasso abbia nemmeno toccato le pene del Purgatorio, e sia immantinente volata al Paradiso. Per questo motivo invece d'invitarvi a pregare per Lui, vi suggerirei piuttosto di ricorrere alla sua celeste intercessione. Ma siccome Iddio Santissimo e purissimo trova macchie negli Angeli stessi; così noi adempiendo un dovere di gratitudine e di amicizia offriamo a Dio qualche preghiera, qualche comunione, qualche limosina, qualche opera di carità in suffragio dell'anima del compianto nostro benefattore. Che se tali opere non saranno più necessarie per liberarlo dalle pene del Purgatorio, serviranno a suffragare quelle anime purganti al cui sollievo cotanto lavorò nella vita mortale, e che tanto raccomandò di suffragare.
Animo, uditori, ancora un momento. Tra le ultime parole di D. Caffasso sono le seguenti, e sono veramente degne di eterna ricordanza. «Quando sarò disceso nel sepolcro, egli disse, desidero e prego il Signore di far perire sulla terra la mia memoria, sicchè mai più nessuno abbia a pensare a me fuori di que' fedeli che nella loro carità vorranno, siccome spero, pregare per l'anima mia. Io accetto in penitenza de' miei peccati tutto quello che dopo la mia morte nel mondo si dirà controdi me».
Caro D. Caffasso, questa vostra preghiera non sarà esaudita; voi desideravate d'umiliarvi in modo che la vostra gloria andasse con voi nella tomba. Ma Dio vuole altrimenti. Dio vuole che la grande vostra umiltà sia esaltata, e voi siate coronato di gloria in cielo. La vostra memoria è quella del giusto che durerà in eterno. In memoria æterna erit justus.
La vostra memoria durerà presso i sacerdoti perchè foste loro modello nella santità della vita, e maestro nella scienza del Signore. La vostra memoria durerà presso ai poveri che piangono la vostra morte come quella d'un tenero padre; durerà presso ai dubbiosi cui deste santi e salutari consigli; presso gli afflitti, cui in tante guise avete portato consolazione; durerà presso gli agonizzanti da voi confortati; nelle carceri ove sollevaste tanti infelici; presso a tanti condannati che la. vostra carità mandò al cielo. Durerà presso i vostri amici, e vostri amici sono tutti quelli che vi hanno conosciuto; presso a tutti quelli che stimano i grandi benefattori dell'umanità quale foste voi in tutto il corso della vostra vita mortale.
Infine la vostra memoria durerà tra di noi, perchè la carità che aveste per noi in terra ci assicura che voi siate nostro protettore presso Dio, ora che siete glorioso in cielo. Vivi adunque in eterno con Dio. o anima grande, anima fedele. Il tempo de' patimenti per te è trascorso; non più pene, non più afflizioni, non più malattie, non più dispiaceri, non più morte, non più. Dio è tua mercede; tu sei in lui; e con lui e presso di lui godrai ogni bene in eterno. Maria, quella celeste madre che cotanto amasti e facesti amare in terra, ora ti vuole presso di sè per darti la debita ricompensa del filiale affetto che le hai portato. Ma dal mezzo di tua gloria, deh! volgi pietoso uno sguardo sopra di noi, che colla tua partenza dal mondo rendesti miseri ed orfani. Deh! per noi intercedi, e fa che vivendo secondo i consigli che ci hai dati, seguendo i luminosi esempi di virtù che ci hai lasciati, possiamo noi pure un giorno pervenire al possesso di quella gloria che con Gesù e con Maria, con tutti i Santi del Paradiso si gode per tutti i secoli de' secoli. Cosi sia.
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