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Don Bosco con i suoi ragazzi

Don Bosco fu grande educatore. Ricco di una spiritualità autentica e completa ma semplice, tutta sostanziata di buon senso e di carità, fu esempio vivente dell'amore educativo cristiano. Lo possiamo notare anche dalle sue conversazioni con i ragazzi di Valdocco e dalle battute scherzose ed argute con le quali infiorava il suo parlare con loro.


Don Bosco con i suoi ragazzi

da Don Bosco

del 12 gennaio 2011

 

          Don Bosco fu grande educatore. Lo possiamo notare anche dalle sue conversazioni con i ragazzi di Valdocco e dalle battute scherzose ed argute con le quali infiorava il suo parlare con loro. 

 L’arte di San Rafaél

           Tipiche a Valdocco erano le cosiddette «Buone Notti» di Don Bosco, e cioè quei sermoncini che egli soleva rivolgere ai giovani dopo le preghiere della sera. Salito su di una piccola cattedra nel porticato adiacente alla cappella di San Francesco di Sales, indicava prima gli oggetti smarriti nella giornata e fatti da lui raccogliere in giro per la casa: una matita, un temperino, un berretto, un indumento personale di qualche ragazzo; poi dava disposizioni per il giorno seguente e infine un buon pensiero magari accompagnato da un esempio.            Molte di quelle Buone Notti furono annotate da giovani salesiani e furono poi riportate nelle ben note Memorie Biografiche. Dunque, il 7 novembre del 1872 Don Bosco annunciò che due giovani erano stati allontanati per cattiva condotta e disubbidienza. Invitò poi a consegnare ogni oggetto rinvenuto, aggiungendo: «Alcuni, purtroppo, cominciano ad esercitare l’arte di sanrafaél sui libri dei compagni.            Guai, guai a chi comincia così. Finirà come un tale di questa casa che cominciò dai libri e poi, via via, divenne un ladro matricolato, finché, colto sul fallo, fu cacciato ignominiosamente» (MB 10,1035). L’arte di sanrafél è un modo di dire piemontese (fé San Rafaél) che significa «rubare». San Raffaele proprio non c’entra se non per l’assonanza che questo nome fa con «rafé» che in piemontese significa arraffare, rubacchiare.            È, quindi, una espressione buffa usata da Don Bosco per far sorridere gli innocenti e far riflettere i colpevoli con la sua caratteristica arguzia e bonarietà popolare.   I passeri non lavorano            Lo scherzo e la narrazione di fatti ameni fluivano sempre sulle labbra di Don Bosco. Fu questo un carattere permanente nella sua conversazione con i ragazzi anche in mezzo alla spine più dolorose e ai dispiaceri più gravi.            Un giorno un giovane gli fece notare: «Spiegando il Vangelo il predicatore ci disse che i passeri non lavorano, non fanno nulla, eppure Iddio provvede loro di tutto perché possano mangiare e... vestirsi! Non è una bella cosa? » E Don Bosco prontamente: «Ma il Signore, mio caro, li lascia anche ingrassare e poi andar a friggere in padella per servire di cibo a chi lavora!» (cf MB 17,559).   Sull’«imperiale»            Anche nelle sue lettere Don Bosco non manca di includere delle arguzie, in particolare quando scrive ai suoi giovani, come nel caso del 21 luglio 1862. In quel giorno ai giovani dell’Oratorio scrisse da Lanzo, narrando loro la sua avventura in diligenza sotto la pioggia.            Si era recato, come al solito, agli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio. Era stato un viaggio sotto la pioggia. Occorre tener presente che Don Bosco soffriva il viaggio in carrozza e quindi, in quell’occasione, era stato costretto a prendersi un posto allo scoperto sopra la vettura, posto che si chiamava l’«imperiale ».            Ed ecco le sue parole: «Io ero sull’imperiale ma tutt’altro che da imperatore. Con me vi erano parecchi altri. Tenevansi aperti due ombrelli, i quali riparavano coloro che li tenevano in mano, ma io che ero in mezzo al sedile, non avevo altro benefìcio se non quello di ricevere lo scolo o meglio lo scarico di acqua di ambedue gli ombrelli, sicché giunsi a Lanzo senza un filo di abito asciutto, gelato pel freddo. Voi, o cari giovani, avreste veduto Don Bosco discendere dalla vettura tanto inzuppato, simile a quei grossi sorci che spesso vi accade di osservare uscire dalla bealera dietro il cortile» (cf E 267).   Quella è l’«università» di Don Bosco            Curioso è il sapere che un maestro ed educatore impareggiabile come Don Bosco non possedeva alcun titolo di studio. Nell’anno scolastico 1943-44 lo scrivente si trovava a Castelnuovo Don Bosco. Andavo spesso in Val Martina alla cascina del Sig. Giovanni Andriano, dove suo fratello, il Canonico Angelo, professore al Seminario di Giaveno, passava periodi di riposo.            Da questi potei apprendere un particolare inedito sulla... università dove Don Bosco aveva fatto gli studi. I fratelli Giovanni ed Angelo erano due dei dieci figli di quel Luigi Andriano che Don Bosco, novello sacerdote, aveva battezzato a Castelnuovo il 27 giugno 1841, facendo pure da padrino. Luigi conosceva bene la famiglia Bosco perché abitava con i genitori in Val Martina, in una casa a ridosso della «Renenta» sotto il «Sussambrino», dove dal 1830 al 1839 abitò, con la madre, Giuseppe Bosco, fratello del Santo.            Giovanni, allora studente e chierico a Chieri, alloggiava nelle vacanze presso il fratello al Sussambrino ed aveva libertà di darsi interamente ai suoi libri. Non volendo però essere di peso al fratello, conduceva le vacche al pascolo e prestava il suo aiuto nella coltivazione del podere. Alle volte si appartava nella vigna vicina della famiglia Turco e faceva la guardia all’uva con il libro in mano. Soleva anche salire in cima alla collina e passarvi molte ore della giornata all’ombra degli alberi dedicandosi agli studi.            Don Bosco, quando portava i giovani in gita ai Becchi e nel paesi del Monferrato, doveva passare davanti al Sussambrino. Quando arrivava, Luigi Andriano correva presso la spalletta del ponte all’incrocio della strada con Buttigliera in modo da incontrare il gruppo e soprattutto il padrino. Don Bosco allora indicava ai suoi ragazzi le piante del Sussambrino e diceva loro: «Cola là a l’é l’università ’d Don Bòschi» (Quella là è l’università di Don Bosco).            E pensare che in quegli anni a Valdocco si faceva un gran parlare del ch. Francesia e di altri che dovevano frequentare l’Università di Torino (Natale Cerrato, Car ij mè fieuj, 2ª ed., p. 36). 

 

Natale Cerrato

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