Don Bosco e Padre Puglisi

Due esempi di educatori che hanno saputo parlare al cuore dei giovani e che hanno davvero molti punti in comune...

Don Bosco e Padre Puglisi


Nicola Filippone

tratto da: http://www.beatopadrepuglisi.it/

 

Due esempi di educatori che hanno saputo parlare al cuore dei giovani e che hanno davvero molti punti in comune...

 

lI Beato padre Pino Puglisi e San Giovanni Bosco: due esempi di educatori che hanno saputo parlare al cuore dei giovani. Il 28 novembre 2015 si è tenuto un incontro con i ragazzi dell'Istituto don Bosco a Palermo per fare memoria del martire ucciso dalla mafia: il parallelo tra i due sacerdoti è emerso sia negli interventi del preside, professor Nicola Filippone, ideatore dell'iniziativa, che in quelli del giornalista Francesco Deliziosi, ex alunno e collaboratore a Brancaccio del Beato nonché autore della biografia "Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso" (Rizzoli). In particolare Deliziosi ha analizzato il metodo pedagogico di Puglisi, applicato tra i banchi del liceo Vittorio Emanuele II (dove ha insegnato dal 1978 al 1993) e poi anche come parroco impegnato nel riscatto dei giovani emarginati delle periferie palermitane. Filippone ha messo in evidenza le affinità tra quanto faceva Don Giovanni Bosco per il recupero dei ragazzini e le esperienze di sostegno ai giovani disagiati intraprese da padre Puglisi soprattutto a Godrano e a Brancaccio. A conclusione dell'incontro Deliziosi ha letto una preghiera scritta da padre Puglisi sotto forma di invocazione a Don Bosco perché protegga i docenti e tutti i giovani che gli erano stati sempre così cari. 
Il preside del Don Bosco ha adesso messo a fuoco il parallelo tra i due sacerdoti in un saggio scritto per il blog che state leggendo. Ecco il testo, ricchissimo di spunti di riflessione, per studenti e insegnanti, sul grandissimo carisma che accomuna i due educatori. Ma non solo, in comune c'erano anche due scelte controcorrente: essere poveri e allegri.

 

L’educazione: una componente essenziale dell’evangelizzazione.

“Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore. Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare […] Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere”. Questo il giudizio che don Luigi Ciotti esprime nella prefazione al bel libro di Francesco Deliziosi Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso. Ciononostante biografi e studiosi si sono finora soffermati prevalentemente sulla sua figura di sacerdote, sul precipuo ruolo di evangelizzatore svolto da lui, con particolare riferimento alle due realtà più impegnative del suo apostolato: Godrano e Brancaccio. Anche il processo di beatificazione ha ampiamente argomentato che il sacrificio di 3P deve considerarsi martirio in quanto “testimonianza” di un ministero vissuto con pienezza di fede e assoluta coerenza. In tal senso egli ha configurato la sua vita a Cristo, eterno sacerdote, fino a condividere con lui il peso della croce. Puglisi non è un prete antimafia, ma è “Cosa nostra” che gli si oppone, perché teme la potenza del Vangelo da lui annunziato e la sua capacità di suscitare scompiglio nelle coscienze e conversione nei cuori.[1]

Il tema dell’educazione merita invece un approfondimento, perché, oltre ad essere congeniale alla persona di Pino Puglisi, ex alunno dell’istituto magistrale “De Cosmi”, che mostra sin dall’adolescenza il suo desiderio di dedicarsi ai giovani, è consustanziale al ministero sacerdotale, al munus docendi, consegnato da Gesù agli apostoli il giorno dell’Ascensione: “Ammaestrate tutte le genti e battezzatele”.[2] Ancor prima dell’amministrazione dei sacramenti, dunque, il dovere del presbitero si esplica nel suo essere maestro ad imitazione di quello divino. La trasmissione della fede avviene allora all’interno di un procedimento intellettuale, poiché il cristiano è chiamato a capire ciò in cui crede (intellego ut credam, credo ut intellegam). La comunità dei primi secoli comprese molto bene questo, tanto che il quinto canone del sesto concilio di Costantinopoli (680-681) stabilì l’obbligo per i sacerdoti di insegnare senza richiedere alcun compenso. Ancora oggi si chiama “magistero” l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, che hanno sempre affiancato la Scrittura nell’elaborazione della dottrina cattolica[3]. Da questo modo di concepire l’annuncio della rivelazione è nata quella che comunemente chiamiamo “cultura cristiana” e non è certamente un caso che le prime scuole (scholae) siano nate in seno al cristianesimo e che “scolastica” sia la più grande e famosa filosofia medievale. E anche in età comunale, nonostante il contributo dato in favore della istruzione laica dalle corporazioni, cui si deve la nascita delle prime università, l’istituzione ecclesiale mantenne la facoltà di rilasciare la licentia docendi.

La Chiesa tridentina, incalzata dal luteranesimo che accusava i ministri cattolici di sconoscere le Scritture, si buttò a capofitto nell’istruzione dei fedeli, istituendo i seminari e pubblicando corsi di preparazione religiosa, i catechismi, dovuti all’impegno di maestri quali Roberto Bellarmino e Pietro Canisio. Nacquero anche ordini religiosi dediti all’educazione dei giovani come i Barnabiti, le Orsoline, gli Oratoriani, gli Scolopi e i Gesuiti, questi ultimi con una particolare attenzione in Europa ai futuri sovrani, che avrebbero potuto così garantire l’identità cristiana dei loro Stati.

L’età contemporanea coincise con la secolarizzazione della società occidentale, preceduta da una laicizzazione culturale che coinvolse anche l’educazione, come si nota nei trattati di autori quali Rousseau, Pestalozzi, Frobel. Nella Francia napoleonica si intensificarono le scuole statali che ben presto si diffusero nel resto del continente. Nel 1815 Bonaparte veniva sconfitto a Waterloo e a Vienna gli Stati vincitori si riunivano per “restaurare” l’Europa dagli sconvolgimenti causati dal deposto imperatore dei Francesi. Lo stesso anno nasceva in Piemonte Giovanni Bosco, che da sacerdote avrebbe dedicato la sua vita ai giovani, fondando i Salesiani ed attuando il sistema preventivo, un’autentica rivoluzione copernicana nel campo dell’educazione. La grande intuizione di don Bosco consiste nell’avere superato un metodo basato sulla repressione, e dunque sostanzialmente sanzionatorio, con un approccio teso a scongiurare il castigo, prevenendo lo slittamento verso il male. L’educatore assumeva così una centralità mai avuta e il suo ruolo si concretizzava nell’assistere il giovane, individuando prima di lui il pericolo “per porvi tosto rimedio”. Questo sistema poggia innanzitutto sulla ragione, sulla necessità di argomentare le decisioni, di spiegare le scelte, di analizzare le situazioni con lucidità e realismo. “Don Bosco, scrive Biagio Amata, intuì che la forza della ragione aveva un notevole peso nell’instaurare un rapporto autentico con i giovani, ma era tuttavia insufficiente da sola a guidarli sulla via del bene operare. Altrettanta forza poteva e doveva avere (per lui sacerdote della Chiesa cattolica) la forza della religione, che apriva persino l’intimo della coscienza all’opera formatrice della grazia e dell’educazione cristiana. Ma anche questa forza non appariva sempre efficace. La ragione e la religione hanno bisogno di una terza decisiva leva, cioè il calore del nido familiare […] Un amore che racchiude le dimensioni e la carica di una madre, di un padre, di un fratello, di un amico non desta sospetti e irrigidimenti, allontana pregiudizi e incomprensioni, elimina le distanze generazionali”[4].

Nel panorama pedagogico del Novecento spicca la figura di Maria Montessori, ma non si può prescindere dal contributo di un altro grande sacerdote italiano, Lorenzo Milani, che da Barbiana, impartisce lezioni ai suoi allievi che apriranno nuove prospettive alla scuola.

Si può allora affermare che l’educazione è componente essenziale dell’evangelizzazione e, tornando a padre Puglisi, che essa ha dato ai suoi carnefici il movente principale per assassinarlo, come ha spiegato Luigi Patronaggio, uno dei magistrati che hanno indagato sull’omicidio: “Ma perché è stato ucciso don Puglisi? Fondamentalmente perché era un evangelizzatore, nel senso che educava alla cultura del Vangelo, educava alla cultura della legalità, educava alla cultura della partecipazione, educava a superare il male attraverso il bene”.[5]

 

La povertà

Confrontando le vite di 3P e di don Bosco emergono delle interessanti somiglianze sulle quali è utile soffermarsi.

Innanzitutto la povertà che per entrambi non è la mera osservanza di un voto, ma una radicale scelta di vita ritenuta indispensabile per potere servire in toto Cristo e i fratelli. Giovanni Bosco diviene sacerdote il 5 giugno 1841 e subito scolpisce nel suo cuore il forte richiamo della madre, Margherita Occhiena: “Se per sventura diventerai ricco non metterò mai più piede a casa tua”. Questo impegno, quale programma del suo ministero, sottende pure il motto dello stemma salesiano Da mihi animas, coetera tolle.

Don Pino è ordinato presbitero il 2 luglio 1960, l’epoca è completamente cambiata, anche il ruolo del prete nella società non è più quello di una volta, ma a distanza di oltre cento anni rimane valido il principio per il quale la Chiesa è credibile se si mantiene povera, soprattutto nel sud dove spesso il ricco è identificato con il padrone. Un sacerdote sarà un vero pastore, un autentico testimone della carità cristiana, se non è succube dei potenti, ma protegge il debole e soccorre l’indigente, se non segue i sentieri della mondanità, ma abbraccia e pratica la virtù dell’umiltà. Un anno dopo la sua ordinazione padre Puglisi partecipa ad un corso di esercizi spirituali a San Martino delle Scale di cui ha lasciato un quaderno di riflessioni sul quale leggiamo: “Qui sequitur me  habebit lumen vitae. Seguiamolo dunque nel distacco [sottolineato nell’originale manoscritto] dalle ricchezze: il figlio dell’uomo non ha dove poggiare il capo; semplicità e povertà si addicono alla casa del sacerdote; con tanta miseria che c’è non può essere ricercato, ricco. Seguiamolo nell’umiliazione: umiliavit seipsum usque ad mortem. L’umiltà di cui è figlia l’ubbidienza è virtù necessaria, l’umiliazione accettata con spirito soprannaturale ne è la pratica”. Chi ha frequentato la canonica di Godrano si è convinto che il parroco seguiva la povertà francescana, teneva cene frugali basate su quanto i fedeli gli offrivano. Per Lia Cerrito “provvedere al proprio mantenimento non rientrava tra le sue preoccupazioni”.[6]

Le grandi riforme avvenute in seno alla Chiesa, dalle quali ha ricevuto nuovo vigore ed entusiasmo per superare le crisi, sono sempre partite da uomini tornati alla povertà del Vangelo. Anche oggi non si può non riconoscere nello stile di Francesco l’azione ispirata di un Pontefice che ha fatto della povertà il tratto caratterizzante il suo magistero. Per il Papa “la povertà non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse, la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua incarnazione”.[7] Queste parole insegnano che essere poveri non è una strategia, un modo pratico col quale liberarsi dalle distrazioni del mondo per dedicarsi totalmente alla propria missione, ma è la configurazione a Cristo, che è ontologicamente povero, che non vuol dire misero, ma spogliato di se stesso per amore (kenosi). Di contro nella ricchezza terrena, e più ancora nello spregiudicato attaccamento dell’uomo ad essa, può scorgersi l’opera del demonio. Luca narra il tradimento di Giuda specificando che i trenta denari vengono concordati dopo che Satana è entrato in lui, è per il diavolo dunque che i soldi valgono più di una persona.[8]

In una Brancaccio afflitta dalla miseria e dal degrado, l’esempio di 3P stride con i facili guadagni con cui la malavita adesca i giovani del quartiere. Salvatore Grigoli ha ammesso di essere diventato un assassino “perché ciò gli garantiva denaro, donne, autovetture, motociclette e soprattutto uno status”.[9] Don Pino, invece, “era un prete senza conto in banca, con le tasche vuote e la casa (popolare) piena di libri di filosofia e psicologia. Donava tutto il suo tempo agli altri e aveva lo scaldabagno rotto e i rubinetti che schizzavano acqua dappertutto. Gli proposero gli incarichi più gravosi, scartati da tutti e lui li accettò. Poi gli offrirono chiese ricche, posti di prestigio e lui li rifiutò. ‘Non sono all’altezza, rimango qui tra i poveri’, disse”.[10]

Don Bosco e don Puglisi rinunciarono anche alle lusinghe della vanità e del prestigio personale, che talora irretiscono gli uomini di Chiesa spacciandosi per dignità o decoro. Quando don Bosco incontrò per la prima volta Pio IX nel 1858 ricevette da questi la proposta di nominarlo monsignore, dopo averlo ringraziato don Giovanni rispose: “Santità, che bella figura farei io quando comparissi in mezzo ai miei ragazzi vestito da monsignore! I miei figli non mi riconoscerebbero più; non oserebbero avvicinarmi e tirarmi da una parte e dall’altra come fanno adesso […] Oh, quant’è meglio che resti sempre il povero don Bosco!”. Anche 3P disdegnava le onorificenze, chi lo frequentava ricorda ancora che se qualcuno provava a chiamarlo monsignore egli rispondeva irritato “A to patri!”.

 

Il sistema preventivo

Padre Puglisi conosceva bene il sistema preventivo di don Bosco, lo studiava e lo applicava, come risulta dai suoi numerosi appunti.[11] È interessante notare che essi, in quanto sacerdoti, portatori di misericordia, preferivano lo stile educativo di prevenzione a quello repressivo, sebbene i loro fossero ragazzi apparentemente già vittime dei peggiori mali sociali. Verrebbe spontaneo pensare che i destinatari di un tale approccio debbano invece essere dei giovani ancora integri e che il fine dell’educazione sia appunto preservarli dalle insidie e dai rischi. Mentre per quelli che vivono nel degrado o nella miseria, che non hanno più una famiglia o se ce l’hanno è teatro di abusi e violenze, che sono impediti a studiare e spesso cadono nella trappola degli sfruttatori che li iniziano alla delinquenza, sembrerebbe non esserci altra soluzione che il carcere o il riformatorio. Don Bosco e 3P agiscono diversamente e sfidano anche le convinzioni più inveterate di confratelli e superiori, di autorità e gente comune. La loro opera educativa si è basata sul “lievito che operava la trasformazione delle anime giovanili: l’amore”.[12] In quest’ottica non esistono soggetti irrecuperabili, ma anche nel più disgraziato c’è un punto accessibile al bene,[13] bisogna cercare quella corda sensibile del cuore e farla vibrare.[14] Educare non vuol dire solamente insegnare, ossia segnare il giovane instillandogli contenuti, ma trovare il bene insito in lui per estrarlo ed apprezzarlo. Il percorso ricorda la maieutica di Socrate per il quale il maestro non deve rivelare la verità, ma assistere il discepolo a partorirla. Il richiamo al grande filosofo ateniese è stato fatto indirettamente da don Puglisi che, racconta Deliziosi, si paragonò una volta a un’ostetrica, che non genera ma aiuta a generare.[15] Da questo punto di vista la repressione non può risultare efficace, specialmente nei casi di gravi carenze affettive, esattamente quelli trattati da don Bosco e don Puglisi. “Il cuore giovanile, infatti, si chiude e si ribella dinanzi alla fredda disciplina, ma si arrende e si apre, non pone resistenza alla benevolenza, alla bontà, all’amore”.[16] È chiaro che questo metodo è molto difficile e impegnativo, come riconosce il suo stesso inventore: “Il sistema repressivo consiste nel far conoscere la legge ai dipendenti e poi sorvegliarli per individuarne i trasgressori ed infliggere, ove sia necessario, la giusta punizione. Con questo sistema le parole e l’aspetto del superiore devono essere severe e piuttosto minacciose ed egli deve evitare ogni familiarità con i dipendenti […] Questo sistema è facile, meno faticoso e serve specialmente nel mondo militare e in genere tra le persone adulte e mature […] Diverso e direi opposto è il sistema preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un istituto e poi sorvegliare in modo che gli allievi abbiano sempre su di loro l’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e correggano amorevolmente”.[17]

Per superare le difficoltà occorrono preparazione, studio ma anche talento, come ricorda don Ciotti all’inizio di questo scritto. In un recente convegno tenuto allo Steri di Palermo[18] Giorgio Chiosso ha spiegato che don Bosco non fu un pedagogista ma un educatore, nel senso che non teorizzò ma sperimentò e adottò un sistema educativo.

Il sacerdote piemontese narra che tutto ebbe inizio l’8 dicembre 1841 nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Torino, dove intonò “la melodia della sua vita”.[19] Mentre sta preparandosi alla celebrazione della messa si accorge che il sacrestano non lesina bastonate ad un manovale sorpreso a rubare in chiesa. Egli strappa il giovane alle percosse del suo assalitore indicandolo come amico, quindi lo invita ad assistere alla liturgia che sta iniziando. Al termine tra i due avviene un celebre dialogo che don Bosco riferisce così:

- Mio buon amico, come ti chiami?

- Bartolomeo Garelli.

- Di che paese sei?

- Di Asti.

- Che mestiere fai?

- Il muratore.

- È vivo tuo papà?

- No. È morto.

- E tua mamma?

- È morta anche lei …

- Quanti anni hai?

- Sedici.

- Sai leggere e scrivere?

- No.

- Sai cantare?

- No.

- Sai fischiare? - Bartolomeo si mise a ridere. Era ciò che volevo. Cominciavamo ad essere amici.[20]

Don Bosco aveva così toccato la corda sensibile al bene e l’aveva fatta vibrare. Il dialogo procede fino a quando Bartolomeo promette al suo nuovo amico che tornerà a seguire il catechismo per poter fare al più presto la prima comunione. Un episodio molto simile a questo è capitato nell’esperienza pastorale di 3P a Godrano e riguarda il piccolo Giovanni, figlio di una vittima della locale faida di mafia. Il giovane, la cui madre lavorava a Palermo come cameriera, fu sorpreso dai carabinieri con la cassetta delle offerte rubata in chiesa. Don Pino provò invano a convincere i militari a consegnarglielo, spiegando loro che condurlo in carcere sarebbe equivalso “ad iscriverlo all’università del crimine”.[21] Successivamente, ottenuta la libertà provvisoria, il parroco avvicinò il ragazzo e lo aiutò economicamente. “Per mesi e mesi non gli levò più lo sguardo di dosso. Parlarono a lungo, Giovanni diventò il suo allievo preferito e lasciò perdere i furti. Quando gli altri adolescenti, non gradendo tutte queste attenzioni, iniziarono a mormorare: Ma come? Lui ruba in chiesa e viene trattato meglio di noi? Padre Pino consigliò a tutti di andarsi a rileggere la parabola della pecorella smarrita”.[22]

          

Il più palermitano tra i Santi

Il sistema preventivo di don Bosco ha una duplice finalità: rendere i ragazzi buoni cristiani ed onesti cittadini. Sono le stesse mete cui padre Puglisi dedicò le sue energie e che raggiunse con molti dei suoi allievi, formatisi ad una formidabile scuola di coscienza e rettitudine. 3P pagava le tasse perfino sul ricavato delle lotterie organizzate per la beneficenza della parrocchia. Il quartiere sconosceva le più elementari nozioni di legalità, abituato a questuare i diritti più scontati al politico di turno, a ricorrere alla protezione dell’uomo d’onore più influente, a procacciare illeciti profitti nei torbidi affari di “Cosa nostra”. Per il contributo dato alla formazione di una coscienza civile nell’Italia appena unificata, don Bosco fu pure commemorato dallo Stato in Campidoglio, il giorno dopo la sua canonizzazione (1 aprile 1934, la prima di un italiano dopo i Patti Lateranensi). In quella circostanza venne definito “Santo italiano e il più italiano dei Santi”.[23] Parallelamente, se consideriamo le radici di 3P, il taglio sociale da lui impresso al suo ministero, l’abnegazione per la sua città, l’instancabile impegno profuso per migliorarla, per darle una classe dirigente onesta e coscienziosa, per educare giovani e adulti al rispetto delle istituzioni e delle leggi, per restituire dignità a quanti l’avevano svenduta in cambio di un favore, per riscattare gli uomini dall’ignoranza e dalla sottomissione; se riflettiamo all’ampiezza della sua azione che si estende dal proletariato di Brancaccio alla borghesia di Mondello, dai bambini di strada agli alunni di un ragguardevole Liceo Classico, passando per il Seminario di cui fu assistente spirituale, potremmo pure dire di lui che è un Santo palermitano e il più palermitano dei Santi. A quelle espresse lo scorso anno aggiungeremmo così una nuova ragione che riproponga, rafforzata, la richiesta di avere il beato Giuseppe Puglisi tra i compatroni di Palermo.

 

L’allegria

C’è ancora un punto che accomuna don Bosco e don Puglisi ed è la gioia che promana dai loro sguardi, dal sorriso, dalle parole. Fin da ragazzo Giovannino Bosco fondò la “Società dell’allegria” con un regolamento che al punto 3 affermava laconicamente: essere allegri. Nella famiglia salesiana questa dimensione è divenuta parte integrante del carisma. Tutto ciò rappresenta una svolta rilevante nell’approccio educativo, fino ad allora, infatti, era impensabile che un educatore potesse trascorrere la ricreazione con i ragazzi, giocare con loro, raccontare barzellette, esibirsi con giochi di prestigio o altri intrattenimenti esilaranti. Nei seminari o nei noviziati gli incaricati della disciplina erano tenuti ad essere rigidi, severi, sostenuti e minacciosi. Non era soltanto una questione metodologica, per tenere i giovani sempre sulla corda, ma dottrinale: la strada della salvezza è impervia e stretta, irta di rinunce e sacrifici che richiedono una vita seria e austera. La novità di don Bosco parte proprio da qui, dal ritenere che la santità consiste invece nello stare sempre molto allegri perché la gioia vera scaturisce dalla comunione col Risorto, come canta il salmista che esorta a servire Domino in laetitia[24]. Per questo don Bosco fa sue le parole di Teresa d’Avila: nada te turbe, solo Dios basta. Secondo alcune testimonianze quando i ragazzi lo vedevano particolarmente raggiante, era segno che un grave problema lo affliggesse, ma proprio per questo sentiva di avere il Signore più vicino e ciò accresceva la sua serenità e il suo entusiasmo. I salesiani devono il loro nome a Francesco di Sales il quale nella Filotea scrive: “Il nemico si serve della tristezza per portare le sue tentazioni contro i buoni; da un lato cerca di rendere allegri i peccatori nei loro peccati e dall’altro cerca di rendere tristi i buoni nelle opere buone; e come non gli riuscirebbe di attrarre al male se non presentandolo in modo piacevole, così non potrebbe distogliere dal bene se non facendolo in modo sgradevole. Il maligno gode nella tristezza e nella malinconia perché lui è, e lo sarà per l’eternità, triste, malinconico; per cui vorrebbe che tutti fossero così! La cattiva tristezza turba l’anima, la mette in agitazione, le dà paure immotivate, genera disgusto per l’orazione, assopisce e opprime il cervello, priva l’anima di consiglio, di proposito, di senno, di coraggio e fiacca le forze. In conclusione è come un duro inverno che cancella tutta la bellezza della terra e manda in letargo gli animali, infatti la tristezza toglie ogni bellezza all’anima e la rende quasi paralizzata e impotente in tutte le sue facoltà”.[25] Se allora il male affascina quando è presentato in modo piacevole, occorre mostrare il bene nella forma che attrae, a tal fine don Bosco raccomanda ai suoi di amare le cose che amano i giovani, affinché essi amino le cose che amiamo noi; li esortava così a stare al passo coi tempi, a conoscere i divertimenti dei ragazzi, non per stigmatizzarli o proibirli, ma per cimentarsi con loro e scongiurare le devianze. “Siate felici nel tempo e nell’eternità”, questo augurava ai suoi giovani nella celebre Lettera da Roma del 1884.

Questa stessa propensione a stare allegramente con i giovani, si trova nella vita di padre Puglisi, il quale “era sempre sereno. Avrà avuto anche lui i suoi problemi, come tutti, ma non l’ho mai visto triste”,[26] secondo la testimonianza di Enza Maria Mortellaro, alunna del Vittorio Emanuele, che 3P riuscì a dissuadere dal proposito di suicidarsi. La sorella Laura aggiunge: “Ci ha insegnato che Dio è amore perché ci ama. Noi abbiamo il terrore di questo Dio, invece Dio è gioia. Ci ha insegnato ad andargli incontro, a sentire la sua mancanza, ad abbracciarlo sempre più”. Don Pino amava raccontare barzellette, ironizzava sulla sua statura, sulle orecchie a sventola, sulle mani enormi, sulla calvizie e finanche sulle sue destinazioni pastorali.[27] “La gioia e l’allegria di padre Puglisi erano contagiose” racconta padre Agostino Ziino, sacerdote palermitano, entrato nella Comunità dei Figli di Dio. All’origine della giovialità di 3P c’è ancora una motivazione teologica. Commentando il discorso della montagna, egli rifletteva sul fatto che le otto beatitudini riguardano il presente, anche quando il ristabilimento dell’equilibrio avverrà in futuro. Gli afflitti saranno consolati, ma sono già beati, gli affamati saranno saziati ma sono beati sin da ora. La gioia è allora connaturata al cristiano che deve essere annunciatore di un Dio “che viene a portare la gioia a tutti quanti erano nel pianto, nella sofferenza. Si rallegra per la gioia dei bambini che lo circondano. Ma si farà anche messaggero della gioia del Regno”.[28] L’espressione più nota della gioia è per don Pino il sorriso, che lo accompagna in vita ed in morte, stando alle testimonianze dei suoi uccisori e di chi ha assistito alla sua autopsia.[29]

 

Conclusioni

Altri elementi ancora sono comuni a Giovanni Bosco e Pino Puglisi, come la devozione mariana, la fiducia nella provvidenza, la presenza di determinanti figure sacerdotali che li hanno guidati durante il discernimento (don Calosso, don Caracciolo). C’è anche una serie di eventi nella vita di 3P che si potrebbero leggere come profetiche coincidenze: fu il card. Ruffini che gli propose di entrare in seminario nella chiesa di S. Giovanni Bosco, dove nel 1960 avrebbe poi celebrato la sua prima messa. Un florilegio di frasi di santi da lui raccolti, comincia con un pensiero di don Bosco sul sacerdozio: “Sacerdote! Datore di cose sacre, anello di congiunzione tra Dio e l’uomo, fiaccola posta sul moggio, pioniere che apre la strada del Regno dei Cieli”. Agostina Aiello, per anni a fianco di padre Puglisi come assistente sociale, mi ha raccontato che, pur non essendo un ex allievo salesiano, egli si sentiva discepolo di don Bosco, infatti partecipava, quando poteva, agli incontri di formazione e prima di andare le confidava: “Dai figli di don Bosco c’è sempre da apprendere”. Dopo la sua morte, a casa sua, è stata pure trovata una preghiera da lui composta e rivolta al Santo dei giovani: “O glorioso Santo, fa’ sentire anche adesso la tua opera salvifica, benedici gli educatori, suscita tra essi dei cuori che, infiammati dallo stesso amore di cui ardevi tu, rinnovino i tuoi prodigi verso la gioventù di oggi; benedici i giovani, fa’ che tutti seguendo i tuoi insegnamenti giungano all’esperienza del divino e quindi pongano i valori religiosi al di sopra di tutto; benedici le nostre famiglie, benedici tutti affinché tutti possiamo raggiungerti nella patria divina”.

Ci sono anche degli aspetti divergenti sui quali non possiamo soffermarci, ma che non vogliamo del tutto ignorare. Don Bosco fondò un ordine religioso per dare continuità alla sua opera, mentre don Puglisi non pensò mai di uscire dalla dimensione diocesana del suo ministero. Il sacerdote piemontese passò molte sofferenze a causa del suo vescovo che, a un certo punto, gli proibì di confessare, il parroco di Brancaccio lavorò sempre in sintonia con i suoi pastori, in particolare con il card. Pappalardo dal quale ricevette sostegno morale e, talora, economico. Diversi sono anche i contesti storici e i rapporti con le istituzioni: don Bosco attraversa le fasi che precedono e seguono l’unità d’Italia ed è investito di delicate responsabilità inerenti ai contrastanti rapporti tra Stato e Santa Sede; 3P si forma nella stagione del Vaticano II, che coincide con la decadenza morale della politica palermitana, soprattutto del partito di ispirazione cristiana che da anni governava la città. La differenza più grande riguarda ovviamente la loro fine terrena: Giovanni Bosco, pur essendo stato spesso nel mirino dei suoi nemici, morì stremato dalle fatiche spese per i suoi ragazzi a 73 anni, don Pino fu freddato dai sicari di Cosa nostra il giorno del 56° compleanno.

Desidero concludere con una celebre pagina di Daniel Pennac indicativa dell’attualità di don Bosco e di 3P, nella quale si ribadisce che se l’educazione è cosa di cuore, essa è fondamentalmente relazione.

- Dai, tu che sai tutto senza avere imparato niente, il modo per insegnare senza essere preparato a ‘questo’? C’è un metodo? -

- Non mancano, certo, i metodi, anzi, ce ne sono fin troppi! Passate il tempo a rifugiarvi nei metodi, mentre dentro di voi sapete che il metodo non basta. Gli manca qualcosa. -

- Che cosa gli manca? -

- Non posso dirlo. -

- Perché? -

- È una parolaccia. -

- Peggio di ‘empatia’? -

- Neanche da paragonare. Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia. -

- E cioè? -

- No, davvero non posso … -

- Su, dai! -

- Non posso, ti dico! Se tiri fuori questa parola parlando di istruzione, ti linciano. -

 …

- L’amore. [30]

 

 

[1] “A questa opera laica svolta da Padre Puglisi era congiunta una continua e visibilmente ben corrisposta attività di evangelizzazione, sicché la chiesa di San Gaetano era ormai divenuta un centro di riferimento permanente per tutti coloro che nell’azione del sacerdote si riconoscevano e trovavano un’alternativa alla triste e violenta realtà del quartiere Brancaccio. L’aggregazione sociale voluta da don Pino Puglisi, la pratica dei valori cristiani tradizionalmente opposti alla logica della violenza e del terrore di Cosa Nostra, quindi, rappresentava un consistente pericolo per l’organizzazione criminale, che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era il suo radicarsi per consolidata permanenza” (Sentenza Corte d’Appello di Palermo nei confronti di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Grigoli Salvatore, ecc. del 13 febbraio 2001).

[2] Mt. 28,19.

[3] Una delle novità affermate da Lutero nel corso della Riforma protestante fu la pretesa di definire la dottrina basandola sulla sola Scriptura, espunta dalla millenaria tradizione della Chiesa.

[4] B. Amata, San Giovanni Bosco. Padre e amico dei giovani, Palermo 2013.

[5] Don Pino Puglisi, martire della Giustizia e della Fede, Istituto Don Bosco Ranchibile, Palermo 2013, p. 31.

[6] F. Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, BUR, Milano 2013, p. 108., a p. 126 nello stesso libro troviamo la citazione di 3P di un passo del Libro dei Proverbi: “Signore, non mi dare né ricchezza né miseria, ma dammi soltanto quello che è necessario al vitto quotidiano affinché non mi insuperbisca”.

[7] Francesco, Veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013.

[8] Lc. 22,3.

[9] Sentenza Corte d’Appello di Palermo nei confronti di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Grigoli Salvatore del 13 febbraio 2001.

[10] F. Deliziosi, Don Giuseppe Puglisi. Il prete martire ucciso dalla mafia, Arcidiocesi di Palermo, Bagheria 2005, 7-8.

[11] “È questo il cosiddetto metodo preventivo, che consiste in una vigilanza continua ma non pesante, dolce ma oculata, nel partecipare a tutta la vita del fanciullo, nel prevedere le difficoltà e di conseguenza nel saper dare le norme utili per sormontarle”. Cfr: F. Deliziosi, cit., pp. 131-132).

[12] F. Deliziosi, Pino Puglisi… cit. p. 131.

[13] Memorie biografiche di don Giovanni Bosco [1854-1858], vol. V, Scuola Grafica Salesiana, S. Benigno Canadese, 1905, p. 367.

[14] Ibidem.

[15] F. Deliziosi, cit. p. 146.

[16] F. Deliziosi, cit. 131.

[17] G. Bosco, Il sistema preventivo, Torino 1877.

[18] “Don Bosco educatore”, Università degli Studi di Palermo, 14-15 novembre 2015.

[19] “La nuova tonalità che egli avrebbe dato all’educazione si chiamava amicizia. Voleva riconquistare la gioventù attraverso l’amicizia” (W. Nigg, Un santo per il nostro tempo, Elle Di Ci, Leumann 1980, p. 30).

[20] T.Bosco, Don Bosco, Editrice Elle Di Ci, Leumann 1988, pp. 114-115.

[21] F. Deliziosi, cit. p. 97.

[22] Ibidem

[23] P. Stella, “La canonizzazione di don Bosco tra fascismo e universalismo”, in F. Traniello (a cura di), Don Bosco nella storia della cultura popolare, SEI, Torino 1987, p. 363. La formula "il più italiano dei Santi" sarebbe stata poi utilizzata nel 1939 da Pio XII per proclamare Francesco d'Assisi patrono d'Italia.

[24] Sal. 99 (100).

[25] F. di Sales, Filotea, cap. XII.

[26] F. Deliziosi, cit. p. 135.

[27] Durante gli anni di parrocato a Godrano diceva di essere il prete più “altolocato” della diocesi.

[28] F. Deliziosi, cit. p. 175.

[29] Ha dichiarato Salvatore Grigoli: “Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa,…lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre questa è una rapina. Allorché il padre neanche si era accorto di me…e il padre, fu una cosa questa che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise…sorrise e gli disse allo Spatuzza: ‘me l’aspettavo’. Allorché io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersi di essere stato ucciso”. (Cfr.: Sentenza Corte d’Appello di Palermo…). Giuseppe Carini, presente all’obitorio del Policlinico di Palermo al momento dell’autopsia,  riferisce: “Tenni fede alla promessa, non lasciai don Pino neppure allora. Sorrideva. Ebbi un brivido. La pallottola era rimasta nella scatola cranica. Per estrarla occorreva una manovra cruenta che altera i lineamenti. Ma, nonostante tale manovra invasiva, quando il medico lo ricompose, il sorriso di don Pino era ancora lì. Non era scomparso. Continuava a sorridere”. (F. Deliziosi, cit. p. 276).

[30] Daniel Pennac, Diario di scuola, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2013, p. 239.

 

 

 

 

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