Muoversi per la diocesi che per undici anni è stata guidata da monsignor Bello significa immaginarlo ancora come un familiare che accompagna la vita della comunità. E toccarne con mano le intuizioni, la profezia, l'eredità quasi ovunque.
Si arriva a Molfetta e l’ospedale si chiama «Don Tonino Bello». Nelle scuole i ragazzi sono alle prese con il concorso diocesano «Conosci don Tonino?». L’Istituto professionale è stato ribattezzato una decina d’anni fa e adesso porta il nome del «fratello vescovo povero».
Ancora. Quando si entra con l’auto nel centro – qualsiasi ingresso si scelga – ecco comparire i cartelli «città della pace»: è «il nostro ringraziamento a monsignor Bello e al suo straordinario impegno a favore della riconciliazione». spiega il vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, Luigi Martella. Poco fuori Ruvo la comunità Casa «Don Tonino Bello» è dal 1984 una rifugio per chi vuole uscire dal tunnel della tossicodipendenza ma anche un richiamo alla conversione perché, sosteneva il suo fondatore, «un po’ tutti siamo alle dipendenze di qualcosa: dei soldi, dei vizi, dell’egoismo, dei mille vitelli d’oro che ci siamo costruiti nel deserto della vita».
Muoversi per la diocesi che per undici anni è stata guidata da monsignor Bello significa immaginarlo ancora come un familiare che accompagna la vita della comunità. E toccarne con mano le intuizioni, la profezia, l’eredità quasi ovunque. «Qualcuno dice: "Don Tonino ci manca" – confida Martella –. In realtà è qui in mezzo a noi. E la sua missione prosegue. In fondo aveva ragione l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Mariano Magrassi, che nell’omelia delle esequie sostenne che il tramonto sarebbe stato più luminoso dell’alba. Ecco, a venti anni dalla sua morte, continua ad aiutare tanti a varcare la soglia della speranza».
Oggi la «sua» Chiesa è in festa per la conclusione della fase diocesana della causa di beatificazione. «La diocesi – riferisce il vescovo – ha vissuto l’iter come un momento di comunione. Che non è stato soltanto un’istruttoria canonica ma soprattutto un’occasione di crescita interiore. Di sicuro siamo consapevoli che l’eredità di monsignor Bello non può essere ridotta a un’icona votiva ma va declinata nel quotidiano».
A Molfetta si fa tappa per visitare i luoghi di don Tonino ma anche per dialogare con chi è cresciuto accanto a lui. «C’è ancora l’eco della sua voce, dei suoi gesti, dei suoi messaggi – sottolinea Martella –. Gli adulti di oggi sono i giovani che lo hanno visto al loro fianco. Ma anche le nuove generazioni lo sentono vicino: il concorso sulla sua figura che abbiamo promosso per gli studenti ha dato risultati sorprendenti». Certo, la fama di santità di monsignor Bello va ben oltre questa terra di mare. «Da tutta la Penisola si giunge fra noi sui passi di don Tonino – spiega il vescovo –. Molti lo hanno conosciuto e ammirato attraverso i suoi scritti senza averlo mai incontrato di persona. Lo testimoniano anche i miei viaggi come visitatore dei Seminari d’Italia nei quali non manca mai la domanda: a che punto è la causa di beatificazione di monsignor Bello? Segno dello stupore che suscita ancora il suo lascito».
Già, il Seminario. Don Tonino era stato formatore dei futuri sacerdoti nella sua diocesi, Ugento-Santa Maria di Leuca. E aveva portato la sua passione educativa nella comunità di Tricase, quando era parroco, e a Molfetta da pastore. «Lungo la rotta tracciata dal Concilio aveva valorizzato il laicato e lo aveva emancipato», chiarisce il vescovo. E monsignor Bello è stato anche l’uomo della parola.
«Una parola nuova non solo nei contenuti – sottolinea il presule – ma anche per la forza incisiva, per la freschezza, per l’efficacia e per la fecondità».
A Tricase Martella, allora giovane prete, pranzava tutti i sabati con don Tonino. «Perché sono originario di quel Comune – racconta –. A lui mi sono riferito e, direi, ispirato da novello sacerdote. Ogni volta che lo incontravo ero consapevole di avere davanti a me un maestro».
Il 25 dicembre 1984, a due anni dalla sua nomina a vescovo, monsignor Bello aveva lanciato il progetto pastorale Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi. «Un piano di grande attualità ancora oggi – dichiara Martella –. Quella degli ultimi, per don Tonino, non era una scelta pauperistica ma una via concreta non solo per imitare Gesù, ma anche per incontrarlo e servirlo. E in questo tempo di crisi gli ultimi sono davvero tanti, troppi: da chi ha perso il lavoro alle famiglie piegate dal bisogno, da coloro che vengono esclusi ai migranti che bussano alle nostre frontiere».
E monsignor Bello aveva fatto di Molfetta un avamposto dell’accoglienza, a cominciare dal palazzo vescovile aperto a tutti. «Per don Tonino – conclude il vescovo – una Chiesa che spalanca le sue braccia non è tanto quella che offre un pasto o un tetto, quanto quella che sa camminare a fianco. Questa è la direzione che ci indica anche papa Francesco e che don Tonino ha vissuto e mostrato».
Giacomo Gambassi
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