Donna curda incinta muore al confine tra Polonia e Bielorussia

Avin Irfan Zahir, 39 anni, con il marito e 5 figli aveva raggiunto il territorio polacco ma per timore di essere respinti si sono nascosti nel bosco. Il bimbo era morto da 20 giorni, poi l'infezione

Morire un po’ alla volta. Con un bimbo in grembo e altri cinque a cui non è stato permesso di avvicinarsi neanche per l’ultima carezza. Morire dopo avercela fatta. Settimane nella foresta, in Bielorussia. E poi finalmente il bosco polacco. Nascosti per giorni, in territorio dell’Unione Europea, per timore di venire rimandati indietro.

È morta così Avin Irfan Zahir di 39 anni. Un’agonia di settimane, con un bimbo in grembo da sei mesi, il marito e gli altri cinque figli a non sapere come prendersi cura di lei. Forse sarebbe più giusto dire che così è stata fatta morire. Perché nello scontro tra Ue e Bielorussia, disputato con l’arma dei più vulnerabili da spingere avanti e da rispedire indietro, a rimetterci sono sempre i più fragili. 
Il decesso è stato registrato venerdì scorso in un ospedale polacco. Vengono tutti dalla provincia curdo irachena di Duhok. Come gli altri anche loro erano riusciti a prendere un volo per Minsk, con la promessa di un futuro in Europa. Lontano dalle repressioni, dalle minacce, lontani da qualsiasi cosa potesse sparare in direzione del loro villaggio. Poi, come gli altri, anche Avin Irfan Zahir è rimasta per giorni nella foresta, tentando invano di raggiungere la Polonia.

 

Fundacia Dialog

 

Esposta al freddo, esausta a causa delle scarpinate, disidratata e con poco cibo, è cominciata a star male. Fino a quando, finalmente, insieme alla famiglia è riuscita a raggiungere il confine dell’Unione Europea. Qui però, sapevano che non potevano chiedere asilo. Perché i diritti sono sospesi. Anche i diritti umani. Dovevano nascondersi ancora, nella speranza di rimettersi in forze e lasciarsi alle spalle la fascia di confine e uscire il prima possibile dalla Polonia verso un qualsiasi altro Paese dell’Unione. Lontani da tutto, non c’era neanche una “lanterna verde” a luccicare nella notte del bosco intorno a Hajnówka.

Non è facile passare inosservati quando di viaggia in sette e con il pancione. Non è facile quando sai che chiedere aiuto potrebbe costare il futuro degli altri figli.

Li hanno trovati così, in mezzo al fogliame, i volontari di Fundacia Dialog, un’organizzazione di ispirazione cattolica che perlustra la boscaglia in cerca dei disgraziati a cui dare una mano. Era l’11 novembre quando la donna è stata portata in ospedale in condizioni già disperate. Tre giorni dopo il padre con gli altri figli erano già in un cimitero islamico a seppellire il bimbo mai nato, morto in grembo una ventina di giorni prima, hanno detto i dottori. Un piccolo cumulo di terra accanto a quello di altri profughi uccisi dalla guerra ai diritti umani.

Per tutto questo tempo non hanno potuto rivedere la madre. Dicono che sia a causa delle misure anticovid. I volontari sono sempre stati accanto al resto della famiglia. Sapevano che difficilmente la setticemia avrebbe dato scampo a quella madre. È morta venerdì 3 dicembre. E domenica, a Lesbo, papa Francesco ha ricordato "quante madri incinte hanno trovato in fretta e in viaggio la morte mentre portavano in grembo la vita! La Madre di Dio ci aiuti ad avere uno sguardo materno, che vede negli uomini dei figli di Dio, delle sorelle e dei fratelli da accogliere, proteggere, promuovere e integrare". E oggi nessuno, in Europa, può dire di non sapere.


di Nello Scavo

tratto da avvenire.it

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