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È ancora Possibile Educare da Giovani per i Giovani

Le difficoltà in cui versa il sistema dell'educazione in una società che sem¬≠bra avere abdicato a ogni forte progetto di formazione umana trovano cir¬≠costanziata disamina in queste pagine di Giuseppe Savagnone, filosofo e storico, responsabile dell'Ufficio per la cultura, la scuola e l'università del¬≠la Conferenza Episcopale Siciliana. In particolare l'autore si sofferma pre¬≠liminarmente su talune fondative nozioni pedagogiche (come quelle di me¬≠moria storica, autorità, relazione intergenerazionale, responsabilità perso¬≠nale e comunitaria) per poi evidenziare limiti e distorsioni delle nostre isti¬≠tuzioni scolastiche inadeguate a formare coscienze critiche e libere, pri¬≠vilegiando per contro un malinteso concetto di tolleranza, che è in ultimo indifferenza ai valori e negazione di ogni istanza veritativa.


È ancora Possibile Educare da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 22 maggio 2008

Per una scuola davvero pluralista

Di Giuseppe Savagnone

 

 

 Oggi il grande problema che si pone non è «come» educare, ma «se» è ancora possibile educare.

 

L'ambiente in cui si svolgono la vita della famiglia e quella della scuola sembra in grado di imporre modelli e suggestioni più forti del­l’influsso, un tempo prevalente, di genitori e mae­stri. Ma bisogna anche riconoscere che, in questa crisi della dimensione educativa, gioca anche l'in­debolimento, se non addirittura la perdita, delle co­ordinate ideali entro cui l'impresa educativa trova­va il proprio significato e le condizioni della propria riuscita. Ci proponiamo, nelle riflessioni che seguo­no, di individuare alcuni aspetti di questo indeboli­mento e di accennare, almeno, al modo di superar­lo. Le nostre considerazioni avranno come obietti­vo la scuola, ma in una certa misura esse potrebbe­ro riguardare anche la famiglia.

L'educazione coinvolge tre dimensioni fondamentali dell'essere umano che sono: il suo «essere-da», l'«essere-con», l'«essere-per»: rispettivamente il suo essere generato e il suo dipendere da qualcosa o da qualcuno che esiste anteriormente; il suo cooperare con altri e il suo essere responsabile verso di essi; il suo assumere dei fini come dotati di verità e di valore, al punto da poter dare una direzione, un «senso» alla sua vita. Noi oggi nella sfera educativa, e in particolare nel­la scuola, assistiamo per tutte e tre queste dimen­sioni a una crisi che può anche essere di crescita, ma che certamente le rende problematiche.

 

 

«Essere-da»: l'importanza della narrazione

 

Si registra oggi nella nostra società una diffusa per­dita della memoria e un tendenziale distacco dalle radici. Eppure proprio nella filosofia ermeneutica contemporanea (Gadamer) si rivaluta la tradizione come condizione imprescindibile per la lettura del nostro presente e la costruzione del nostro futuro. Essa, in­fatti, non è solo passato, ma relazione vitale fra le tre dimensioni della temporalità. La perdita della me­moria uccide anche la capacità di interpretare con in­telligenza il tempo in cui si vive, sottraendolo all'im­mediatezza a-storica degli stati d'animo (quella che viene celebrata nel film L'attimo fuggente). Ciò appare particolarmente evidente se si pensa a un tema strettamente collegato al precedente, che è quello della narrazione. Le nostre esperienze non si possono ridurre a un mero succedersi di fatti puntua­li. Anzi, per la precisione, un fatto isolato dal conte­sto non è neppure un fatto, ma un mero fenomeno fi­sico che, per avere la sua compiutezza fattuale, deve ricevere un senso dalla storia in cui è inserito. Senza il logos della narrazione, che implica il nesso passa­to-presente-futuro non ci sono neppure esperienze significative, anche se ci si può illudere di farne tan­tissime, che però, vissute come dei flashes puntifor­mi, prive di un collegamento che assegni loro un va­lore, non riescono a diventare una storia. Ma non si può imparare a raccontare a sé stessi o agli altri la propria storia se non ne ascoltiamo a nostra volta. Un tempo era in famiglia che si sentiva il nonno raccontare innumerevoli volte le vicende della sua vita passata. Oggi i ragazzi trascorrono ore davanti a dei videogiochi, che mantengono fissi in un eterno presente.

La scuola ha come sua principale attività precisa­mente quella di narrare. I suoi programmi sono costituiti prevalentemente da storie: della letteratura italiana, dell'arte, della filosofia... Ciò però ha un valore solo se siamo davanti a una vera tradizione che, come si è detto, per essere tale non deve limitarsi a conservare il passato, ma met­terlo in vitale relazione col presente e il futuro. Al­trimenti è mera archeologia. E questo è il rischio che spesso si corre nella nostra scuola. In realtà la tradizione, per essere tale, ha bisogno che ogni generazione se ne riappropri vitalmente, attualizzandola di volta in volta e rileggendola alla luce del proprio contesto culturale. E proprio questa è la funzione della scuola, che dovrebbe essere il luogo per eccellenza dove questa riappropriazione critica del passato si può e si deve, istituzionalmente, realizzare.

 

 

È necessario che tornino i maestri

 

«Essere-da» non è soltanto un fatto conoscitivo, ma anche esistenziale. Nella nostra società, insieme al­la memoria del passato, si è perduto anche il senso dell'essere stati generati. Viviamo in una società dove il padre è stato «ucciso», intendendo con que­sta espressione l'eliminazione di ogni dipendenza da qualcuno che è prima di noi e di cui dobbiamo riconoscere l'autorità.

Oggi l'autorità ha una pessima fama - al punto che chi la detiene cerca di disfarsi della responsabilità di esercitarla - perché viene sistematicamente con­fusa col potere. Ma tra le due cose c'è una grande differenza. Mentre il potere è capacità di coercizio­ne fisica, psichica, economica, sociale, che ha luo­go finché è esercitata, l'autorità è legata all'origine. Se opera nel presente è perché ha un passato. Il ver­bo augere in latino significa «far nascere», «far cre­scere». Da esso deriva anche il sostantivo auctor, «autore». L'autorità non è, come il potere, un mero fatto, ma una qualità radicata nella storia della rela­zione tra le persone ed è legata al fatto che qualcu­no aiuti qualcun altro a nascere. Per questo essa ha a che fare con l'educare che, co­me suggerisce l'etimologia latina e-ducere, «con­durre fuori», è una metafora dell'opera di chi faci­lita il parto e ha il suo modello nella maieutica so­cratica. A differenza degli animali non umani, la persona non nasce in una sola volta all'atto della generazio­ne biologica. L'uomo è per natura un animale cul­turale e ha bisogno della cultura per diventare fino in fondo sé stesso. Si viene a scuola non solo per imparare, ma per nascere. La scuola, però, può ancora educare se in essa tor­neranno a esserci dei «maestri», delle persone cioè capaci di esercitare l'autorità e di contribuire così alla «nascita» dei loro alunni. Non si tratta di tor­nare a certe forme autoritarie del passato. Per il sussistere dell'autorità educativa del maestro è es­senziale la capacità di riconoscere che, come in ogni nascita, il soggetto del processo non è l'oste­trico ma il bambino. Da qui la necessità di un dia­logo che consenta una vera reciprocità. La sfida oggi è salvare quest'ultima, con tutto ciò che essa comporta di libertà e autenticità, recuperando però l'autorità, con tutto ciò che essa comporta di ri­spetto e di ascolto da parte dei «discepolo» nei confronti del maestro.

 

 

«Essere-con»: la crisi delle appartenenze

 

Nella nostra società si fuggono le appartenenze vin­colanti. L'individuo si relaziona agli altri mantenendo una sempre maggiore riserva di autonomia, che gli consente in ogni momento di cambiare stra­da e compagnia. Ciò segna la crisi dell'idea stessa di comunità. Perché essa sia reale bisogna che si istituisca un'azione cooperativa volta a un obiettivo condiviso. Non basta, per questo, che ci si coordini per realizzare fi­ni uguali, come avviene quando si organizza una giocata di poker, o una partita di tennis dove ognu­no vuole la stessa cosa che vogliono gli altri, cioè vincere ma solo uno potrà realizzare effettivamente il proprio obiettivo.

C'è un abisso tra l'avere fini uguali e perseguire un fine comune. Sono evidenti i limiti che accompagnano una società costituita esclusivamente su questo livello di relazione tra le persone. Se ne vedono gli effetti drammatici sulla famiglia, dove spesso ognuno persegue un proprio progetto di autorealizzazione, che rimane sostanzialmente individuale, cosicché il legame è esposto a entrare in crisi ogni volta che i fini soggettivi uguali entrano in rotta di collisione. Qualcosa del genere può dirsi anche del modo in cui molti intendono la comunità politica. Solo se dalla coordinazione si passa alla coopera­zione, se cioè si vive in funzione di un fine vera­mente comune, tale che nessuno dei partecipanti può raggiungerlo se non lo raggiungono anche gli altri, si ha un vera comunità. Ciò implica una re­sponsabilità reciproca estranea alla mera coordina­zione. Il giocatore di poker non ha nulla da rimpro­verare ai suoi partner se commettono degli errori, né è tenuto ad aiutarli. Anzi! Là dove, invece, il successo personale dipende dagli sforzi altrui quanto dai propri, è normale l'attenzione verso le fragilità dell'altro e l'impegno a sostenerlo.

Tanto più che, nella cooperazione, i partecipanti danno vita a un'azione che ciascuno, da solo, non avrebbe mai potuto compiere. Così il clima armo­nioso di una famiglia o di una classe scaturisce certamente da comportamenti individuali, ma è qualcosa di più di questi comportamenti singolar­mente presi o della loro somma, perché ha come soggetto non l'uno o l'altro membro, ma la comu­nità familiare o quella scolastica in quanto tale. Anche una sola nota stonata rovina l'esecuzione di una sinfonia.

 

 

La scuola come comunità

 

Oggi si rischia di dimenticare che la scuola è una comunità. Il taglio del nostro sistema di istruzione diventa sempre più individualistico, magari all’insegna della «personalizzazione». Nella logica dell'«offerta formativa» si moltiplicano le attività e le opportunità offerte agli studenti, allo scopo di soddisfare le loro richieste - talvolta anche le più peregrine -, si mettono in opera i mezzi più sofisticati (computer, strumenti audiovisivi, viaggi, sta­ge), ma si rinuncia ormai a proporre dei fini che diano significato a questi mezzi e  insegnino come adoperarli. La scuola di oggi rischia di  assomigliare a un gigantesco supermarket in cui ognu­no va a prendere quello che gli serve in funzione dei proprio soggettivo progetto di autorealizzazio­ne, senza in realtà confrontarsi con nessuno per mettere a punto questo progetto senza neppure sospettare che l’istituzione scolastica possa essere il luogo dove scoprire dei valori che orientino la sua vita.

In questo modo non può nascere alcuna comunità. I clienti di un supermarket o gli utenti di un ufficio («clienti», e «utenti» sono i nuovi termini per desi­gnare gli alunni) non hanno nulla che li accomuni profondamente. I loro sono fini uguali, ed essi non rispondono gli uni degli altri, né tanto meno devo­no creare un'azione comune che superi i loro ri­spettivi individualismi.

Una scuola così concepita addestra all'egoismo. Perciò essa non è neppure un buon laboratorio per la cittadinanza, né prepara i giovani alla democra­zia, che ha il suo centro nella ricerca, da parte di ciascuno, del bene comune. Ritorna alla mente quanto ha scritto quattrocento anni fa il poeta inglese John Donne (1573-1651): «Nessun uomo è un'isola, intero in sé stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della ter­ra. Se una zolla viene portata dall'onda del mare, l'Europa ne è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una magione amica, o la tua stessa casa. Ogni morte d'uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell'umanità. E così non man­dare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».

Solo se si adotta questa prospettiva la scuola può ri­trovare il suo ruolo peculiare - in un mondo di so­litudini e, al tempo stesso, di massificazione come comunità educante.

 

 

«Essere-per»: vera & falsa tolleranza

 

Oggi si insiste molto, anche a scuola, sul valore del­la tolleranza. Si mettono in guardia i giovani contro ogni pretesa di verità che, si dice, genera violenza. Si ricordano, a questo proposito. l'inquisizione, o i totalitarismi. Nessuno dice che senza l'aspirazione alla verità e la fiducia di poterla conoscere non ci sarebbero stati non solo Socrate, Galilei, Martin Luther King, ma neppure la filosofia, la scienza, il progresso umano.

Si ama ripetere che ognuno ha la sua verità. Il che vuoi dire che non ne esiste nessuna. In questo modo la tolleranza, che originariamente era nata per garantire la libertà dell'individuo di cercare la veri­tà si è trasformata insensibilmente nella rinuncia a essa.

L'ambiguità di una simile impostazione risulta an­che dal fatto che, invece di rendere possibile il dialogo, essa, escludendo l'esistenza di un terreno co­mune su cui confrontarsi, lo rende tanto inutile quanto impossibile. Cosicché noi assistiamo oggi alla crisi di quella «ragione pubblica» che dovrebbe costituire la base di una cittadinanza responsabile. Nel concetto di «pubblico», infatti, è insito un aspetto che ha a che fare con la conoscenza: «Ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udi­ta da tutti [...]. Per noi, ciò che appare - che è visto e sentito da altri come da noi stessi - costituisce la realtà» (H. Arendt). Pubblico. in questo senso, è ciò che non rimane confinato nell'esperienza privata, incomunicabile, dell'individuo, ma può essere assunto come base per un discorso comune. Solo così è possibile che interessi e sentimenti particolari convergano in un disegno più ampio, capace di orientare la vita associata. Perciò questo significato di «pubblico» si prolunga naturalmente in quello politico, per cui il termine designa la sfera in cui i singoli si adoperano per costruire insieme il bene comune.

Se non c'è più nessuna verità che possa andar oltre! I gioco soggettivo delle preferenze individuali, vie­ne meno la possibilità di una vera e propria comu­nità etica, vale a dire di un patrimonio condiviso di valori in grado di fondare la convivenza civile. I singoli si ritraggono in un mondo privato, dove la coscienza decide senza alcun controllo oggettivo, in base, spesso, a stati d'animo e pulsioni emotive. I contrasti riguardano solo interessi, non profonde convinzioni. Gli effetti di questa involuzione sulla vita politica e sociale sono quotidianamente sotto i nostri occhi. La società, nel suo insieme, non ha più delle mete verso cui tendere.

 

 

La scuola ha bisogno della verità

 

Alla fine, quello che rimane è una «marmellata» di stimoli e di suggestioni, una specie di «brodo pri­mordiale», dove tutte le idee e le esperienze rimangono fagocitate e svuotate del loro valore assoluto. E questo, alla resa dei conti, l'unico messaggio. Ed esso non è affatto pluralista, anzi si impone in mo­do tanto più totalitario quanto meno consapevole di esso è il consumatore. E appena il caso di dire che i più esposti a questo «lavaggio del cervello» sono i giovani.

Paradossalmente, però, questo modo di impostare le cose, giustificato in nome del rispetto della liber­tà, la vanifica, precipitandola nella indifferenza, in­tesa letteralmente come equivalenza di tutto. Se, in­fatti, un'idea o un comportamento non possono es­sere considerati mai validi in sé, ma solo in base a preferenze soggettive e insindacabili, per quale mo­tivo pensare o fare una cosa invece di un'altra? Co­me stupirsi, a questo punto, che tanti giovani non ri­escano più né a credere in qualcosa, né a fare delle scelte?

Troppo spesso la scuola ha finito per assumere que­sto tipo di pluralismo come suo modello. Ma ciò comporta una specie di suicidio. Mentre, infatti, si può istruire restando al livello dei mezzi, non si può educare se non si pongono dei fini, se non si assu­mono, cioè, delle mete come più valide di altre. Se l'unico fine educativo dovesse essere la tolleranza come rinuncia alla verità e al valore di tutto ciò che non è la tolleranza stessa, resterebbe il nulla.

 

 

Una scuola scettica produce conformisti

 

Per fortuna la dinamica stessa del lavoro scolastico costringe a violare questi limiti. Già il riferimento alle discipline implica un ineludibile richiamo alla realtà, indipendentemente dalle preferenze soggetti­ve. Nessun docente e nessun alunno potrebbe pre­tendere di avere la «sua verità» sulle leggi della ter­modinamica o sull'esito della battaglia di Waterloo. Ma c'è di più. Se non ci fosse differenza tra vero e falso, in nome di che cosa la scuola si potrebbe pro­porre di aiutare i ragazzi a smascherare le illusioni della pubblicità, le menzogne della propaganda, l'accettazione acritica delle mode, il fanatismo dei fondamentalismi, le superstizioni della magia. Se non ci fosse differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra ciò che vale e ciò che non vale. in ba­se a quali criteri il senso critico dovrebbe essere ac­quisito ed esercitato? Una scuola soltanto scettica sarebbe destinata a produrre conformisti pronti ad assorbire, con superficiale passività, il condiziona­mento di tutte le mode e di tutti gli slogan in circo­lazione.

Tratto da «Studi Cattolici», n. 563, gennaio 2008, pp. 4-7.

don Lorenzo Teston (a cura di)

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