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Educare verbo al futuro

In cammino verso il Convegno Ecclesiale di Verona... La trasmissione del sapere passa attraverso l'educatore come persona di speranza. Si profilano sempre di più per la chiesa le sfide della formazione sia in famiglia che nella scuola.


Educare verbo al futuro

da Teologo Borèl

del 15 maggio 2006

La trasmissione del sapere, e del più ampio patrimonio culturale, resta una delle dinamiche imprescindibili anche per una società che ha fatto della velocità e del futuro il proprio mito e si attarda malvolentieri a considerare le radici da cui è sorta. Ricevere, e a nostra volta consegnare ad altri, un patrimonio materiale e ideale, è una delle attività umane fondamentali anche oggi.

Nel mettere in evidenza tutto ciò, la Traccia di preparazione del convegno di Verona considera il “trasmettere” come un’esperienza essenziale per testimoniare la speranza. Allo stesso tempo, essa sottolinea alcune ambiguità emergenti: da una parte, la pervasività dei mezzi della comunicazione sociale, asserviti agli interessi commerciali e veicolo non raramente di disvalori; dall’altra, la fatica delle istituzioni preposte alla trasmissione del sapere e all’educazione: famiglia, scuola e università, tanto che «sono in gioco la formazione intellettuale e morale e l’educazione delle giovani generazioni e dei cittadini tutti». Una sfida che tocca anche il credente, nel momento in cui cerca di immettere nel vissuto la propria tradizione religiosa.

 

 

L’educazione debole

 

Educare si deve, ma si può? Il titolo di un libro di Giuseppe Angelini fotografa efficacemente il cuore della questione educativa. Oggi, più che in passato, sembra di assistere ad una radicale sfiducia verso il compito educativo, da cui non raramente si finisce per abdicare. Alla messa in discussione teorica della stessa legittimità dell’educazione, si affianca una significativa trasformazione del linguaggio – che tende ad abbandonare alcuni termini “forti” – e la riduzione dell’educazione ad una semplice strategia metodologica. Ci si concentra sul processo, sui suoi aspetti tecnici e sulle dinamiche psicologiche, piuttosto che sulle finalità e le ragioni di fondo. Il fine dell’educazione diventa così il semplice “sentirsi bene” o l’essere ben integrati nell’ambiente circostante.

Cosa fa sì che l’educazione attraversi oggi una particolare stagione di debolezza? Credo che una delle maggiori responsabilità di ciò sia da attribuire al prevalere di una cultura pragmatica, alla continua ricerca di risultati immediati e misurabili in termini quantitativi. Vale solo ciò che dà effetti rapidi e visibili, subito spendibili nella ruota produttiva. Dietro, c’è l’esaltazione della tecnica e dei suoi straordinari successi, anche se ogni giorno di più ci appaiono i limiti di un’esistenza che vive nell’illusione dell’onnipotenza tecnologica e del controllo totale.

Benché oggi il termine appaia un po’ fuori moda, siamo davanti ad un vero e proprio materialismo che, in modo quasi invisibile, mercifica tutti i rapporti sociali e persino la stessa natura dell'uomo. In questo clima, tutto ciò che attiene ai processi interiori, alla crescita in profondità delle persone, viene inesorabilmente messo in secondo piano e svalutato. All’uomo ridotto a consumatore si trasmette altro piuttosto che ragioni di vita e percorsi per riconoscere e vivere la propria dignità trascendente. Col risultato che ad un numero crescente di persone manca una voce che indichi la rotta, il senso della vita, che interpelli sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto, sul vero e sul falso, sull'esistere e sul morire. Una voce che contribuisca a trasformare il consumatore in cittadino, lo spettatore in protagonista, l'individuo in persona. Una voce che dia motivazioni, non emozioni.

Si situa qui anche la difficoltà a trovare persone che si dedichino al compito dell’educazione. È tempo perso – si pensa, anche se non si dice –, lusso per pochi o capriccio di chi fugge da un approccio immediato alla realtà. Eppure, senza questa rimessa a fuoco di un progetto educativo essenziale e generato nel crogiuolo di un dialogo coraggioso, in un tempo di pluralismo e di cambiamento come l’attuale, la nostra società si condanna ad un tecnicismo che nel tempo svuota e demotiva anche chi lo sostiene.

 

 

L’educatore è persona di speranza

 

Quando poi si fanno i conti con le contraddizioni di una simile impostazione pragmatica, ecco che subito subentrano la disillusione, la sfiducia, il lamento. L’insopportabilità di relazioni banali e superficiali, l’aver escluso il lavoro da ciò che dà senso alla vita, l’esperienza quotidiana della fragilità umana aprono la strada alla rassegnazione e al cinismo, come strumenti di difesa dal vuoto che si è cercato invano di riempire.

In questo momento, dunque, ritrovare e vivere un senso alto dell’educazione è la più grande iniezione di speranza che possiamo fare nella nostra società, ed anche nella comunità cristiana, che non è immune dalla fragilità educativa. Prendersi cura della vita, propria e altrui, significa credere nel suo valore profondo e invisibile. Offrire accoglienza e fiducia, indicare orizzonti per cui valga la pena spendersi, accettare la scommessa del progettare insieme… tutto questo alimenta lo sguardo su un oltre che è atteso e anticipato con la propria dedizione.

L’educazione contiene tutte le caratteristiche della speranza: è sogno sulle persone, pur nel rispetto della loro vita e della loro identità; è desiderio della loro crescita; è impegno perché si realizzino le qualità migliori di ciascuno; è lavorare per il futuro senza fuggire dal presente. Il dinamismo della speranza è quello che si lascia orientare e attrarre da una visione alta della vita, dai valori di un’umanità piena e intensa che non si lascia frenare né trattenere dalla fragilità delle realizzazioni e che ricomincia con coraggio; è fiducia nell’altro e nella sua libertà.

Se la speranza non è mero ottimismo e fiducia che domani le cose andranno meglio, ciò significa che i giovani non vanno sempre e comunque rassicurati, ma vanno il più possibile attrezzati per le scelte che saranno chiamati a compiere. E questo è l’educazione. Si deve, dunque, riconoscere che la persona che più incarna la speranza oggi è proprio l’educatore: uomini e donne dallo sguardo profondo, che sanno andare oltre l’immediato e che, in un certo senso, agiscono come vedendo l’invisibile: le doti di ciascuno, la libertà e la maturità che sbocceranno a poco a poco.

Perché l’educazione sia un’esperienza di speranza e di crescita, occorre un’altra attenzione. Potremmo rischiare di cedere ad un’idea di trasmissione che, lungi dal proiettare nel futuro, finisce per chiudere nel passato. La tradizione non va soltanto conservata, ma continuamente reinterpretata. È questo che serve nel momento della consegna alle nuove generazioni di un patrimonio che non è morto ma in crescita perenne, liberi dal timore che le loro menti e le loro mani lo rimodellino e ne traggano frutti nuovi per un tempo nuovo. È questo che mostra la vitalità delle radici, ma per far ciò occorrono persone che sanno distinguere cosa appartiene all’essenza profonda del proprio patrimonio da ciò che è dovuto all’esperienza storica mutevole. Trasmettere vuol dire sì radicare, offrire una famiglia perché ognuno si senta a casa, ma una casa dalle porte e finestre aperte, non una gabbia da perpetuare acriticamente.

Solo in questo modo si possono aprire le persone alla novità, senza che essa sia solo l’ultima moda: educando, ossia partendo dal fatto che ognuno è una realtà originale, fondata su due pilastri essenziali: la coscienza e la libertà. Oggi si può vivere all’altezza della dignità dell’essere persone solo passando attraverso processi formativi che si prendano cura non solo della quantità di informazioni da possedere o delle competenze da acquisire, ma che siano capaci di dare alla coscienza la forza e il gusto della libertà, ragioni per sceglierla e determinazione a vivere da persone libere. Passa attraverso la coscienza la possibilità di fare unità nella propria vita, nonostante la dispersione dell’esistenza di ogni giorno e la frammentazione delle esperienze.

 

 

Alcune sfide

 

La questione formativa è tra le più importanti per la chiesa, ma anche per il futuro della società. Si tratta di individuare i percorsi che, mentre trasmettono la ricchezza di una tradizione, suscitano coscienze e costruiscono personalità.

Tra le principali sfide davanti a cui si trova la chiesa c’è quella di affiancare la famiglia, aiutandola a superare la solitudine educativa in cui oggi si trova. La fragilità della famiglia, particolarmente toccata dalle trasformazioni in atto e sottoposta alle tensioni derivanti dalle esigenze del lavoro e della cura dei figli, non sempre conciliabili, si riflette sul compito educativo. Spesso la famiglia fa fatica a capire quali siano le priorità e, nell’affaticamento cui è sottoposta, si adatta a richieste e proposte esteriori, spesso consumistiche, che la lasciano sola davanti alle scelte più importanti. Che cosa può fare la comunità cristiana per aiutarla? Le forme tradizionali dell’educazione religiosa non bastano più; occorre una progettualità specifica e un dialogo più intenso tra chiesa e famiglia.

Una seconda sfida riguarda la scuola, verso cui la comunità cristiana in genere è poco attenta. Eppure dalla scuola passano tutti i ragazzi. Il contributo di maggior valore che la chiesa può dare perché la scuola svolga al livello più alto il suo compito, è quello di aiutarla ad essere non solo un luogo di trasmissione di cultura, ma di elaborazione di un progetto educativo per questo tempo. Ciò passa dall’accettare le sfide proprie della scuola: suscitare curiosità, far crescere il gusto della conoscenza e di una comprensione della vita che non ammetta superficialità e scorciatoie, introdurre al desiderio di andare sempre oltre.

Anche la trasmissione della fede, che è uno dei suoi compiti fondamentali, è per la chiesa di oggi più difficile rispetto al passato. Gli snodi critici principali sono quelli di offrire una fede che è per la vita; dunque, che va oltre l’aspetto dottrinale e che si presenta come messaggio vivo che trasforma. Per far questo, occorre che tale trasmissione avvenga in un contesto umanamente significativo, fatto di relazioni autentiche e di un’umanità matura e realizzata. È soprattutto l’umanità degli educatori che può mostrare la fede e come essa renda migliore la vita.

Parlando di educazione, il pensiero corre a G. Lazzati, di cui ricorrono i 20 anni della morte. Attraverso e oltre le molteplici responsabilità della sua vita, fu soprattutto educatore: adulto a servizio delle giovani generazioni fino alla fine della sua vita, per far balenare davanti ai giovani l’ideale severo e grande di una vita che nella coscienza ha la sua dignità e che è chiamata a libertà, costi quello che costi. E Lazzati, che era passato attraverso il campo di concentramento, questa testimonianza di libertà la poteva dare in maniera credibile.

 

 

Fonte: La Settimana  maggio 2006

Paola Bignardi

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