EDUCAZIONE. QUANDO UN ALUNNO DIVENTA MAESTRO

«Il desiderio di felicità dei ragazzi c'è», anche in un mondo che rema contro. E un rapporto educativo non risparmia nulla della realtà, «perché l'altro possa scoprire se stesso». Ne abbiamo parlato con suor Cristina Merli, insegnante salesiana

EDUCAZIONE. QUANDO UN ALUNNO DIVENTA MAESTRO


 

«Il desiderio di felicità dei ragazzi c'è», anche in un mondo che rema contro. E un rapporto educativo non risparmia nulla della realtà, «perché l'altro possa scoprire se stesso». Ne abbiamo parlato con suor Cristina Merli, insegnante salesiana

 

di Paolo Perego, tratto da clonline.org

 

«Se non partiamo dai bisogni reali finiamo per contorcerci sulle nostre idee. Per cui ci troviamo a decidere noi quali siano i bisogni dei ragazzi, ma facciamo fatica ad ascoltarli. “Il suo bisogno è imparare a studiare”. Ma chi lo ha detto? Ma perché, invece, non andiamo a vedere quali sono i suoi desideri profondi?». Solo partendo da qui si può arrivare al tema dello studio. Suor Cristina Merli, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, insegna Italiano in un liceo salesiano di Varese. Un passato anche da preside, oggi calca le cattedre delle superiori, tra ragazzi di 16, 17, 18 anni. Anche lei si è confrontata con la provocazione di Julián Carrón sull’educazione, attraverso le pagine del suo ultimo libro Educazione. Comunicazione di sé e l’incontro dello scorso 30 gennaio: «Come dice lui, e prima di lui don Giussani, bisogna fare i conti con la realtà. In educazione si parte da lì».


Cosa vuol dire per lei?
È il passo a cui siamo chiamati noi educatori. Fare noi i conti con la realtà, cosa che può aiutarci a capire meglio come aiutare i ragazzi a farci i conti. Che poi, sono proprio loro che ce lo insegnano.

 

Educatori educati dagli educandi… Suona un po’ così
Don Bosco diceva che i giovani sono i nostri maestri, non solo i destinatari dell’educazione. Nella mia vita questo è accaduto tantissime volte. Anche in quest’ultimo periodo di pandemia. Quando è cominciata la Dad, c’era il problema di doversi inventare un nuovo metodo per fare scuola. Ed io l’ho imparato da loro.


In che modo?
Per esempio, era arrivata la richiesta da parte di una collega di un’altra scuola che cercava un libro su Dante per un ragazzino cinese di seconda media. Era tornato in Cina, in fuga dall’epidemia italiana, ma doveva finire l’anno. Io non ho trovato molto. Ne ho parlato con i miei studenti e loro: «Prof, noi abbiamo studiato tutto l’anno l’Inferno. Possiamo inventarci noi qualcosa per questo ragazzo». Da questo è nato un modo diverso di fare lezione con loro. È nato da loro! Si trattava solo di seguire quello che accadeva, rispondendo alla realtà. Hanno realizzato dei video-racconti sui diversi canti. E si sono divertiti, hanno imparato molto di più che non ad ascoltarmi fare una parafrasi. Fare i conti con la realtà mette in gioco noi, mette in gioco loro. Non saprei dire, tante volte, chi parte per primo a educare. Come se ci fosse un circolo virtuoso. Certo, la scintilla a un certo punto si deve accendere. Ma quando parti dal reale è più facile che si accenda.

 

Cosa non la fa accendere? 
È un mondo dove prevale l’idea della soddisfazione di un piacere e non del desiderio del cuore. È il tema del desiderio. Anche san Giovanni Paolo II parlava di «abolizione del desiderio», quel nichilismo di cui parla Carrón. Non è un problema dell’ultima ora. Certo, la società di oggi, anche attraverso il digitale, sta portando una difficoltà in più rispetto al far emergere nei ragazzi questo desiderio che si portano dentro. Ma c’è! Lo vedo quotidianamente, nei loro occhi e nelle loro parole. Il compito è risvegliarlo ogni giorno. 


Ma che cos’è questo bisogno profondo che lei vede?
Il desiderio – lo esplicitano anche a lezione – di felicità. Vogliono essere felici. Poi c’è la fatica di distinguere cosa sia la felicità. La carriera? Per alcuni è questo “il sogno”. Allora provi ad andare a fondo. «Ma perché?». «Voglio essere qualcuno nella vita». Come dire, voglio essere riconosciuto. Il desiderio è sempre di compimento. Il nostro compito allora è testimoniare che qualsiasi cosa uno faccia deve rispondere a questa domanda: «Che cos’è per me la felicità?». E tanti ragazzi, ho visto, ce l’hanno chiaro. Che poi è il desiderio di sentirsi amati. Tra di loro, in questo tempo, molti hanno scoperto chi sono i veri amici, “chi tiene a me e a chi tengo io”. Capire questo è la strada per scoprire che sei amato da Dio. E quando accade puoi amare anche tu, gli altri, la realtà.

 

Più degli adulti, in tanti casi…
Quando tutto si chiude, i ragazzi riescono ad aprire. In una mia classe almeno un terzo ha preso questi mesi come occasione. Me lo hanno detto: «Potevo adagiarmi, anche con la libertà di tenere spenta la webcam, tanto ci avrebbero promossi tutti, oppure provare a pensare che questo momento era utile per il futuro». Non ci avevo pensato neppure io. È la consapevolezza che già da ora iniziano a costruire ciò che saranno, che sono chiamati oggi in ogni cosa che vivono. 


Ma allora qual è la responsabilità di chi educa? Cosa vuol dire comunicare sé?
Il giorno della festa di don Bosco, abbiamo organizzato dei giochi online. C’erano delle domande aperte su di lui. Che cosa ti colpisce di don Bosco? E così via… Sono emerse delle cose interessanti, ma alla fine mi è venuto spontaneo domandargli: «Quello che apprezzate di lui, lo vedete nei vostri prof?». In 22 mi hanno detto: «Lo vediamo in voi. Vi fidate di noi. E quando ci vedete tristi o abbiamo un problema, voi ci siete, non ci lasciate mai stare. Ci cercate sempre». Capisci? Ci guardano, e non per la coerenza del nostro comportamento, ma per quello che in noi colgono di ciò che amiamo. «Uno solo è il mio desiderio. Vedervi felici nel tempo e nell’Eternità», diceva don Bosco. Ed è la stessa passione che abbiamo per loro. 
 

Tornando alla questione della realtà: spesso prevale la convinzione di risparmiare ai propri ragazzi certe fatiche, certe circostanze.
È l’alternativa tra il tentare di metterli in una bolla oppure lanciarli dentro, accompagnarli, essere testimoni che la realtà si può vivere. Io mi prendo cura di lui… Ma poi devo lasciarlo andare. Solo nell’incontro con la realtà l’altro può essere se stesso, capire chi è. Per questo, al fondo, la realtà è sempre buona, anche se tante volte può essere faticosa e avversa. Anche quando ci pone delle sofferenze. E noi dobbiamo permettere ai nostri bambini e ragazzi di viverle. È difficile per un genitore. Chi vorrebbe vedere suo figlio che soffre? Ma se li priviamo di questa bontà che sta dentro anche alla sofferenza, li priviamo di un passo di crescita fondamentale. Quando la realtà è dura dobbiamo permettere ai nostri figli di affrontarla. Il problema allora è che forse dobbiamo iniziare a permetterlo a noi stessi, mentre a volte siamo noi per primi a cercare la bolla in cui rifugiarci.

 

Abbiamo paura della realtà e pensiamo sia “troppo” per loro…
Per “lasciare andare” occorre avere una grande fiducia nei ragazzi, nelle loro potenzialità. Ma anche una grande fiducia in Dio. Lui tiene ancora più di noi ai nostri ragazzi. È il primo che ci chiede di vivere la realtà: si è incarnato! Penso sempre ai passi della Sua vita che mostrano come Lui stesso abbia imparato dalla realtà. L’esempio della cananea. Lei è davanti a Gesù che non guarisce la figlia: lei è pagana, lui è stato mandato per i figli di Israele. E lei insiste. Io credo sia stato nell’incontro con lei che Gesù ha capito che la sua missione era per tutti. Oppure, la peccatrice che entra in casa di Simone e si butta ai Suoi piedi, li bagna di lacrime e li asciuga con i capelli. Gesù, tempo dopo, laverà i piedi ai suoi… Mi viene da pensare che lo abbia imparato da lei. Lui ci mostra che nell’incontro con la realtà possiamo crescere, diventare quello che siamo chiamati ad essere, sempre più noi stessi. 

 

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