Quando Gesù entra nella casa dei suoi discepoli, questa diventa la sua casa. L'invitato diventa ospite. Lui che prima è stato invitato ora invita. I due discepoli che si sono fidati dello sconosciuto fino a farlo entrare nel loro spazio intimo ora sono condotti nella vita intima del loro padrone di casa.
del 01 gennaio 2002
«Prendete e mangiate»
Quando Gesù entra nella casa dei suoi discepoli, questa diventa la sua casa. L’invitato diventa ospite. Lui che prima è stato invitato ora invita. I due discepoli che si sono fidati dello sconosciuto fino a farlo entrare nel loro spazio intimo ora sono condotti nella vita intima del loro padrone di casa. «Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Così semplice, così ordinario, così ovvio e -tuttavia -così diverso! Che altro puoi fare quando condividi il pane con i tuoi amici? Lo prendi, lo benedici, lo spezzi e lo dai. Per questo è fatto il pane: essere preso, benedetto, spezzato e dato. Niente di nuovo, niente di sorprendente. Avviene ogni giorno, in innumerevoli case. È parte essenziale della vita. Non possiamo vivere veramente senza il pane che viene preso, benedetto, spezzato e dato. Senza di esso non c’è commensalità, non c’è comunità, non c’è alcun legame d’amicizia, non c’ è pace, ne amore e nemmeno speranza. Ma con esso, tutto può diventare nuovo. Forse ci siamo dimenticati che l’eucaristia è un semplice gesto umano. I paramenti, le candele, gli accoliti,. i libri grandi, le braccia tese, il grande altare, i canti, la gente -niente sembra molto semplice, molto ordinario, molto ovvio. Spesso abbiamo bisogno di un libretto per seguire la cerimonia e per capirne il significato. Tuttavia, niente vuole essere diverso da ciò che accadde in quel piccolo villaggio tra i tre amici. C’è del pane sulla mensa; c’è del vino sulla mensa. Il pane viene preso, benedetto, spezzato e dato. Il vino viene preso, benedetto e dato. Questo è ciò che avviene attorno ad ogni mensa che voglia essere una mensa di pace. Ogni volta che invitiamo Gesù nella nostra casa, cioè adire nella nostra vita con tutte le sue luci e ombre, e gli offriamo il posto d’onore alla nostra tavola, egli prende il pane e il calice e li dà a noi dicendo: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me». Siamo sorpresi? Veramente no. Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino? Non sapevamo già che egli non era uno sconosciuto per noi? Non eravamo già consapevoli che colui che era stato crocifisso dai nostri capi era vivo e stava con noi? Non lo avevamo visto prima prendere il pane, benedirlo, spezzarlo e darcelo? Fece così davanti a una grande folla che aveva ascoltato per ore la sua parola, lo fece nella sala al piano superiore prima che Giuda lo consegnasse alla sofferenza e lo ha fatto innumerevoli volte quando siamo giunti al termine di una giornata lunga ed egli si unisce a noi intorno alla mensa per un pasto semplice. L’eucaristia è il gesto più comune e più divino immaginabile.
Questa è la verità di Gesù. Così umano, eppure così divino; così familiare, eppure così misterioso; così nascosto, eppure così rivelante! Ma questa è la storia di Gesù che, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la con- dizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8). È la storia di Dio che vuole venire vicino a noi, così vicino che possiamo vederlo con i nostri oc- chi, udirlo con i nostri orecchi, toccarlo con le nostre mani; così vicino che non c’è niente tra noi e lui, niente che separi, niente che divida, niente che crei distanza. Gesù è Dio-per-noi, Dio-con-noi, Dio-in-noi. Gesù è Dio che si dona completamente, che elargisce se stesso a noi senza riserve. Gesù non trattiene e non si aggrappa ai suoi beni. Egli dona tutto ciò che c’è da dare. «Mangiate, bevete, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue... Eccomi per voi!». Tutti conosciamo questo desiderio di dare noi stessi a tavola. Diciamo: «Mangia e bevi; l’ho fatto per te. Prendine di più; è lì per te, per goderne, per esserne fortificato, sì, per farti sentire quanto ti voglio bene». Ciò che desideriamo non è semplicemente dare del cibo, ma dare noi stessi. «Sii mio ospite», diciamo. E mentre incoraggiamo i nostri amici a mangiare alla nostra mensa, vogliamo dire: «Sii mio amico, mio compagno, il mio amore -sii parte della mia vita -voglio darti me stesso». Nell’eucaristia Gesù dona tutto. Il pane non è semplicemente un segno del suo desiderio di diventare il nostro cibo; il calice non è solo un segno della sua volontà di essere la nostra bevanda. Il pane e il vino diventano il suo corpo e il suo sangue nel darsi. Veramente il pane è il suo corpo dato per noi, il vino il suo sangue versato per noi. Come Dio si fa completamente presente per noi in Gesù, così Gesù si fa completamente presente a noi nel pane e nel vino dell’eucaristia. Dio non soltanto si è fatto carne per noi tanti anni fa in un paese lontano. Dio si fa anche cibo e bevanda per noi ora in questo momento della celebrazione eucaristica, proprio dove siamo insieme intorno alla tavola. Dio non si tira indietro; Dio dona tutto. Questo è il mistero dell’incarnazione. Questo è anche il mistero dell’eucaristia. L’incarnazione e l’eucaristia sono le due espressioni dell’immenso amore di Dio che dona se stesso. E così il sacrificio sulla croce e il sacrificio sulla mensa sono un unico sacrificio, un dono di se divino e completo che raggiunge tutta l’umanità nel tempo e nello spazio.
La parola che meglio esprime questo mistero dell’amore totale di Dio che dona se stesso è ‘comunione’. È la parola che contiene la verità secondo la quale, in e attraverso Gesù, Dio vuole non soltanto insegnarci, istruirci o ispirarci, ma farsi uno con noi. Dio desidera essere pienamente unito a noi in modo che tutto di Dio e tutto di noi possa essere unito insieme in un amore eterno. Tutta la lunga storia della relazione di Dio con noi esseri umani è una storia di comunione che si approfondisce sempre di più. Non si tratta semplicemente di una storia di unioni, separazioni e unioni restaurate, ma di una storia in cui Dio è in continua ricerca di modi sempre nuovi per fare intimamente comunione con coloro che sono stati creati a immagine di Dio. Agostino diceva: «Il mio cuore è inquieto finche non riposa in te, o Dio», ma quando esamino la storia tortuosa della nostra salvezza, vedo che non soltanto noi desideriamo ardentemente appartenere a Dio, ma che anche Dio anela appartenere a noi. Sembra come se Dio ci stesse dicendo a gran voce: «Il mio cuore è inquieto fin che non potrà riposare in voi, mie amate creature». Da Adamo ed Eva ad Abramo e Sara, da Abramo e Sara a Davide e Betsabea e da Davide e Betsabea a Gesù e sempre da allora, Dio grida forte per essere ricevuto dai suoi. «Vi ho creato, vi ho dato tutto il mio amore, vi ho guidato, offerto il mio sostegno, promesso l’avveramento dei desideri del vostro cuore: dove siete, dov’ è la vostra risposta, dov’è il vostro amore? Cos’altro vi devo fare affinché mi amiate? Non cederò, continuerò a tentare. Un giorno scoprirete quanto io desideri il vostro amore!». Dio desidera comunione: una unità che sia vitale e viva, un’intimità che venga da entrambe le parti, un vincolo che sia veramente mutuo. Niente di forzato o ‘voluto’, ma una comunione liberamente offerta e liberamente ricevuta. Dio prova tutte le vie per rendere possibile questa comunione. Dio si fa un bambino che dipende dalle cure umane, un ragazzo bisognoso di una guida, un maestro in cerca di allievi, un profeta che chiede a gran voce dei seguaci e, infine, un uomo morto trafitto dalla lancia di un soldato e de- posto in una tomba. Proprio alla fine della storia, egli sta lì a guardarci e ci chiede con gli occhi pieni di te- nere attese: «Mi ami?» e, di nuovo, «Mi ami?» e, una terza volta, «Mi ami?». È questo intenso desiderio di Dio di entrare nella relazione più intima con noi che costituisce il nucleo della celebrazione eucaristica e della vita eucaristica. Dio non soltanto vuole entrare nella storia umana divenendo una persona che vive in un’epoca specifica e in un paese specifico, ma egli vuole diventare il nostro cibo e la nostra bevanda quotidiani in ogni tempo e in ogni luogo. Quindi Gesù prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà a noi. E allora, quando vediamo il pane nelle nostre mani e lo portiamo alla bocca per mangiarlo, sì, allora i nostri occhi si aprono e lo riconosciamo. L’eucaristia è riconoscimento. È la piena comprensione che colui che prende, benedice, spezza e dona è Colui che, dall’inizio del tempo, ha desiderato entrare in comunione con noi. La comunione è ciò che Dio vuole e ciò che noi vogliamo. È il grido più profondo del cuore di Dio e del nostro, poiché siamo fatti con un cuore che può essere soddisfatto soltanto da colui che lo ha fatto. Dio ha creato nel nostro cuore una sete di comunione che nessuno ad eccezione di Dio può, e vuole, appagare. Dio sa questo. Invece noi raramente. Continuiamo a cercare da qualche altra parte quell’esperienza di appartenenza. Guardiamo lo splendore della natura, le agitazioni della storia e l’attrattiva delle persone, ma quella semplice frazione del pane, così comune e non spettacolare, sembra un luogo così improbabile per trovare la comunione cui aneliamo.
Eppure, se abbiamo pianto le nostre perdite, se lo abbiamo ascoltato lungo il cammino e se lo abbiamo invitato a entrare nel nostro essere più recondito, sapremo che la comunione che abbiamo aspettato di ricevere è la stessa comunione che egli ha aspettato di dare. C’è una frase nel racconto di Emmaus che ci conduce proprio dentro il mistero della comunione. È la frase: «... lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Nello stesso momento in cui i due amici lo riconoscono nello spezzare il pane, egli non è più con loro. Quando il pane viene dato loro per mangiarne, essi non lo vedono più sedere con loro alla mensa. Quando mangiano, egli si è fatto invisibile. Quando entrano nella comunione più intima con Gesù, lo sconosciuto -divenuto amico -non è più con loro. Proprio quando egli si fa più presente a loro, diventa anche colui che è assente. Qui tocchiamo uno degli aspetti più sacri dell’eucaristia: il mistero per cui la comunione più profonda con Gesù è una comunione che avviene in sua assenza. I due discepoli in cammino sulla strada per Emmaus lo avevano ascoltato per molte ore, erano andati di villaggio in villaggio, lo avevano aiutato nella sua predicazione, avevano riposato e mangiato insieme a lui. Nel corso dell’anno, egli era diventato il loro maestro, la loro guida, il loro capo. Tutte le loro speranze per un futuro nuovo e migliore erano in- centrate su di lui. Tuttavia... non erano mai arrivati a conoscerlo pienamente, a comprenderlo pienamente. Spesso aveva detto loro: «... voi ora non lo capite, ma lo capirete più tardi». Essi non capivano veramente cosa stesse cercando di dire. Pensavano di essere più vicini a lui che a qualunque altra persona che avessero mai conosciuto. Tuttavia egli continuava adire: «Ve l’ho detto adesso... cosicché quando non sarò più con voi ricorderete e comprenderete». Un giorno aveva persino detto che era bene che egli se ne andasse in modo che lo Spirito potesse venire e condurli alla piena intimità con lui. Il suo Spirito avrebbe aperto i loro occhi e avrebbe fatto loro comprendere pienamente chi egli fosse e perché fosse venuto a stare con loro. Per tutto il tempo trascorso con i discepoli non c’era stata piena comunione. Sì: loro erano stati con lui ed erano stati seduti ai suoi piedi; sì: erano stati suoi discepoli, persino suoi amici. Ma non erano ancora entrati nella piena comunione con lui. Il suo corpo e il suo sangue e il loro corpo e il loro sangue non erano ancora diventati uno.
In molti sensi, egli era stato ancora l’altro, quello lontano, colui che va avanti a loro e mostra loro la via. Ma quando essi mangiano il pane che egli dà loro e lo riconoscono, quel riconoscimento è una profonda consapevolezza spirituale che, ora, egli dimora nel loro essere più intimo, che, ora, egli respira in loro, parla in loro, vive in loro. Quando mangiano il pane che egli dà loro, la loro vita viene trasformata nella sua vita. Non sono più loro a vivere, ma Gesù, il Cristo, che vive in loro. E proprio in quel momento più sacro di comunione, egli è svanito dalla loro vista. Questo è ciò che viviamo nella celebrazione eucaristica. Questo è ciò che viviamo anche quando viviamo una vita eucaristica. È una comunione così intima, così santa, così sacra e così spirituale che i nostri organi di senso non riescono più a percepirla. Non riusciamo più a vederlo con i nostri occhi mortali, a sentirlo con i nostri orecchi mortali o a toccarlo con i nostri corpi mortali. È venuto a noi in quel luogo dentro di noi dove il potere delle tenebre e del male non possono giungere, dove la morte non ha accesso. Quando ci raggiunge e mette il pane nelle nostre mani e porta il calice alle nostre labbra, Gesù ci chiede di lasciare andare l’amicizia più facile che abbia- mo avuto con lui finora e di lasciare andare i sentimenti, le emozioni e anche i pensieri che appartengono a quell’amicizia. Quando mangiamo del suo corpo e beviamo del suo sangue, accettiamo la solitudine che viene dal non averlo più alla nostra tavola come un compagno che ci consola nella conversazione, che ci aiuta ad affrontare le perdite della nostra vita quotidiana. È la solitudine della vita spirituale, la solitudine del sapere che egli ci è più vicino di quanto noi possiamo mai esserlo a noi stessi. È la solitudine della fede. Continueremo a invocare: «Signore, pietà»; continueremo ad ascoltare le Scritture e il loro significato; continueremo a dire: «Sì, credo». Ma la comunione con lui va molto al di là di tutto questo. Ci porta al luogo in cui la luce acceca i nostri occhi e dove tutto il nostro essere è avvolto nella cecità. È in quel luogo di comunione che gridiamo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È, inoltre, in quel luogo che il nostro vuoto ci fa pregare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». La comunione con Gesù significa diventare come lui. Con lui siamo inchiodati sulla croce, con lui siamo deposti nella tomba, con lui siamo risuscitati per i accompagnare nel loro viaggio i viaggiatori che si so- I no perduti. La comunione, il divenire Cristo, ci conduce a un nuovo regno dell’essere. Ci introduce nel Regno. Là le vecchie distinzioni tra felicità e tristezza, successo e fallimento, preghiera e maledizione, salute e malattia, vita e morte, non esistono più. Là non apparteniamo più al mondo che continua a dividere, giudicare, separare e valutare. Là apparteniamo a cri- sto e Cristo a noi, e con Cristo apparteniamo a Dio. All’improvviso i due discepoli, che hanno mangiato il pane e lo hanno riconosciuto, sono di nuovo soli. Ma non con l’isolamento con cui avevano cominciato il viaggio. Sono soli, insieme, e sanno che è stato creato un nuovo legame tra loro. Non guardano più in basso con il volto triste. Si guardano in faccia e di- cono: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». La comunione crea comunità. Cristo, vivendo in loro, li ha uniti in un modo nuovo. Lo Spirito del Cristo risorto, che è entrato in loro nel mangiare il pane e nel bere dal calice, ha fatto loro riconoscere non soltanto Cristo stesso, ma anche ognuno di loro come membro di una nuova comunità di fede. La comunione ci fa guardare l’un l’altro e parlare l’uno all’altro non delle notizie più recenti, ma di colui che camminava con noi. Ci scopriamo tutti come perso- ne che si appartengono, perché ognuno di noi appartiene a lui. Siamo soli, perché egli è scomparso dalla nostra vista, ma siamo insieme perché ognuno di noi è in comunione con lui diventando così un unico corpo attraverso di lui. Abbiamo mangiato il suo corpo, bevuto il suo sangue. Così facendo, tutti noi che abbiamo preso dello stesso pane e dello stesso calice siamo diventati un solo corpo. La comunione crea comunità, perché il Dio che vive in noi ci fa riconoscere il Dio nei nostri simili. Noi non possiamo vedere Dio nell’altra persona.
Soltanto Dio in noi può vedere Dio nell’altra persona. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo: «Lo Spirito parla allo Spirito, il Cuore parla al Cuore, Dio parla a Dio». La nostra partecipazione alla vita intima di Dio ci porta a un modo nuovo di partecipazione alla vita l’uno dell’altro. Tutto ciò può suonare molto ‘irreale’, ma quando lo viviamo, diventa più reale della ‘realtà’ del mondo. Come dice Paolo: «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? poiché c’ è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10,16- 17). Questo corpo nuovo è un corpo spirituale, foggiato dallo Spirito d’ amore. Si manifesta in modi molto concreti: nel perdono, nella riconciliazione, nel mutuo sostegno, nell’aiuto alle persone nel bisogno, nella solidarietà con tutti quelli che soffrono e in una preoccupazione sempre maggiore per la giustizia e la pace. In questo modo la comunione non crea soltanto comunità, ma la comunità conduce sempre alla missione.
Henri Jozef Machiel Nouwen
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