Distinguiamo tra capacità di innamorarsi (“eros”) e sessualità (“venere”), che può sussistere anche al di fuori dell'innamoramento. Anche se diciamo di volere una donna, quando ricerchiamo il piacere sensoriale in sé, una donna è l'ultima cosa che vogliamo. E quando le cose stanno così noi sentiamo di sciupare, di sprecare qualcosa di straordinariamente grande che è in noi.
Il pensiero debole, comune alla mentalità odierna, ci induce a credere che il significato essenziale dell’eros consista nella sessualità. Che questa sia l’espressione più libera e piena della nostra umanità. Ma – sostiene Lewis – non è così: essa è al contrario l’espressione più completa della nostra appartenenza al mondo animale con cui appunto condividiamo l’esperienza della sessualità, della capacità generatrice. Lewis distingue perciò tra capacità di innamorarsi (che chiama “eros”) e sessualità (che chiama “venere”), la quale ultima naturalmente può sussistere anche al di fuori dell’innamoramento.
Si tratta di una cosa che sappiamo tutti, ma che oggi ci dimentichiamo. A tutti noi infatti è capitato di essere innamorati e in quei momenti ci siamo accorti che quando ci troviamo in quello stato d’animo non siamo nella condizione di pensare al sesso, poiché siamo troppo occupati a pensare a una persona.
Quando un uomo si innamora di una donna (vale anche il contrario, ovviamente, come sottolinea Lewis), che lei sia una donna è di gran lunga meno importante del fatto che lei sia sé stessa. L’uomo si sente pervaso da un desiderio che può anche non essere tinto di sessualità (venere). Se gli chiedeste che cosa desideri, la sua risposta sincera sarebbe “continuare a pensare a lei”. È questa capacità di innamorarsi ciò che rende pienamente umano e completo l’eros: è questa capacità che agli animali non è data.
Quando in un uomo si risveglia il desiderio sessuale, egli non ha l’impressione che questo sia stato la radice da cui si è sviluppato tutto il resto. In realtà c’è altro in lui che, dopo aver conquistato il resto, giunge anche alla conquista della sessualità: l’eros, appunto.
Chi lo ha ben spiegato è George Orwell, in 1984, quando l’eroe (ben meno umano degli animali della fattoria) prima di abbandonarsi a effusioni con l’eroina vuole essere così rassicurato.
“Ti piace farlo? Non intendo con me, voglio dire la cosa in sé” (e non è soddisfatto finché non riceve la risposta che voleva): “Adoro farlo”.
Il desiderio sessuale (venere), senza altro da sé, vuole quello, vuole la cosa in sé; l’eros (l’innamoramento) vuole invece l’amata. La cosa è un piacere sensoriale, un evento che si verifica nel nostro corpo: anche se diciamo di volere una donna, quando ricerchiamo il piacere sensoriale in sé, una donna è l’ultima cosa che vogliamo.
E quando le cose stanno così noi sentiamo di sciupare, di sprecare qualcosa di straordinariamente grande che è in noi. Non riesco a dirlo bene, ma possiamo leggerlo nella cruda lucidità del sonetto 129 di Shakespeare. Sciupio vitale in scempio di vergogna È lussuria in azione, e lì, lussuria È spergiura, di sangue e infamia sozza, brutale estrema incredibile cruda. Goduta appena, subito si spregia, oltre ragione l’agogni, ma poi oltre ragioni l’odii, come l’esca posta a far impazzire chi l’inghiotte. Pazza quando possiede e quando è in caccia, nel poi nell’atto e nel cercarlo, estrema; nell’attimo beata e già un disastro, gioia al progetto, sogno se la perdi. Ciò ognun conosce, ma non sa dal cielo Trarsi fuori, che mena a questo inferno.
L’eros (l’innamoramento) infatti fa desiderare all’uomo non una donna, ma una donna in particolare, l’innamorato desidera l’amata per quello che è essa stessa, e non per il piacere che può procurare. Insomma l’eros trasforma ciò che per eccellenza è un piacere da bisogno nel più antico piacere da apprezzamento. Ci fa vedere infatti l’oggetto di un nostro bisogno non in rapporto al nostro bisogno, ma come qualcosa di ammirevole in sé, e importante anche al di là del suo rapporto con il bisogno dell’innamorato. Il desiderio sessuale (venere), separato dall’eros, come qualsiasi altro desiderio, riguarda soltanto noi stessi: nella dimensione dell’eros è piuttosto qualcosa che riguarda l’amata.
Così dobbiamo rileggere la famosa pagina del V canto dell’Inferno, dove Dante condanna in Francesca proprio la ricerca di un amore che si rivolge solo a sé stesso, così è chiaro che l’essere abbracciata per l’eternità a Paolo è contrappasso, non romantica ribellione a Dio.
Amor, ch‘al cor gentil ratto s’apprende prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense.
È comune, lo ripeto, verificare come da innamorati non si dia importanza alla sessualità, e come – viceversa – quando si dà maggiore importanza al desiderio sessuale essere innamorati non importi gran che. E ciò che ancora di più fa parte del sentire comune (oggi taciuto) è che l’eros (l’innamoramento) non mira esclusivamente alla felicità, che anzi, una volta in noi, ci può far preferire l’infelicità accanto all’amata alla felicità in qualunque altra condizione. Anche quando è chiaro che la condizione verso la quale ci dirigiamo è di infelicità, diciamo “sempre meglio che separarci, meglio infelici con lei, che felici senza, che i nostri cuori si spezzino, ma che si spezzino insieme”. Se la voce dell’eros non parla così dentro di noi, allora non è la voce dell’eros. È questa la grandezza e il terrore dell’amore: è per questo (non per difetti di poesia) che Dante sviene al termine del colloquio con Francesca. Lui ha sperimentato questa forza e questo linguaggio. Qui sta il seme dannoso dell’eros: esso ci parla come un dio, esso (come è accaduto a Paolo e Francesca) tende a trasformare l’essere innamorati in una specie di religione.
Esso invece, afferma Lewis, è solo lo strumento attraverso il quale ci viene insegnato come bisognerebbe amare Dio: è come se chi ci ha creati ci dicesse: ecco così, con questa intensità, con questa totalità, senza badare a quanto può costare, voi dovete amarmi, e amare l’ultimo dei miei fratelli. Se così non accade esso si trasforma in dio, e viene invocato ad autorità, a legge, la legge dell’amore, in nome della quale si possono compiere atti di barbarie, travestiti da atti di pietà (è per amore che ho trascurato i miei genitori, rinunciato ai miei bambini, ingannato e tradito il mio compagno). Esso si presenta sotto le spoglie dell’eternità, ma tutti sanno che il mondo risuona dei lamenti per la sua volubilità; promette fedeltà eterna, in tutta sincerità (nessuno, che sia innamorato, comincia una storia a tempo determinato, anche quando dice “sto con te perché sto bene con te”, questo nel segreto dell’animo è desiderato come senza fine). Insomma l’eros è spinto, per sua natura, a promettere ciò che non può dare, senza essere sostenuto da qualcos’altro. Esso pronuncia i voti, ma noi dobbiamo mantenerli, siamo noi che dobbiamo faticare per far sì che la vita sia veramente ciò che per un attimo abbiamo intravisto. Da solo, l’eros non ci conduce a questo, ha bisogno di aiuto, di essere governato, dalla nostra volontà.
Eros, o muore, o diventa un dio-demone: l’unica possibilità che ha di mantenersi è sottomettersi a Dio. Se non vuole farlo, meglio sarebbe per lui morire, ma può invece continuare a vivere incatenando due persone senza pietà in un vicendevole tormento, ciascuno bisognoso di ricevere, ma incapace di dare, deciso a rifiutarsi di dare, geloso della propria libertà, in lotta per il predominio sulla libertà dell’altro. Leggiamo Anna Karenina, come consiglia Lewis, senza illuderci che certe cose accadano solo in Russia. E per rimanere in Italia proviamo a rileggere quella novella cruda di Verga, La lupa:
Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Gli affetti naturali dunque non sono autosufficienti; affinché il sentimento conservi la dolcezza iniziale è necessario che qualcos’altro (saper vivere, buon senso; bontà; pienezza di vita cristiana incarnata in un qualche rapporto) venga in soccorso del puro sentimento. Immaginiamo la natura umana come un giardino, in esso germogliano affetti fiorenti e fruttuosi, ma il compito di coltivare questi affetti è affidato all’uomo: alla nostra volontà, che può apparire arida e fredda, ma i cui servizi faticosi e spesso di esito negativo ci sono indispensabili.
Amare è cioè un atto della volontà libera che decide di essere fedele all’essere amato. Questo comporta necessariamente la possibilità di soffrire (tutti ne abbiamo fatto esperienza): potrebbe nascere da questa considerazione l’idea di assicurarci contro il dolore (non è proprio quello che ci suggerisce la società odierna? La sua affabulazione è continuamente rivolta alla lenizione del dolore: analgesici, antidolorifici, ripari contro qualsiasi dolore fisico e non solo, atmosfere vellutate, comodità…). Ma ammesso che questa sia la migliore politica da adottare, siamo sicuri che la natura, che Dio ci dia questa possibilità: in definitiva, sappiamo che anche Cristo, ormai prossimo alla fine, è arrivato a dire “Perché mi hai abbandonato”. (Dico tra parentesi che l’esperienza dell’essere abbandonati da Dio è una esperienza che prima o poi fanno tutti, è quella – per dirla con Francesco Renga – che ci fa sentire inutili le nostre preghiere e dunque ci dà il senso di una terribile solitudine, ma è anche l’esperienza decisiva che ci dice la sua esistenza).
Insomma l’amore, questo amore che consente agli altri di continuare ad essere, di non rivelarsi effimeri quali sono se privati della carità, non ci lascia vie di fuga: amare significa essere vulnerabili, amare è anche esperienza di sofferenza; anzi finiamo con il comprendere che amare è possibile solo in proporzione a quanto siamo stati capaci di accettare la sofferenza, anche la sofferenza della perdita. Se volete avere la certezza che il vostro cuore non si spezzi, che rimanga intatto, proteggetelo, avvolgetelo con cura in piccoli passatempi e piccoli lussi, non donatelo a nessuno. Chiudetelo con un lucchetto nella bara del vostro egoismo: lì, al sicuro da ogni pericolo di soffrire, il vostro cuore non si spezzerà, ma cambierà, diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia (soffrire per amore) è la dannazione: l’unico posto oltre al cielo, dove potrebbe stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e turbamenti dell’amore è l’inferno.
Se dunque come ha detto Wilhelmsen (La metafisica dell’amore) “Per un ente l’essere amato significa precisamente questo: esistere”, allora questa esperienza deve essere possibile per tutti, e perché ciò accada occorre che ci sia Qualcuno disposto a giocarsi in libertà e fedeltà con ciascuno di noi. E questo Qualcuno deve essere Dio. I cristiani lo trovano scritto in Giovanni: “Non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è Dio che ha amato noi”. E da qui derivano conseguenze che oggi non ci interessano. A noi oggi interessa concludere con un test, che può rivelarci se il nostro cuore è aperto alla sofferenza o è chiuso alla scommessa che nasce dall’amare in pienezza di bisogno, dono, apprezzamento: si tratta di rispondere a una domanda che ci pone Brunner, in Eros und Liebe: La formula per l’amore non è: io ti amo perché sei così (e finché sei così) (il test cioè non è: trovi l’altro simpatico, carino, eccetera?; il test è semplicemente: puoi dire onestamente: è bene che egli ci sia?; cioè si tratta di passare dal dire in te amo questo, al dire ti amo proprio perché sei tu – e tu non sarai sempre come ora, potrai cambiare, trasformarti, nel fisico e nello spirito, ma io dirò ancora: è bene che tu ci sia, senza aggiungere per me, o per altri, no: semplicemente, è bene che tu ci sia; in kazako l’espressione con cui si dice “ti amo” tradotta letteralmente vale “io ti guardo bene, ho su di te uno sguardo buono”). Questo sguardo buono, il sesto ingrediente, è quello che Eugenio Montale ci rivela nelle xenia dedicate alla moglie
L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate dediche di Du Bos, il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, il Valery di Alain, l’originale dei Canti Orfici - e poi qualche pennello da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silicio. Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura di nafta e sterco. Certo hanno sofferto tanto prima di perdere la loro identità. Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio stato civile fu dubbio fin dall’inizio. Non torba m’ha assediato, ma gli eventi di una realtà incredibile e mai creduta. Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo. Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono Le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Arrivati a questo punto, il nostro viaggio si conclude là dove anche Dante lo ha concluso, dove volontà di conoscere il bene e desiderio di aderire al bene conosciuto vengono mossi sì come rota ch’igualmente è mossa dall’amor che move il sole e l’altre stelle. E noi, come Dante al termine della Commedia, ritorniamo all’esistenza quotidiana, dove il nostro cammino si compie dei suoi gesti.
Non so, e non era mia intenzione lo ripeto, se ho convinto qualche lettore di qualcosa: ciò che più conta è che ciascuno di noi si convinca che esistiamo per essere veramente felici e che non può essere la società in cui ci è capitato di vivere, noi – come dice Pirandello di sé – figli del Caos, a darci gli ingredienti per esserlo, a dirci insomma come essere felici e indicarci come vivere la vita in pienezza.
Questo tocca a ciascuno di noi, in prima persona; lo ha detto – come meglio non si potrebbe – uno psicanalista ebreo scomparso non molti anni fa, dopo essere sopravvissuto ai lager nazisti, Viktor Frankl: “Occorre che ciascuno scopra dentro di sé il sentido de la vida”, nessun altro può suggerirglielo, e su quello poi centrare la propria esistenza. Con gli ingredienti bisogna cioè creare la ricetta, la nostra unica e irripetibile ricetta: così ogni momento della nostra vita sarà un momento d’amore, capace di superare l’effimero attraverso la volontà e la scelta della virtù. Parafrasando un noto slogan, occorre saper scegliere l’amore, senza se e senza ma… per rendere la società… migliore.
Occorre in definitiva eliminare tutta l’ironia di cui è carica la celebre affermazione di Amleto e dimostrare veramente che “opera d’arte è l’uomo, com’è nobile nella sua ragione, infinito nelle sue capacità, nella forma e nel muoversi esatto e ammirevole, come somiglia a un angelo nell’agire, a un dio nell’intendere: la beltà del mondo, la perfezione degli animali”.
Claudio Mereghetti
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