La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, come è lei stessa a definirsi, si rivolge a Dio. Un Dio che diventa un tu, guida e interlocutore, nome di una forza da cercare eternamente e che sempre vacilla.
del 08 gennaio 2017
La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, come è lei stessa a definirsi, si rivolge a Dio. Un Dio che diventa un tu, guida e interlocutore, nome di una forza da cercare eternamente e che sempre vacilla.
Etty Hillesum ha con sé, nello zaino, la Bibbia e una grammatica russa, lingua della madre. L’ultima cartolina postale, indirizzata all’amica Christine van Nooten, è datata 7 settembre 1943: la giovane donna la lascia cadere dal treno diretto al campo. “Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Arrivederci da noi quattro”. Muore ad Auschwitz due mesi dopo, il 30 novembre 1943. Muore che non ha ancora trent’anni.
Etty Hillesum trascorre l’adolescenza a Deventer, studiando nel liceo dove il padre insegna Lingue classiche. Prima di ottenere il lavoro nella Sezione di Assistenza sociale ai deportati nel campo di smistamento di Westerbork, svolge controvoglia un impiego amministrativo presso il Consiglio Ebraico, ad Amsterdam, dove si trasferisce nel 1932. Lavorare nel Consiglio esenta Etty dall’internamento a Westerbork; è lei stessa tuttavia a chiedere di andare al campo per occuparsi dei malati nelle baracche dell’ospedale: “mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo”.
Da Westerbork, ogni martedì mattina, parte un treno carico di uomini, donne e bambini diretto ad Auschwitz.
Tra agosto e dicembre 1942 Etty si divide tra il campo, Amsterdam e Deventer, dai genitori. Restare a Westerbork è il suo desiderio, vuole condividere il destino della sua gente, esserne al servizio; non accoglierà mai i tentativi di aiutarla a fuggire che pure le verranno rivolti. Del resto, con la fine dello status speciale dei collaboratori del Consiglio è anche lei costretta al campo, prima di essere deportata con la famiglia. Etty conosce quello cui sta andando incontro, ma non smette mai, nelle lettere, di parlare del proprio ritorno.
Soltanto negli anni Ottanta si è iniziato a pubblicare gli scritti – considerati a lungo troppo filosofici – della giovane donna olandese: il Diario e una raccolta di lettere che scrive a familiari e amici da Westerbork, ma anche ai compagni del campo nel tempo in cui – per ragioni prevalentemente di salute – si trova ad Amsterdam o dai genitori.
“Il mio dottore si arrabbia tutte le volte che arrivo da lui con un gran sorriso sulla faccia, secondo lui è imperdonabile che si rida di questi tempi.” La bellezza del Diario di Etty, la sua importanza, è in questo “imperdonabile”; lo scandalo della bontà: “La mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere – sia pur nel modo più approssimativo – queste deportazioni. Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita”.
In molte delle sue missive Etty descrive Westerbork. Ne restituisce l’atmosfera, la miseria indescrivibile, le terribili condizioni. Racconta dei tentativi di comunicare con Amsterdam affinché facciano avere loro il pane, o chiede se sia possibile trovare beni come gli assorbenti igienici o le bende, conserve e salsicce, o un cuscino, semmai. Descrive la paura della partenza per la Polonia, il timore per il momento della deportazione senza sapere cosa vi sia ad attenderli. Etty non tralascia di vedere la realtà che ha davanti, non si nasconde e sa di dover fare i conti con la propria impotenza radicale.
Il 21 giugno 1943 racconta il doloroso arrivo dei propri genitori: “Io non posso fare nulla, non l’ho mai potuto, posso solo prendere le cose su di me e soffrire. In questo sta la mia forza ed è una grande forza – ma per me stessa non per gli altri. Io mi sento all’altezza del mio destino, ma non mi sento in grado di sopportare quello dei miei genitori”.
“Eccomi dunque nell’inferno”
E tuttavia proprio in questo inferno scrive pagine visionarie nell’ostinazione con cui celebrano la vita: “le materie prime di cui è fatta la vita sono dappertutto le stesse”, “qui di amore non ce n’è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno”.
Questo sopportare, questo patire, questo ospitare dentro di sé il dolore della storia, il rifiuto di combattere la persecuzione nelle forme dell’odio e della rivolta, rischiano tuttavia di non essere colte nella loro potenza se non si pone l’altro punto di forza che attraversa ogni pagina di questo Diario, che riguarda il conflitto interiore di Etty, il rapporto con i propri demoni.
La fedeltà a se stessa è una fedeltà etica e non morale, risponde alla legge del proprio desiderio, nasce dal garbuglio della propria vita emotiva.
Etty Hillesum è prima di tutto una giovane donna: fare di Etty una santa, mostrare semplicemente la sua infinita umanità, riportare la sua devozione, registrare solamente le pagine in cui si aggrappa alla vita con coraggio senza trattenere quelle in cui rimane “a sguazzare godendo delle onde interiori” vagando nel buio e nel caos, significa smarrire completamente la potenza della sua voce.
Nelle parole di Etty esplode il corpo, il tormento della propria insufficienza, il vuoto, la mancanza (“c’è uno spirito irrequieto in me che vuole sottrarre alla vita quanti più misteri possibili”), l’idea di abitare le cose come in attesa di una vita vera sempre a venire, il bisogno di avere un maestro, una guida, sia esso un uomo o un poeta; ma anche il tormento per la propria bellezza, l’ingordigia, il rapporto con il cibo, la voragine del femminile che vuole tutto, la domanda che abita ogni donna relativa all’esser Donna:
“Noi donne vogliamo eternarci nell’uomo. Io voglio che lui mi dica: tesoro, tu sei l’unica per me e ti amerò in eterno. Ma questa è una favola. E fintanto che non me lo dice, tutto il resto non ha senso e non esiste. E il buffo è che non voglio affatto – non vorrei avere S. come eterno, come unico uomo –, però pretendo il contrario da lui. Forse pretendo un amore assoluto proprio perché io non ne sono capace? E poi, desidero sempre lo stesso livello di intensità mentre so bene che una cosa simile non esiste.”
Fino alla partenza Etty vive con il contabile Han Wegerif: “dobbiamo andare avanti insieme, e quando mi coglie l’irritabilità non devo farla pagare a lui”. Ma è sopratutto l’incontro con lo psicochirologo Julius Spier a segnare la giovane donna. Spier l’avvicina alla psicologia analitica junghiana, al testo biblico, a Sant’Agostino; le consente di penetrare con maggior forza l’opera degli amati Rilke e Dostoevskij. Etty ne diviene paziente, segretaria, amante e amica; è su suo consiglio che avvia il lungo lavoro su di sé e inizia a compilare il proprio diario: è Spier, scrive, a liberarla dalla “costipazione spirituale”. Etty gli si avvicina perché profondamente depressa – la depressione attraversa anche suo fratello Misha, lei vi riconoscerà un tratto costante della propria famiglia. È disturbata da sintomi psicosomatici, abitata da sentimenti contrastanti, dal fascino alla gelosia, alla rabbia, dall’invidia. Vuole scrivere ma non ci riesce, i libri – le parole di Rilke – sono per lei un’àncora; leggere avidamente è cercare di trovare da qualche parte le risposte. È un’adolescente insicura, lamenta le forme delle proprie gambe e dei propri seni.
Il rapporto con Spier, uomo maturo, è complesso: si attorcigliano il livello spirituale, culturale, sessuale. Anche la sua relazione con Han è attraversata da contraddizioni. Etty problematizza questi legami, registra la fatica dell’amore, della spinta erotica, dell’esigenza di possesso e di appartenenza, l’ingombro del desiderio di seduzione e sessuale. Non sono dei dettagli che danno colore al suo scrivere, ma riflettono la caparbia insistenza con cui Etty attraversa la propria ombra, il contrasto prima di tutto con i propri mostri: “Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale: vorrei quasi dire troppo ‘possessiva’; provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere”. Etty cerca la protezione di uomini più grandi di lei per poi accorgersi della necessità di trovare in se stessa la propria forza, di imparare da sola un modo di resistere, di restare.
Il piano della Storia si intreccia alla sua maturazione come donna.
Ospitare il campo è ospitare la sua radicale differenza. Il processo di liberazione non è dunque solo un processo che riguarda la sua condizione di ebrea in quel preciso momento storico, è piuttosto la conquista di un nuovo atteggiamento. Liberarsi dall’esigenza del possesso, dalla gelosia – mostri della propria storia individuale – equivale a liberarsi dai sentimenti di vendetta e odio – mostri della storia collettiva. Sentimenti, scrive, troppo facili. “So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale.”
Il diario registra gli inciampi: più volte Etty racconta di dover ricominciare tutto daccapo, racconta come sia faticoso il percorso. Si deve però lavorare alla propria pace interiore, costringersi a inginocchiarsi nell’angolo più remoto e tranquillo dell’essere fino a che sopra di noi non si stenda un purissimo quadrato di cielo. Acquietare l’ansia di sapere e di dominio: vi è un ritmo cui è necessario dare ascolto. Le pagine del Diario segnano la faticosa conquista di questo ritmo, l’esercizio della levità. È una forma di resistenza quella cui cerca di educarsi, una forza del patire: è necessario ospitare il luogo delle contraddizioni, risiedervi senza sfuggirlo.
Il 6 dicembre 1941 Etty scrive del proprio aborto: “ti sbarrerò l’ingresso a questa vita e non dovrai lamentartene”. Parole violente, parole che sembrano stridere con la sua devozione all’altro. Etty Hillesum sa – perché lo ha vissuto in maniera radicale, perché l’abisso l’ha inghiottita – che i sentimenti possono essere pesanti e che il cuore sa diventare piombo, sa quale sia il potere devastante dell’eccesso; conosce la paura dell’abbandono, le forme rigide dei rapporti convenzionali.
Non bisogna confondere la sua via d’uscita con un generico altruismo, ma piuttosto vederla come un lavoro capace di portare ogni individuo a conquistarsi la possibilità di essere fedele a se stesso, così da poter alleggerire i vincoli: educarsi all’irrealizzato, alla vergogna, al tradimento dell’ideale di sé troppo immaginato.
Odio e vendetta in questa prospettiva si mostrano agli occhi della donna per quello che sono: sentimenti semplificatori, a buon prezzo, incapaci di penetrare la complessità del reale, allo stesso modo dell’amore che pretende di avere una forma per sempre, di farsi assoluto. “Le cose sono, dovunque, completamente buone – e, al tempo stesso, completamente cattive.”
Le pagine del Diario raccolgono gli autori amati: Rilke, ma non solo; Tolstoj, Dostoevskji, Puskin, Cechov, Mann, Sant’Agostino, la Bibbia, Jung. Etty prende in prestito non solo le parole che non sa avere, ma soprattutto la letteratura le permette di pensare il futuro, di valicare il tempo storico e nutrire quelle visioni che le consentono di aggrapparsi alla vita, di accoglierla. L’arte, la letteratura, resistono al mondo che si frantuma sotto i piedi. Etty deve misurarsi con l’inadeguatezza del dire, farsene qualcosa della miseria del tempo, darle un volto anche se non può restituire un senso là dove senso non c’è. Si tratta di accompagnare lo sguardo tra le baracche, di non abbandonare al loro destino i duri fatti ma di trasformarli, nelle teste, in qualcosa di vitale: “se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo e non un nuovo senso delle cose allora non basterà”.
La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, come è lei stessa a definirsi, si rivolge a Dio. Un Dio che diventa un tu, guida e interlocutore, nome di una forza da cercare eternamente e che sempre vacilla. Dio nel fondo fragile del cuore umano, nella miseria. Il sentimento che racchiude in questa parola ha molto a che fare con la fedeltà a se stessa, con la responsabilità dell’esserci.
Etty ha imparato a pregare ed è quel gesto, conquistato a prezzo di quello che Jung avrebbe chiamato “il viaggio notturno per mare”, che la salva da ogni burrasca.
“Chi ha perduto la speranza di esser felice, non può pensare alla felicità degli altri e non può neppure interessarsi dell’altrui infelicità.”
Anna Stefi
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