Le canzoni del nostro autore, in particolare nel suo ultimo album, sono un grido. Lo stiamo ascoltando? Riflessione sull’ultimo album discografico di thasup. Da leggere fino in fondo.
Alessandro Manzoni, parlando di Gertrude, utilizza un’immagine molto interessante, che al giorno d’oggi potrebbe essere usata per descrivere moltissime persone. Infatti la nostra futura monaca di Monza, nel momento in cui tutto il mondo sembrava averle voltato le spalle, decise di costruirsi un suo rifugio personale nell’angolo più nascosto della sua mente. Qui si intratteneva con persone fantasiose che la consolavano, la sorreggevano e appoggiavano: per lei era una delizia trascorrere molto tempo con questi compagni un po’ particolari. Fuori di lei invece c’era solo crudeltà.
Non colpisce, quindi, trovare lo stesso modus vivendi in uno degli artisti forse più interessanti della scena di oggi. Sembrerebbe proprio che Tha Supreme incarni questo procedimento gertrudiano, potremmo dire. Ma prima di tentare di approfondire la questione, vale la pena sottolineare una cosa importante. A mo’ di premessa. Pare che l’artista romano possa essere una perfetta antenna metereologica del clima umano che si respira oggi. Non solo per la fama guadagnata, ma per la modalità con cui si racconta. Trovare spunti di vita in lui vuol dire intercettare vite di moltissimi giovani di oggi.
Ma vorrei rilanciare la questione azzardando una chiave di lettura che mi pare centrale in thasup, ovvero quella che prima abbiamo introdotto. Un’intuizione esistenziale così presente e così, a suo modo, tragica. È un modo di essere della vita di oggi: la costruzione interiore di un mondo rassicurante dove richiedere asilo contro le ferite del mondo ‘esterno’. «Ho creato un mio mondo perché in questo nostro non sentivo di appartenergli fino in fondo». Così canta in uNa DiReZioNe giUsTa. Appartenere al mondo della ‘vita comune’ ci sembra assai arduo. L’esistenza dà sgambetti. Spesso la forza necessaria a camminare, senza scoraggiarsi, tra i boschi della vita pieni di radici che ci fanno incespicare, viene a mancare.
È più facile, soprattutto per un giovane, fermarsi. Rannicchiarsi nella radura, circondato dai rumori notturni che la vita presenta. Chiudere gli occhi. E fuggire dentro a un mondo dove tutto è diverso. Dove fondamentalmente è più piacevole vivere. Thasup lo sa. E lo sa forse perché nella sua vita lo ha sperimentato. Una profonda solitudine che emerge fortemente e crudamente nella sua canzone 5olo: voci nella testa, l’ansia che assale. Dove scappare?
Una volta erano i religiosi che fuggivano dal mondo per inseguire un cammino di perfezione. Ora sono i giovani che fuggono dal mondo per ricercare una certa forma di perfezione confortevole e inespugnabile. Colpisce che il nostro autore porti avanti l’idea dell’avatar e di un marketing pubblicitario giocato soprattutto su disegni e fumetti.
La copertina del nuovo album c@ra++ere s?ec!@le è molto eloquente a riguardo. La folla di persone attorno a lui ricorda proprio una solitudine interiore che cerca di collezionare satelliti in grado di alleviarla.
La stessa enigmaticità dei suoi testi e dei suoi modi risulta molto interessante. Una volta chiusi nel nascondiglio ci si rimane. Difficile a questo punto disarmarsi e aprire le porte. Thasup ci lascia soltanto degli indizi, degli assaggi, ma non ci lascia entrare. Così fanno tutti i giovani. Un mondo immaginario ben costruito e pieno di meraviglie. Chiunque potrebbe essere al suo posto. Anzi tutti sono già al suo posto. Ascolti una canzone e questo non-senso carico di senso apparente ti avvolge. La vita quando perde il senso, deve essere irrorata. Da questo punto di vista la musica di Thasup è il bicchiere d’acqua perfetto, per lui e per gli ascoltatori, per poter deglutire la realtà.
Le canzoni del nostro autore, in particolare nel suo ultimo album, sono un grido. Lo stiamo ascoltando? Si potrebbe tranquillamente criticare il fatto che i suoi testi non dicano nulla. Quindi come potrebbe esserci un grido rivolto a qualcuno? Non viene detto nulla… mi sembra tuttavia una conclusione ingiustificata e affrettata. Tutti i nostri giovani comunicano così, ovvero senza una comunicazione apparente. Siamo così ossessionati dall’ascoltare i giovani che ci siamo dimenticati di entrare nei loro mondi: belle prigioni fiabesche che non lasciano uscire nulla dalla loro incantevole eppure tragica opacità. E non parlo di entrare e raggiungerli sui socials o nel fare le stesse cose che i giovani fanno perché ci sentano più vicini. Non credo che farsi vicini a loro significhi questo: come se ogni volta che entriamo in un social per una motivazione educativa, poi ci rimaniamo veramente per questo nobile motivo. Per essere prossimo a loro non mi è necessario travestirmi. Devo tuffarmi dentro a ciò che stanno vivendo. Gridano. Li sentiamo? Un eterno _bilico_ esistenziale con una tremenda paura di cadere: troveranno qualcuno che li prenda e li afferri? Un l%p interiore tra errori, sbagli e sensi di colpa: un disco che si è incantato sulle stesse accuse di inadeguatezza che fischiano nelle orecchie del cuore di ogni giovane. Troveranno qualcuno che li perdoni e li ami?
Non parliamo solo di mente: parliamo di un intero mondo interiore che ha chiuso qualsiasi porta all’esterno. Thasup questo lo incarna perfettamente. Del resto ognuno dà quello che ha: nella sua pelle l’autore romano deve avere tutto ciò. Un ragazzo che a 16 anni lascia la scuola e si tuffa a capofitto nel mondo della musica e subito dopo nel mondo del rap: l’universo dove è possibile ribellarsi a tutto. Non ci scandalizzano nemmeno le mille citazioni sulle droghe. Annebbiarsi la mente e il cuore è la strategia più comune e semplice. Quando non vedi gli orrori o i pericoli dinnanzi a te, ti potrebbe sembrare di vivere meglio. La nebbia delle sostanze aiuta. Il guardare in faccia il negativo non è pensabile.
Tuttavia la fregatura in questo piano perfetto c’è. A volte infatti il mondo esterno si fa comunque sentire. Non te ne puoi veramente liberare: del resto ci sei dentro, a bagnomaria. L’illusione interiore non spegne la realtà, tenta di camuffarla. Con molti limiti… i contraccolpi o i suoni ovattati che ci raggiungono comunque dentro ai nostri pensieri nei momenti più crudi della vita, ci scuotono fin nelle fondamenta del nostro essere. Anche il mondo più incantato alla fine barcolla. E la fiaba si trasforma in racconto horror. L’ansia di cui parla sempre thasup descrive bene tutto questo. Perché anche il rifugio dentro di noi rischia di essere soffocante. Cas!no nella m!a testa, canta. Solo, ma in coppia all’ansia. Ecco il punto più tremendo della nostra riflessione. Il giovane di oggi, l’uomo di oggi non è un abitante né dell’immaginario, né della realtà. È un rifugiato. Un fuggitivo. Un esiliato. Dove scappare?
Una generazione che sta sulla r!va per non affrontare ciò che sta dietro e ciò che sta davanti: né abitanti di terra, né di mare. Un naufragio perenne. E quindi un senso di panico che non molla mai. Allora gridi. Che sia comprensibile o incomprensibile è pur sempre un grido. E nelle urla di soccorso non ci interessa principalmente cosa viene detto. Bisogna andare in aiuto. Mi domando se ci siano persone disposte ad addentrarsi in questo limbo esistenziale per liberare moltissimi giovani imprigionati.
Del resto thasup lo sa: due cose sono necessarie per liberarsi. Cambiare – forse convertirsi? – e lasciarsi salvare. Una coppia concettuale ardua da mettere in pratica. In r()t()nda, con Tiziano Ferro, è consapevole che se non cambi tu vai a sbattere: smussare gli spigoli del nostro atteggiarci, taglienti per noi e per gli altri. È la stessa realtà a dirci cosa stona per me e per gli altri. Ma bisogna abitarla e starci dentro. Dall’altra parte una mano tesa deve esserci sempre. Entrare nel buco del dolore di tanti giovani e tirarli fuori. Entrare nel bosco e trovare qualcuno in mezzo a rocce appuntite e a spine per poterlo salvare. Bisogna svegliare esistenze, perché indicatori di tutto ciò ne abbiamo già troppi. Prima di ascoltare, dobbiamo creare le condizioni perché uno si senta a casa e possa parlare e aprire la porta. Magari per la prima volta. Riconoscere che la realtà è una cosa buona. Che la vita ci fa già da casa, con le persone che si prendono cura di noi. Il problema è lo scarto che percepiamo tra il nostro mondo costruito e il nostro mondo punto. Non siamo eterni rifugiati: siamo figli amati e abitanti di una vita buona. Nessuna ferita smentisce la bellezza che ci attornia e che ci abita. Dovremmo ricordarci di ripeterlo. Del resto l’essenza della fede cristiana è questa. Scendere all’inferno e tirare fuori qualcuno. Dove c’è più fango esistenziale lì deve esserci il cristiano a raccogliere le perle che vi sono state gettate o smarrite. Allora questa può rimanere l’unica luce, anche flebile, presente in una vita: una luce che, tuttavia, illumina le notti più cupe. Del resto «immagino sia questo il senso della vita: spegnere le luci e vedere cosa brilla», si canta in rock & rolla. E cosa rimane? La disperazione o il lumino del sentirsi-comunque-preziosi perché amati-di-default? Insegniamo a credere in quest’ultima possibilità. Questa è la fede. Non altro. «Credo nel cielo perché è vero che qualcosa è in me». In me c’è l’essere figlio. Non un mostro particolare che deve fare di tutto per farsi accettare: non una m8nstar che deve sparire, ma un figlio che deve lasciarsi voler bene.
Dunque, ascoltiamo le urla di SOS di questo ragazzo: è la voce di tanti orfani esistenziali che abitano il mondo. Dio troverà qualcuno che vada a cercarli veramente?
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