Gerusalemme, perché la nuova intifada

Ci sono scontri a Shufat, a Issawya, a Silwan, a Ras al-Amud. Viste le cronache di questi ultimi giorni, è la tragica conferma di quanto sia pericoloso giocare con le parole in un contesto segnato da un conflitto.

Gerusalemme, perché la nuova intifada

da Attualità

del 23 marzo 2010

 

          Erano giorni che solo l'ingente spiegamento delle forze dell'ordine israeliane manteneva una calma forzata a Gerusalemme. Ma tutti sapevano che non sarebbe durata. Così da stamattina è battaglia nei quartieri arabi che si trovano fuori dalla Città Vecchia. E siamo costretti a rilanciare la cronaca di una violenza annunciata.

 

          Ci sono scontri a Shufat, a Issawya, a Silwan, a Ras al-Amud. Viste le cronache di questi ultimi giorni, è la tragica conferma di quanto sia pericoloso giocare con le parole in un contesto segnato da un conflitto.

          Il cerino che ha acceso la miccia è stata ieri la ridedicazione della ricostruita sinagoga di Hurva, nella città vecchia di Gerusalemme. Come spesso accade in questo conflitto la violenza è esplosa in seguito a un atto in sé ineccepibile: la sinagoga di Hurva è un edificio storico di Gerusalemme, si trova nel quartiere ebraico, non va a intaccare nessun luogo santo di altre confessioni religiose. Non solo è legittimo, ma è anche giusto che questa sinagoga distrutta dalla guerra del 1948 venga ricostruita. Il problema - però - è il contesto in cui questa operazione avviene.

          Lo riassumono bene le parole pronunciate dal presidente della Knesset Reuven Rivlin (Likud), durante la cerimonia di inaugurazione di ieri sera: dal palco - facendo riferimento alle polemiche di questi giorni - ha detto espressamente che ricostruire l'Hurva significa riaffermare il diritto degli ebrei a costruire «dove e quando vogliono a Gerusalemme est come a Gerusalemme ovest».

          Non a caso uno dei primi posti dove questa mattina sono scoppiati gli scontri a Beit Yehonatan, una palazzina nel cuore di Silwan. Si parla tanto di Gerusalemme est, ma bisognerebbe cominciare a conoscerne un po' più a fondo anche la topografia: Silwan infatti è il quartiere arabo che sorge proprio a ridosso delle mura, dalla parte del quartiere ebraico della Città Vecchia. Un quartiere al centro da anni di una disputa urbanistica, perché in quello che secondo alcuni archeologi fu il Giardino del Re Davide la municipalità di Gerusalemme vorrebbe realizzare un parco archeologico, abbattendo un'ottantina di case arabe che - come tutte quelle di Silwan - sono state costruite senza licenza edilizia dal momento che in quarant'anni Israele non hai mai fatto un piano regolatore su questa parte della città.

          In mezzo a questa situazione già tesissima sorge Beit Yehonatan, una palazzina dove si sono insediati un gruppo di coloni. Una presenza che la stessa Corte Suprema israeliana ha definito illegale. Ma nessuno ci pensa a sgomberarli; e il sindaco di Gerusalemme, pochi giorni fa, ha proposto agli abitanti di Silwan una specie di compromesso per salvare qualche casa araba (che sta lì da decine di anni) ma anche Bet Yehonathan.

          Proprio pochi giorni fa - su queste colonne - lanciavamo l'allarme su un'altra situazione esplosiva frutto di un'ingiustizia a Gerusalemme est: quella del quartiere di Sheikh Jarrah. Un posto dove la notte di Purim i coloni - nel cuore di un quartiere arabo - possono inneggiare a Baruc Goldstein, un omicida che nel 1994 a Hebron ha ucciso 29 musulmani in preghiera, senza che succeda nulla.

          C'è tutto questo dietro la nuova intifada di Gerusalemme. Lasciata scoppiare tra l'indifferenza di chi si interessa solo dei grandi vertici della diplomazia e chiude gli occhi sulle ingiustizie più quotidiane che si consumano nella Città Santa. Sarebbe ora di fare meno poesia su Gerusalemme e imparare a guardare dentro a questa città. A distinguere un quartiere dall'altro, a capire che anche una sola casa in un posto preciso è una provocazione.

          C'è poi anche un altro aspetto da tenere in considerazione: la lotta di potere interna al campo palestinese. Oggi è stata Hamas a chiamare alla protesta. Ed è un modo per non farsi scavalcare dalla cosiddetta intifada bianca, il nuovo percorso intrapreso dal premier palestinese Salaam Fayyad.

          Ed è interessante aggiungere quello che sta succedendo in queste ore: la polizia dell'Anp sta cercando di contenere la protesta in Cisgiordania, ma nello stesso tempo i leader di Fatah non esitano a pronunciare apertamente la parola intifada.

          Duole infine registrare ancora una volta il silenzio della diplomazia italiana in un momento critico per il Medio Oriente. Poco più di un mese fa il nostro presidente del Consiglio si proclamava il migliore amico sia di Israele sia della Palestina. Oggi brilliamo per la nostra indifferenza rispetto a questo dramma: abbiamo ben altro a cui pensare.

          Chi conosce l'arcivescovo Twal sa bene che non è un estremista. Forse sarebbe ora di prendere sul serio il suo grido di dolore.

Giorgio Bernardelli

http://www.missionline.org

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