Lo abbiamo conosciuto alla Festa dei Giovani e ne siamo certi: è davvero santo...
Don Marco D’Agostino dopo aver scritto a quattro mani con Gianluca Firetti il libro “Spaccato in due, l’alfabeto di Gianluca”, nel quale è narrata l’esperienza di malattia e di fede di “Gian”, – giovane diciottenne che ha combattuto per due anni contro un sarcoma osseo – ad un anno dalla sua morte pubblica un nuovo testo: “Gianluca Firetti, Santo della porta accanto”.ù
Questo secondo libro racconta di come il giovane abbia fatto breccia nei cuori e nelle vite di tantissime persone, soprattutto dei giovani, attratti dal vero miracolo avvenuto nella vita di Gianluca – non la guarigione dalla malattia – ma il compimento della sua vita nell’amore dato e ricevuto, nella preghiera costante, nell’affidamento a Dio, e infine in una morte santa, pacificata.
Tantissime mail e messaggi testimoniano come la vicenda di Gian abbia coinvolto mamme, papà, sacerdoti, anziani e giovanissimi – dall’Italia e dal mondo – che pur non avendolo incontrato, hanno raccolto “vita” da lui, lo hanno sentito fratello e amico in Cristo.
«Carissimo Gian, stavolta, davanti al “nostro libro” – lo chiamo ancora così con presunzione – non c’è la tua lettera, ma solamente la mia. E questa è una sofferenza. La sola di queste pagine. (…) Le pagine che ci stanno davanti raccontano ancora di te e di quanti, ormai non siamo più in grado di contarli, in te e con te, si sono riattivati grazie a una scintilla di fede e hanno attinto un briciolo di coraggio per la loro esistenza. In tutti la forza da te seminata attende che l’unico Seminatore faccia crescere il chicco deposto in ciascuno».
La storia di Gian narra la malattia e la sofferenza, ma al contempo la grazia straordinaria e la santa ordinarietà che ha vissuto. Quella santità di cui ha parlato Papa Francesco nell’angelus del primo novembre dello scorso anno, e che offre all’autore un’occasione preziosa per riflettere sui santi dei nostri giorni, “quei santi non canonizzati, che si sono sforzati di vivere il Vangelo nell’ordinarietà (…)forse ne abbiamo avuto qualcuno in famiglia, oppure tra gli amici e i conoscenti”.
«Quando Francesco scende nei particolari del suo discorso non posso non pensare a Gian. (…) io, un santo così, l’ho conosciuto veramente e, insieme con i suoi amici, lo porto con me, nelle parrocchie della diocesi di Cremona e in molte parti d’Italia. Gian, santo della porta accanto. Un santo che ha aperto le porte di casa sua a Dio, ai suoi, agli amici, anche a me. Un santo che whatsappava: moderno, contento e luminoso. Un santo che contagiava, perché l’amore è sempre più intenso e duraturo rispetto al male, al peccato e al buio. Un santo nel quale le tenebre non hanno vinto perché attaccato alla Luce vera, quella che veniva nel mondo e illumina ogni uomo. Un santo che il web ha fatto “suo”, sotto la voce “giovane laico, testimone” (www.santiebeati.it). Giovane. Con la forza e il coraggio dei giovani. Anche con le speranze di chi la vita se la sente in mano. Laico. Con la bellezza e la genuinità del Vangelo. Con la libertà e la schiettezza del dire e del ragionare, di essere un ragazzo del mondo e, al contempo, di aver imparato anche ad avere una visione esterna al mondo, lievito e sale come quella del Vangelo. Testimone. Sia della vita che si stava spegnendo, sia della bellezza che la malattia aveva deturpato, sia della fede che andava brillando».
Gianluca non è diventato un “santo della porta accanto” all’improvviso, ma giorno dopo giorno, poco alla volta. Nella sofferenza e nel dolore quotidiano ha scoperto che Dio lo amava, che lo sosteneva nella sua terribile prova, che poteva “smezzargli la croce” e così si è trasformato sempre di più in un Suo strumento d’amore per gli altri.
«Eh sì, perché se la metafora del Papa è vera, se queste persone sono sante, a loro va attribuito il vocabolario dei santi, con tutti gli annessi e connessi. E i santi, grazie a Dio nel quale vivono, i miracoli li fanno sul serio. Gian è uno di questi. Autentico, molto efficace, che spacca in due come il Vangelo. Il suo bello è essere un santo normale, cioè quotidiano e feriale. Un amico santo. (…)La santità di Gian ci mostra il volto di un Dio che sa amarci ancora. E non smette di farlo. Anche nel dolore. Anche nel buio delle salite che la vita presenta. Nei lutti e nelle lacrime. Nella violenza e nel terrore. (…) Le storie di santità ci invitano ad avvicinarci a Dio. Al suo regno nel quale “non ci si arma, ma ci si ama” soltanto».
Il dolore che il tumore infligge a Gianluca è un’esperienza difficilissima e terribile, ma lui non lo rifiuta, non lo maschera, vive la sua vulnerabilità, la sua “nudità”, che misteriosamente il Signore trasfigura in forza. La sofferenza che prova, non diviene muro invalicabile per gli altri, non lo allontana dai suoi amici, dalla famiglia, dai cari, al contrario, lo avvicina sempre di più a loro, diviene un magnete che attrae e unisce. Il letto dell’Hospice si trasforma così da luogo di morte, a luogo di incontro, amicizia e preghiera.
“Questa è l’invocazione che spesso, sul letto d’ospedale, nella sua mente e nel suo cuore, Gian ripete: “Signore, smezzami la croce”. (…) Gian è molto simile al primo Adamo. Non vuole stare da solo. Non è bene che l’uomo sia solo (Gen 2,18). Ha intorno una famiglia, i suoi parenti, una parrocchia, un oratorio, degli amici che vivono e pregano con lui e per lui. Lo aiutano e si sentono aiutati. Per questo il luogo del dolore, come la via del Calvario per Gesù, diventa terra di grazia e di luce. Profuma di vita e di speranza. (…) una mèta e un pozzo, dai quali attingere forza per la vita, coraggio per la giornata. (…) Gian attira. Porta la croce pesante di Gesù, sente quei chiodi entrare nella sua carne attraverso chemio, morfine e medicazioni. Ma si verifica anche il contrario perché Gian permette, con estrema libertà, a chi vuole, di aiutarlo a portare quella croce che, da solo, sente impossibile sorreggere. E Gesù si prenota per primo. Lo aiuta. Lo solleva. Gli fa tornare il sorriso anche quando l’osteosarcoma gli spacca lo sterno. Anche quando il respiro viene meno. Le gambe non si muovono. (…) Una presenza singolare, quella del Signore crocifisso, che si manifesta in un giovane speciale. Proprio per questo la stanza di Gian non è mai vuota e diventa un piccolo cenacolo, una chiesetta raccolta nella quale si prega, ci s’incontra, si parla, si dialoga, si sta zitti, ci si rivela, s’invocano la misericordia e la grazia di Dio. (…)In ospedale si va per lottare. Così aveva scritto al Papa. Ma non ci va da solo. Sempre col Signore. E, quando non ce la fa più, proprio a Lui non chiede di guarire, ma «se puoi, smezzami la croce. Spaccala a metà, perché per me è troppo pesante»”.
Sono molti i ricordi preziosi che il “Don”, come lo chiamava Gianluca, riporta nel libro. C’è un episodio particolarmente significativo, “liturgico”, di enorme affetto e devozione, avvenuto la domenica prima che Gian morisse. I due dopo aver parlato a lungo, pregano insieme l’Ave Maria e poi don Marco si piega a baciare il capo e le mani di Gian, come il venerdì santo ci si china a baciare il Crocifisso.
«È stata la domenica delle grandi domande (…) Gian si è posto davanti alla morte con coraggioso timore. Aggrappandosi, fino all’ultimo, a quella croce pesante che non ha mai mollato. “Don, ma secondo te come sarà la morte? Che cosa troverò? Il Signore che cosa mi mette davanti?” (…) Davanti a lui, steso sul letto e affaticato, mi è venuta questa intuizione. “Gian, pensa alla tua vita. È stata bella quando stavi bene. È ed è ancora più bella nella malattia. Pensa a tutto il bene che tu hai fatto in questi due mesi”. (…) L’ho visto sorridere. (…) “Gian, pensa a quanto bene stai facendo e a quante persone”. E a quanti ancora… non sapevamo che ne avrebbe fatto! Lui chiudeva gli occhi. Come a dire: “Mi fido, don, se lo dici tu”. E anche queste erano parole che “spaccavano”, aprivano il cuore, chiedevano conversione. Gian ci crede, si affida, spera e prega. Insieme lo facciamo, per l’ultima volta, con un’Ave Maria. “Sento la Madonna vicina”, ripete. La sente veramente. Per questo preghiamo. Poi la benedizione. E, al termine, mi è venuto naturale baciarlo. Sulla testa prima, sulle mani dopo. Baciarlo come si bacia il Crocifisso, nell’azione liturgica del venerdì santo. (…) Gian mi guarda, spalancando quegli occhi che sembrano sorridere. “Perché Don?” mi chiede, in attesa di risposte esaustive. La mia non si fa attendere. “Perché baciare il Signore è un privilegio di pochi”. Annuisce con la testa. Non per presunzione. Perché comprende il mistero di passione e morte. E in quell’atmosfera di commozione ci salutiamo».
Silvia Lucchetti
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