Dunque, perché l'Italia continua ad essere una nazione così “vecchia”, o meglio così portata a mettere o trattenere nei posti di comando persone in età avanzata? L'Italia è un paese governato da anziani non è una causa, ma forse un effetto di qualcosa di più profondo: la nostra incapacità di rischiare e di aprirci al nuovo...
Stamattina leggevo questo post di Stefano Quintarelli, ben ricco di dati e di analisi, e riguardante l’eta media in cui in Italia si arriva al “potere”, se per potere si intende la nomina in uno dei posti chiave (agenzie, banche, etc.) da cui poi è fisicamente possibile prendere decisioni e dare indirizzi per cambiare davvero il futuro del paese.
Nota Quintarelli, dati alla mano, che l’età media dei nominati di fresco si aggira sui 61 anni. Al di là delle capacità dei singoli e del fatto che l’esperienza maturata per tanti anni in un settore deve essere giustamente riconosciuta come titolo di merito, per carità, è un’età che fa paura, soprattutto in un momento in cui l’Italia, nel cul de sac in cui pare essersi infilata, avrebbe bisogno di gente pronta anche a rischiare soluzioni innovative e impensate, dato che quelle già applicate in passato ci han portato dove siamo.
Invece nei posti di comando continuano a venire eletti uomini e (poche) donne certo di vasta esperienza, ma che forse, proprio per quell’irrigidimento che a tutti viene a seguito dell’avanzamento dell’età anagrafica, sono poco portati a pensare improvvisamente fuori dagli schemi dentro i quali sono cresciuti.
Quintarelli nota come questa tendenza italiana non è nemmeno in linea con la reale rappresentatività per fasce di età, perché comunque bisognerebbe, per rispettare delle quote, assegnare non dico ai giovani ma almeno agli adulti uno spazio maggiore.
Dunque, perché l’Italia continua ad essere una nazione così “vecchia”, o meglio così portata a mettere o trattenere nei posti di comando persone in età avanzata?
Non è solo un portato dell’invecchiamento della popolazione; in questo, a mio avviso, gioca soprattutto un fattore culturale sottovalutato. L’Italia è ed è sempre stata una nazione fondata sulla cooptazione, nome elegante che indica la nostra tendenza ad assegnare cariche e posti chiave a parenti, amici e conoscenti. Anche laddove questo non si configuri come un comportamento di stampo “mafioso”, la tendenza, anche in buona fede, è quella di circondarsi di persone che si conoscono già bene perché c’è con loro una consuetudine, spesso anche extralavorativa, di anni e anni.
Questa mentalità ha delle ricadute pesanti sul mondo del lavoro in Italia: anche solo per assumere un giovane al primo impiego, ci si fida di più di chi si conosce, il che impedisce spesso a giovani con ottimi curricula di essere presi seriamente in considerazione rispetto a coetanei meno qualificati, ma già noti per frequentazioni “familiari”.
Ma un’altra delle conseguenze è anche l’anzianità della classe dirigente. Per farsi conoscere, infatti, entrare nei circoli giusti e farsi accettare, anche gli homines novi hanno bisogno di tempo, alle volte di anni, durante i quali riescono a stringere amicizie e creare legami con chi poi li coopta nei posti di vero potere.
Non è strano dunque che qualcuno possa arrivare a toccare finalmente il vertice della sua carriera verso i 60 anni, età in cui in altri paesi si viene o messi in pensione o “parcheggiati” con onore in qualche carica senza vero potere decisionale: gli anni fra i 40 e i 60, se non si faceva già parte per nascita della classe dirigente, sono stati spesi per farsi finalmente accettare da essa.
La cooptazione è abbastanza problematica, come sistema di selezione unico, anche per quei casi in cui, apparentemente, favorisce i giovani. Esistono infatti “giovani” (se a questo termine si dà la strana accezione che ha in Italia, cioè fino e spesso anche oltre i 45 anni) che arrivano in posti di potere. Ma, se si guarda bene, gran parte di costoro provengono da famiglie già facenti parte della classe dirigente, oppure sono i protetti di qualche potente più anziano. Questo determina il loro essere spesso giovani in senso anagrafico, ma vecchi per mentalità. Per essere inseriti all’interno delle cerchie che contano dai patroni, infatti, ben raramente questi giovani saranno paladini di idee innovative e scomode, alternative al sistema. Si sono inoltre formati all’ombra dei più anziani, assorbendone i metodi e la mentalità. Non portando delle reali esperienze nuove frutto di percorsi originali (e magari accidentati) tendono a ripetere l’esistente, ad applicare le regole della vecchia scuola. Sono giovani ma poco innovativi, insomma, perché spesso l’innovazione nasce per cortocircuito, nella testa di quelli che, avendo trovato la strada sbarrata, decidono di costruirsene una di propria, non nella testa di chi, in buona sostanza, ha trovato la strada principale sgombra di traffico fin da quando stava nella culla.
Per cui, partendo dai dati di Quintarelli ma anche dalla analisi della mentalità italica, mi pare che quando si parla di rottamazione della classe dirigente solo in base all’età, si centri solo un aspetto del problema. il fatto che l’Italia sia un paese governato da anziani non è una causa, ma forse un effetto di qualcosa di più profondo: la nostra incapacità di rischiare e di aprirci al nuovo, il che vuol dire anche aprire a persone nuove, che non conosciamo perché facenti parte delle nostre cerchie abituali di conoscenze, ma che magari potrebbero essere quelle giuste per indicare nuove strade.
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