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I ragazzi ci stanno a guardare

Dunque, quando ci si occupa di faccende educative (ma non solo), non di come bisogna fare, ma di come bisogna essere, bisognerebbe preoccuparsi. Invece oggi sembra diventata prevalente la ricerca di una super-tecnologica maniera di fare ogni cosa...


I ragazzi ci stanno a guardare

da Quaderni Cannibali

del 29 ottobre 2007

Non possiamo nasconderci. I ragazzi prima guardano quello che siamo, poi quello che facciamo.

 

Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, nella sperduta pieve di Barbiana, don Lorenzo Milani aveva 'costruito' una scuola per i piccoli figli dei pastori che non riuscivano a frequentare quella pubblica (perché venivano regolarmente bocciati). Quella scuola cominciava alle 8 del mattino e finiva alle 20 della sera, senza intervalli, se non per mangiare. E si continuava così per tutta la settimana, compresa la domenica, giorno in cui ci si fermava soltanto per andare alla messa. Senza contare che quei bambini dovevano percorrere, a piedi, lunghi tratti di strada per arrivare alla chiesa di Barbiana, anche durante le giornate fredde e difficili dell’inverno. A questo punto è perfino superfluo dire che non c’erano le vacanze estive. 

 

 

Contenti di andare a scuola

 

Eppure tutti coloro che andavano a visitare quella scuola rimanevano colpiti dal fatto che quei bambini, piccoli e grandi, andavano molto volentieri a quella scuola, erano entusiasti, partecipavano con attenzione, si aiutavano l’uno con l’altro, studiavano anche cose molto difficili con grande interesse. Insomma erano bambini contenti di andare a scuola. A una durissima scuola. Allora veniva spontaneo chiedere a don Milani quali trucchi usasse, quali metodi e quali tecniche avesse inventato e come facesse a fare una scuola così. E molti glielo chiedevano. Don Milani aveva due risposte per quelle persone, due risposte che, con pochissime e chiarissime parole, ci dicono moltissimo:

♦  'Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena, insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda. Non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare, per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Bisogna avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici, non bisogna essere interclassisti, ma schierati, bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore, non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente, ma superiore, più da uomo, più spirituale più cristiano, più tutto'.

♦ 'Se mi domandate perché faccio scuola. Faccio scuola perché voglio bene a questi ragazzi… Ci tengo che i miei figlioli abbiano scuola: questa è una cosa affettiva, naturalissima. Mi pare che non ci sia neanche da perdersi a spiegarla'. 

 

 

Davanti agli occhi dei ragazzi

 

Dunque, quando ci si occupa di faccende educative (ma non solo), non di come bisogna fare, ma di come bisogna essere, bisognerebbe preoccuparsi. Invece oggi sembra diventata prevalente la ricerca di una super-tecnologica maniera di fare ogni cosa: ai mille problemi che ci presenta quotidianamente la vita di relazione, l’immediata e automatica risposta si dirige dritta verso la ricerca di cose da fare. I giovani sbevazzano, sono violenti, apatici, rinchiusi nella luce azzurrina dei loro monitor… che cosa facciamo? E spesso facciamo davvero qualcosa, forse anche troppo, rischiando a volte di soffocarli in mezzo a un mare di iniziative: lodevoli e fantastiche, ma pur sempre un mare che toglie il fiato.

E in tutto questo tempo scaraventato nel fare, ci si dimentica troppo facilmente che i bambini, i ragazzi più grandi ancora di più, ci stanno a guardare. Guardano quello che noi siamo, prima ancora di che cosa facciamo. Perché il nostro fare è l’espressione diretta e riconoscibilissima di quello che davvero siamo. Ecco perché possiamo nasconderci a noi stessi, ma non agli occhi di chi ci guarda. Soprattutto se si tratta di una persona che sta crescendo e che ha bisogno di noi per poter proseguire quel suo straordinario viaggio di crescita.

 

 

Essere prima di educare

 

Se chiedete a un ragazzo che cosa vorrebbe da un adulto, vi sentirete rispondere quasi sicuramente che vorrebbe sentirsi dire 'credi in me'. Qualunque ragazzo o ragazza vorrebbe sentire che un adulto si fida delle sue capacità e questo non lo si può trasmettere che con il proprio modo di essere. Dire 'credo in te' senza esserne convinti davvero, suonerebbe subito e implacabilmente come una triste e scoraggiante bugia.

Una seconda istanza viene da quello che i ragazzi vedono quando stiamo fra di noi adulti e a cui noi diamo poca importanza. Eppure è quello dal valore educativo più alto. Posso dire a mio figlio o al ragazzino del mio gruppo catechistico di non ubriacarsi mai perché l’alcol fa male, ma se mi faccio vedere ubriaco avrò insegnato efficacemente due cose: che gli adulti mentono o non credono a quello che vanno dicendo (il che è peggio) e che ubriacarsi non è poi quella gran brutta cosa che si dice. Ma se sull’ubriacarsi tutti possono essere facilmente d’accordo, su altre faccende quotidiane le cose si fanno più difficili: essere cortesi, avere una disciplina mentale, avere un progetto nella vita, credere in qualche cosa, essere disponibili, avere fiducia in sé e negli altri, non fermarsi davanti all’errore, alla difficoltà e alla fatica… Tutte cose che riempiono i progetti studiati per i nostri ragazzi, ma che occorre saper collocare prima, molto prima, nel progetto del proprio essere.

 

 

Coinvolgere anche i ragazzi

 

Don Milani ci ricorda ancora che non c’è tecnica educativa che tenga se non siamo animati da un sincero sentimento di affetto e di interesse per i ragazzi di cui siamo chiamati a occuparci, per tutti loro e per ciascuno di loro. Perché ci sta a cuore la loro generazione e perché siamo capaci di prenderci nel cuore ognuno di loro. Da qui comincia qualunque capolavoro educativo, perché, non ce lo dimentichiamo mai, educare è un’opera comune, a cui partecipano anche i nostri ragazzi. Se le cose vanno bene è perché ci stiamo lavorando insieme. Ecco il trucco: essere autenticamente adulti significa conquistare l’interesse e la partecipazione dei ragazzi al progetto educativo che li coinvolge.

Un ragazzo o una ragazza saranno contenti di andare al catechismo e alle iniziative che gli vengono presentate quando saranno contenti di trovarci l’animatore tutto intero. E saranno contenti della presenza dell’animatore quando l’animatore sarà contento della loro presenza. L’attività che viene fatta diventerà solo un pretesto per permettere un sano, fertile, educativo e promettente essere insieme. E farla bene sarà solo il luminoso riflesso del piacere di condividere la propria presenza.

 

 

ADULTI 'FILTRO'

 

In quanto adulti siamo poi mediatori tra i nostri ragazzi e il mondo e questa è una delle più grosse responsabilità che abbiamo. Che abbiamo, badate, non che scegliamo di avere. Ce l’abbiamo comunque, indipendentemente dal fatto che la vogliamo o no. Sempre e in qualunque momento, un adulto assume una posizione di filtro verso il mondo: la responsabilità sta nel rendersene conto e averne cura. La responsabilità sta nel sapere che i nostri ragazzi hanno bisogno e si servono di noi per avvicinarsi alle cose della vita.   

 

fonte: www.elledici.org

Giovanni Cappello

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