Da oggi l’intera cattolicità del pianeta è convocata ad assumere una postura "sinodale". Un evento enorme. Ma che significa questo, esattamente?
Da oggi l’intera cattolicità del pianeta – tutte le comunità e ogni singolo – è convocata ad assumere una postura "sinodale". Un evento enorme. Ma che significa questo, esattamente? In un primo senso, il più semplice (si fa per dire), questo significa che i cattolici sono sollecitati a creare le condizioni in cui tutti si impegnano ad ascoltare tutti su ciò che significa portare la testimonianza di Gesù come speranza per la storia del mondo. Dove sta la novità? La novità è duplice.
In primo luogo, la postura sinodale fa parte della costruzione della domanda, non è semplicemente l’effetto funzionale della risposta. Non si tratta di organizzare un convegno di studio, né di eleggere un parlamento di rappresentanti. Non si tratta neppure di fare un super-concilio ecumenico per la riforma ecclesiastica o di indire gli stati generali della riscossa cattolica. Si tratta di riportare in vita un costume retoricamente enfatizzato e quotidianamente rinviato. Il costume dell’ascolto reciproco dei fratelli e delle sorelle che condividono e patiscono la medesima fede: la maggior parte dei quali non osa neppure più pensare di poter essere ascoltata. Molte donne e molti uomini fanno parte di una comunità dove la vita nella fede della grandissima parte dei credenti è perfettamente sconosciuta.
Di questa vita dei nostri fratelli e sorelle nella fede dispersi abbiamo bisogno: un grande bisogno. Si tratta della vita della fede in presa diretta con la fatica di vivere, con il peso dei fallimenti, con la mortificazione dell’isolamento. Questa vita parla di una fede persa: da noi, però, non da loro. Noi ce li siamo persi. I riti e il gergo del riconoscimento riservato alle voci della fede che requisiscono la comunità li mettono in soggezione o li fanno sentire estranei. Non li incoraggiano a portare la propria testimonianza, a confessare la propria incertezza, e chiedere un pane adatto anche per sé e per i propri figli non raccomandati. Possiamo continuare a considerarli anche invisibili e inascoltabili, agli effetti della comprensione di ciò che significa adorazione di Dio in spirito e verità per gli uomini e le donne delle beatitudini evangeliche?
Il secondo tratto della postura sinodale che ci è chiesto generosamente di assumere, attraverso l’impulso magisteriale e carismatico del papa Francesco, attinge alla profondità nella quale deve immergersi questa disposizione all’ascolto reciproco. L’ascolto reciproco cerca la strada della fede e la trasparenza della testimonianza. Ossia, cerca i modi e i tratti che devono restituire la Chiesa alla speranza del mondo abitato della città secolare.
Questo è possibile soltanto se tutti convergono nella postura sinodale con il preciso intento di consultare lo Spirito Santo, creando il contesto adatto alla costruzione delle domande e all’ascolto delle risposte che devono venire da Lui (Gv 14, 26). Non si tratta semplicemente di ritrovare il piacere di stare insieme, creando nuove occasioni per il pic-nic parrocchiale. Non significa moltiplicare gratificanti assemblee in cui tutti i rappresentanti hanno i loro cinque minuti di devota partecipazione (o di personale rivendicazione). La quotidianità dello stato sinodale che la Chiesa è invitata a cercare – e a trovare – deve piuttosto guarirci da ogni forma di autoreferenzialità della devozione e degli apparati. Nell’intenzione di papa Francesco, la sinodalità ecclesiale non è un supplemento di carineria ecclesiasticamente corretta, che renda più sorridenti le riunioni. Piuttosto, è l’acquisizione di una postura permanente – non clericale e non sindacale – della complicità fra coloro che sono afferrati dal Vangelo: sia pure all’ultima ora e all’ultimo posto, come la Samaritana e Zaccheo, la Cananea e il Centurione.
Senza questa sinodalità la Chiesa non è semplicemente meno simpatica: si corrompe. Quando manca (e manca da un bel po’), l’ombra degli apparati spegne lo Spirito. Si formano i partiti di Dio. Si lotta per il denaro, il potere, persino per il sesso: dissimulando la doppiezza mediante il puntiglio con il quale si infierisce sulla pagliuzza nell’occhio altrui, rimuovendo la trave che sta piantata nel proprio. Il popolo di Dio, il popolo di coloro che Dio ama e dai quali si sente amato, fortunatamente, è infinitamente più numeroso degli operai della vigna che cercano di sottrarla al Signore continuando a proclamare il loro diritto di disporne. La sinodalità ecclesiale deve purificarci dall’orrore e restituire l’onore a questa immensa teoria di gente delle beatitudini, e riconsegnarle il testimone della rappresentanza e della rappresentazione della Chiesa. Dobbiamo chiedere perdono di averli selezionati e trascurati, invitandoli ai primi posti a tavola.
Il Sinodo dei Vescovi si fa grembo ospitale per questa postura che l’intera Chiesa cattolica deve assumere come tratto qualificante del suo modo di corrispondere al dono della fede e al compito della testimonianza. L’episcopato, e con esso il ministero sacerdotale ordinato, si trova così impegnato a sigillarne il fermento, saldando la riscoperta della forma sinodale della Chiesa con il suo normale esercizio nella Chiesa. La Chiesa è forse l’unico soggetto planetario che ha ancora la possibilità di rendere questo evento di purificazione, di riconciliazione, di fraternità un movimento di speranza per l’umano che è comune ai popoli del mondo.
Certo, la svolta che ci è chiesto di cominciare ora non è facile: abbiamo pochi precedenti, molto lontani nel tempo; e dobbiamo diventare creativi anche con poche risorse. Se ci tiriamo indietro, però, non saremo solo indisciplinati: contristeremo lo Spirito. Se ci avventuriamo generosamente, invece, ritroveremo l’autentica letizia del Vangelo (che pure ci manca da un po’, se guardiamo al tasso di isteria ecclesiastica diffuso). In un momento come questo, non vorremo limitarci a una spuntatina della siepe del nostro giardino, solo per fare contento il capo, vero?
di Pierangelo Sequeri
da avvenire.it
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