Il carcere non sia una sconfitta

Non si vuole osservare quel che accade dentro una cella, soprattutto ciò che non accade: non c'è disponibilità per rimettersi in gioco, per ritrovarsi e infine riparare al male fatto.

Il carcere non sia una sconfitta

da Teologo Borèl

del 26 novembre 2009

 

 

Quando si parla di carcere, di pena, di giustizia, in ballo non c'è soltanto l'equità degli uomini, l'attenzione della società, l'indifferenza di tanti. Il carcere è stracolmo di colpa, di dolore cieco, di relazioni ridotti all'ammasso.

 

 

 

 

Quanto più forte è uno Stato, tanto più forte è il diritto di indignarsi di chi non vede riconosciuti i propri diritti: fare giustizia significa sanare una ferita, costringendo il dolore a trasformarsi in sofferenza, nella scoperta di essere meno indifesi e impreparati se esiste la possibilità concreta di affidarsi a qualcuno.

 

Il carcere come unico baluardo al ripristino della legalità, all'assunzione di responsabilità, all'educazione da ritrovare: riesce difficile convincersi che sia la strada più efficace da percorrere per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, un luogo dove saldare i conti in sospeso con la collettività, uno spazio adibito alla moltiplicazione del dolore, una sorta di terra di nessuno, dove solo pochi sono disposti a posare lo sguardo.

 

Non si vuole osservare quel che accade dentro una cella, soprattutto ciò che non accade: non c'è disponibilità per rimettersi in gioco, per ritrovarsi e infine riparare al male fatto. La giustizia è troppo debole per varcare con autorevolezza i cancelli di una galera, per ripristinare l'utilità del carcere e della pena.

 

Progetti a rimbalzare sulla realtà di persone che, sebbene detenute, non devono vedere moltiplicata la punizione punite due o tre volte dalle condizioni in cui la scontano. È in atto una neanche tanto sottile strategia a significare che è tutto esagerato, eccessivo, un film dalla sceneggiatura squinternata, eppure la prigione non è recinto per i soli brutti, sporchi e cattivi.

 

Anche chi sta ai piani alti, nel reame dei perennemente onesti, dei buoni a tutti i costi, si muovono le pedine sacrificali, perché non solamente la libertà è comandata a sparire e con essa la dignità dell'ultima volontà di un perdono.

 

Occorre davvero nutrirsi di resistenza, rifiutando la quotidianità della deresponsabilizzazione, facendo un passo indietro, scegliendo la fatica, la rinuncia, per non dichiararsi sconfitti alla propria ritrovata umanità, anche all'umanità di chi è disposto a tendere significativamente la mano: non si tratta di una mera concessione statuale, bensì di una nuova condivisione che è gia diventata conquista di coscienza.

 

Vincenzo Andraous

http://www.avvenire.it

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