Il tatto e le mani. Sono due dati che la persona si ritrova già nascendo. Quale ruolo giocano nella comunicazione?
del 16 luglio 2007
Il bambino, quando viene al mondo, trova due mani che lo liberano dal luogo in cui ha preso forma, e dal quale deve uscire se non vuole che diventi una prigione mortale. Presto imparerà d’istinto a tendere le mani verso chi gli sorride, e a toccare tutte le cose che vuole conoscere. Quando avrà concluso il suo percorso, se potrà farlo in modo pacato e attorniato da chi lo ama, il congedo avverrà ancora con una stretta di mano, come per un ultimo aggrapparsi alla vita prima di entrare nella solitudine della morte. Dall’inizio alla fine, dall’ingresso all’uscita, le mani marcano il nascere, il crescere e lo spegnersi della rete di relazioni in cui una creatura umana vive il principio, lo sviluppo e la conclusione della vita.
 
 
Il tatto
 
Il tatto, nel rapportarsi delle persone tra loro, è tanto importante quanto le parole e i silenzi, perché non si entra in relazione se non attraverso il corpo, se non attraverso i sensi. È curioso, e insieme significativo, che un termine latino come sententia, si riferisca sia a ciò che si sente, sia a ciò che si pensa, in un felice connubio di sensazione e ragione che una cultura malata di distinzioni manichee tenderebbe a separare se non ad opporre, giusto per fare «chiarezza», come si dice. È un vecchio problema della civiltà occidentale, che oggi, grazie anche alle fecondazioni di altre culture, sembra in via di superamento, anche se una buona sintesi tra corpo e spirito non è mai raggiunta in modo definitivo, ed è sempre sotto la minaccia di squilibri e disintegrazioni.
Non è del resto un caso che, tra i sensi, il tatto venga volentieri descritto come il meno «spirituale», il che implicitamente equivale a dire quello più povero, o più grossolano. Paradossalmente, però, dal punto di vista della relazione, è il senso che permette la maggiore prossimità, almeno dal punto di vista fisico, dalla semplice stretta di mano alla carezza, dal bacio alla fusione del rapporto sessuale. Forse è questo doppio statuto che rende il tatto altamente problematico come elemento del linguaggio relazionale. Come le parole e i silenzi, anche il tatto è radicalmente ambiguo, esposto a potenzialità buone e a usi perversi, e dunque anche il tatto va educato e guarito, in continuazione, contro ogni ingenua e illusoria aspettativa che esso sia sempre e comunque una fonte di benessere.
 
 
Le mani ferite di Ges√π
 
Può servire, in proposito, rileggere una mistica che ho già utilizzato in queste riflessioni, Giuliana di Norwich. Nell’immaginario di Dio quale emerge dalle sue Rivelazioni, le mani occupano una posizione cruciale: «Le beate ferite del nostro salvatore sono aperte, ed è loro gioia il sanarci. Le dolci mani graziose della nostra madre Gesù sono pronte e diligenti nel curarsi di noi: poiché lui in tutto questo lavoro esercita proprio l’ufficio di una gentile nutrice che non ha altro da fare se non occuparsi della salvezza del suo bambino» (Rivelazioni, cap. 61). È utile cominciare da qui, perché parlare di «mani ferite» dà al tatto tutto un contesto di serietà che potremmo rischiare di dimenticare pensando semplicemente alle carezze. Detto questo, è pacificante vedere quale ricchezza di funzioni Giuliana attribuisca al tocco, termine da lei sistematicamente utilizzato per tradurre in termini fisici il modo con cui Dio e lo Spirito, oltre a Gesù, vengono in contatto con noi. Le mani di Dio, infatti, proteggono, consolano, sono tenere e benevole, rianimano, creano fiducia, incoraggiano chi è caduto e lo fanno rialzare, sono dolci e soavi, gentili e piene di grazia. Non è senza significato che, al contrario, le mani del demonio, nel libro di Giuliana, siano grinfie che soffocano e tolgono il fiato della vita. Questa doppia potenzialità si ricongiunge nelle nostre mani. Il poeta gallese R. S. Thomas descrive «furto, assassinio e stupro» come «azioni deprecabili della mano cieca». C’è dunque una mano che non vede e fa disastri, e una mano che vede e produce benessere. Si parla spesso degli «occhi del cuore» per indicare l’intuizione profonda delle cose; qui si parla pure di «occhi delle mani». Dare occhi al tatto significa aiutarlo ad andare nella direzione giusta, guidarlo a compiere la sua funzione di prossimità benefica e non di aggressione violenta. Del resto, la percezione delle straordinarie potenzialità di questo senso è riflessa anche nella lingua, quando, per indicare maniere gentili, diciamo che uno parla o agisce «con tatto».
 
 
Superare le distanze
 
Il tatto non è solo prossimità, in cui rimane pur sempre una zona di separazione: il tatto mira a varcare la frontiera che separa i corpi, il tatto mira alla fusione. È ancora Giuliana a offrirci in proposito immagini affascinanti: «Una madre può stringere teneramente al petto il suo bambino, ma la nostra tenera madre Gesù può familiarmente farci entrare nel suo petto benedetto attraverso la dolce ferita del suo costato, e qui rivelarci in parte la divinità e le gioie del cielo insieme con la certezza spirituale della felicità eterna» (Rivelazioni, cap. 60). Il passo è straordinario, perché dà al tatto una direzionalità che superando ogni distanza giunge fino al fondersi di due corpi, fino a un entrare l’uno nell’altro che è il ritorno alla condizione beata e paradisiaca dell’utero. È inevitabile evocare in tale contesto il desiderio sottostante a ogni unione sessuale, e sarebbe futile e del tutto fuori luogo sorprendersi di fronte a un linguaggio neanche troppo velatamente erotico in un testo mistico e con riferimento a una profonda intimità spirituale. La fusione è del resto l’aspirazione che spunta immediatamente quando siamo attratti da qualcuno che sembra promettere gioia e sicurezza. Lo ha ben espresso Hopkins nella sua poesia «La lanterna di là dalla porta», dove, parlando di persone che affascinano perché fulgidamente belle «nel corpo o nello spirito», che sono come luci che si accendono nel nostro buio, lanterne, appunto, e che ci invitano a varcare la porta per uscire dalla nostra solitudine e andare loro incontro, deve amaramente ammettere: «vagare / al massimo può l’occhio dietro loro, essere in loro alla fine / non posso». Anche la denuncia di una frustrazione dolorosa esprime comunque il rinascere ostinato di un sogno, di un bisogno.
 
 
Un ponte per entrare in contatto
 
Forse qui raggiungiamo il punto più difficile e più arduo di questa riflessione. Il tatto, là dove funziona come ponte per entrare in contatto con un’altra pelle, con un altro corpo, nella speranza di superare quell’isolamento che ci fa soffrire, esige una sorveglianza severa, un supplemento di spirito: bisogna, come si è detto, dare occhi alle mani. In effetti, proprio perché è il più fisico e il più esteso dei sensi, il tatto può creare una sensazione di prossimità intensa che però può essere altrettanto altamente illusoria. Il bambino pensa che toccare voglia dire conoscere. Man mano che cresce, la persona scopre che questo non basta. Può addirittura accadere, è bene che accada, di avvertire la necessità di una presa di distanza, perfino di una separazione fisica per poter ampliare lo spazio della conoscenza spirituale. Per quanto banale possa sembrare il ripeterlo, si deve ricordare che noi siamo «corpi animati», o, se si preferisce, «anime incorpate». La separazione, peggio ancora, l’opposizione tra corpo e spirito non produce niente di buono e non è neanche un modo cristiano di vedere le cose. Per uscire da un sessismo esasperato, che chiede al corpo impossibili e perenni stati di estasi, e che finisce per produrre malessere e frustrazioni, non è il caso di ricadere in un idealismo purista, in una visione «angelica» dei rapporti che vorrebbe eliminare il corpo come appendice ingombrante e inutile. C’è un equilibrio da raggiungere, ed è compito di ciascuno. C’è, anche in questo, un apprendistato da fare, per evitare errori, superare ambiguità, guarire morbosità, costruire una capacità di contatti che trasmetta serenità e pacatezza. Forse ci si arriva del tutto alla fine della vita, come si vede a volte in quelle persone anziane che abbracciano, baciano e accarezzano con la levità di un corpo che sembra diventato spirito. Hanno ritrovato così l’innocenza e il candore del bambino che, fiducioso, tende le mani e si abbandona.
Domenico Pezzini
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