Fede e amore si conquistano pienamente solo attraverso una lotta con le proprie incertezze. L'assenso dato a Dio senza sofferenza e ricerca è forse un modo, tra i tanti possibili, per non rispondergli veramente. L'indifferenza contemporanea è il dubbio scettico quasi incarnato, libero da ogni inquietudine, desideroso di...
L’immagine rasenta col suo realismo quasi la brutalità: l’apostolo Tommaso col suo dito penetra nella carne viva della fessura del costato di Cristo, puntando uno sguardo fisso al derma lacerato e al pulsare della ferita. Caravaggio nella tela del museo tedesco di Potsdam ha reso così, sotto gli occhi cupi degli altri discepoli, l’approdo del dubbio di quel discepolo a cui, comunque, il Risorto ha concesso una prova di appello, pur dichiarando «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Giovanni, 20, 29). Facile è intuire, a questo punto, il tema che vogliamo ora proporre, ossia l’incrociarsi tra dubbio e fede. Il credere ha una sua specifica evidenza che, però, non è comparabile a quella matematica, perché è adesione a una persona, Dio e il suo Cristo, che comunicano una verità trascendente, metarazionale ma non irrazionale (ecco la necessità del coinvolgimento della ragione come l’altra ala per ascendere, con la fede, nel cielo del mistero).
Il percorso è, dunque, segnato da una scelta libera, da un atto di fiducia e da un impegno di comprensione e non semplicemente da un sillogismo o dalla dimostrazione di un teorema. L’assenso di fede è, quindi, un’esperienza globale umana che comprende un aspetto intellettivo certamente, ma anche una dimensione volitiva, amorosa, passionale, testimoniale, affettiva ed effettiva, un po’ come il “conoscere” biblico che è un’attività “simbolica”, cioè globale e personale. In un’esperienza così complessa e non automatica è, quindi, inevitabile che si innesti l’oscurità, la domanda, il dubbio appunto. Come scriveva Louis Evely, «la fede è un intreccio di luce e di tenebra: possiede abbastanza splendore per ammettere, abbastanza oscurità per rifiutare, abbastanza ragioni per obiettare, abbastanza luce per sopportare il buio che c’è in essa, abbastanza speranza per contrastare la disperazione, abbastanza amore per tollerare la sua solitudine e le sue mortificazioni. Se non avete che luce, vi limitate all’evidenza; se non avete che oscurità, siete immersi nell’ignoto. Solo la fede fa avanzare (...) Grazie a quello che di te conosco, Signore, credo in te per ciò che non conosco ancora, e in virtù di quello che ho già capito, ho fiducia in te per ciò che non capisco ancora». Abramo sale l’erta aspra del monte Moria armato, sì, della sua fede ma anche col peso della paura e col cuore segnato dall’oscurità. Giacobbe ingaggia persino una lotta col Dio misterioso, celato sotto le spoglie di un essere forte e ostile. Giobbe sfida a lungo il silenzio di Dio prima di avere una risposta che è in realtà una sequenza di domande (Giobbe, 38-39). L’assenso dato a Dio senza sofferenza e ricerca è forse un modo, tra i tanti possibili, per non rispondergli veramente. Il dubbio nella sua forma positiva - non si dimentichi mai che Cristo concede, come si diceva, una prova-verifica a Tommaso - è, quindi, una componente dialettica della fede. Non vogliamo, comunque, ora affrontare in sede teorica compiuta il contrappunto tra fede e dubbio, ma scegliamo di lasciare la voce ad alcuni testimoni e alla loro esperienza positiva o negativa di incontro con la fede. Una sorta di discriminante può essere quella formulata con l’affermazione di Samuel Butler, un pastore anglicano dell’Ottocento che, però, lasciò il gregge delle anime per andare a fare il pastore di pecore in Nuova Zelanda: «La verità è come la religione. Ha soltanto due nemici: il troppo e il troppo poco». Il fanatismo fondamentalistico non è vera fede ma una sua scimmiottatura, così come, all’opposto, il dubbio sistematico che riduce la religione a mera domanda inevasa. La variante dell’asserto di Butler è nel principio più generale che lo scienziato e filosofo Emile Poincaré, morto nel 1912, formulava così: «Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere». È per questo che il dubbio fecondo non è un gioco intellettuale o un esercizio sistematico dell’ironia.
Nel Crepuscolo degli idoli (1888) Friedrich Nietzsche sconfinava nel paradosso: «Solo se un uomo ha una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo». Ai nostri giorni è di moda irridere il fenomeno religioso, versando su di esso dosi massicce di sarcasmo, senza mai aver letto un testo sacro in modo serio, senza mai essersi interrogati sul significato autentico degli asserti e delle norme religiose, senza aver mai considerato i secoli di pensiero che hanno approfondito l’atto di fede, senza aver verificato la fecondità sociale, culturale, morale, artistica della fede. Questo è solo uno scetticismo bolso e goffo, incline alla sguaiataggine, è il dubbio fine a se stesso, votato all’agnosticismo indifferente. Nella sua Autobiografia Charlie Chaplin rievoca l’idea, poi abortita, di un film di tema religioso suggerito dall’amico Stravinskij, il celebre musicista. La trama era incentrata attorno a una sacra rappresentazione della crocifissione di Gesù sulla pista da ballo di un locale notturno. Mentre Cristo sale in croce, la gente seduta sui tavolini getta uno sguardo alla scena, ma poi riprende a parlare di affari, di donne, del menù e così via. Solo un ubriaco, in disparte, è scosso dallo spettacolo e si mette a piangere gridando: «Guardate, lo crocifiggono! E voi ve ne infischiate! Siete proprio dei bravi cristiani!».
L’indifferenza contemporanea è il dubbio scettico quasi incarnato, mai scosso da un fremito, libero da ogni inquietudine, desideroso di non essere disturbato nel suo quieto modo di vivere. Lo scrittore “scandaloso” francese Louis Ferdinand Céline, autore del noto romanzo Viaggio al termine della notte (1932), autobiografia romanzata di un’esistenza sarcastica e disperata, a un amico che lo interrogava sul suo rapporto con la religione rispondeva: «Ho fatto la prima comunione. E basta. Mi pareva tutto poco credibile, i dogmi, il paradiso, l’inferno, che Cristo sia morto proprio per me. Troppo bello per essere vero. Sì, l’inconoscibile, l’invisibile (...) Non nego niente, per carità! Ma il tormento metafisico, no, non c’entro proprio». L’equivoco è costante negli scettici: il credere sarebbe un allineamento mentale, una fiducia cieca, un abbandono consolatorio, una rinuncia intellettuale.
Significative sono le testimonianze personali di due figure rilevanti della cultura novecentesca, legate tra loro anche nella vita. Da un lato, Sartre che nell’autobiografico Le parole rievoca l’atto della sua adolescenza che lo rese ateo. Dopo aver bruciato un tappeto coi fiammiferi, stava per occultare il suo misfatto quando si ricordò che gli avevano insegnato che comunque Dio lo avrebbe visto: «All’improvviso Dio mi vide, sentii il suo sguardo all’interno della mia testa e sulle mie mani. Cercai rifugio in bagno. La rabbia mi salvò: divenni furibondo contro un’indiscrezione così grossolana, bestemmiai Dio come faceva talora mio nonno. Da allora Dio non mi guardò mai più». D’altro lato, in modo analogo Simone de Beauvoir, la sua compagna, nelle Memorie di una ragazza per bene, rievoca la genesi del suo rifiuto di Dio proprio nel suo sguardo troppo indiscreto e ossessivamente indagatore che «ridurrebbe l’esistenza personale a un’oggettività disumana». Inoltre durante le lezioni di religione le sembrava che una mano schiacciasse il suo cervello impedendole di ragionare, di criticare, di essere libera. Questo dubbio nasce da una falsa concezione del credere e dei contenuti della fede. Diventa paradossalmente vero l’asserto citato di Nietzsche: se la fede è una realtà così “debole” non può permettersi di spazzar via tutto col dubbio sistematico, anche perché quello che demolisce non è la fede autentica ma una sua contraffazione. Per usare una curiosa battuta di Einstein, «sottile è il Signore, ma non malizioso», non desidera creare difficoltà alla ragione per il gusto di sconcertarla e fuorviarla. In realtà la disamina attenta, la valutazione fondata, l’analisi della ragione si coniugano con la fede secondo un procedimento genuino e fin necessario. Perciò chi ha una “fede robusta”, cioè un’àncora solida, può e deve interrogarsi e ricercare. È solo nel grigiore dell’indifferenza che l’interrogazione feconda si spegne e lascia eventualmente spazio al dubbio sarcastico.
Il poeta Giorgio Caproni in Arpeggio scriveva: «Cristo ogni tanto torna, / se ne va, chi l’ascolta? ... / Il cuore della città / è morto, la folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità». Si può, dunque, stendere una linea di demarcazione tra dubbio scettico e dubbio creativo, tra un dubitare a caduta libera e un dubitare che s’inerpica nelle domande profonde.
Victor Hugo scriveva: «Quando l’ombra cresce, è la fine della giornata. Quando il dubbio aumenta, è il tramonto della religione». Il criterio pratico suggestivo da adottare ce lo indica il creatore di Nero Wolf, il giallista americano Rex Stout, morto nel 1975: «Il dubbio è un buon cane da guardia solo se sai quando tenergli o levargli il guinzaglio». In conclusione ritorniamo al punto di partenza. Credere è un’esperienza complessa, così come complesso è lo stesso conoscere e il vivere umano. Non si esaurisce nell’accettazione razionale di una teoria perché, come ribadiva nei suoi Pensieri diversi il filosofo Ludwig Wittgenstein, «il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo». Così, come accade in ogni incontro o esperienza esistenziale sono in gioco molteplici fattori di evidenza e di rischio, di ragione e di amore, di adesione e di incertezza. Una vicenda che Dostoevskij ha splendidamente rappresentato nella celebre lettera del 1854 all’amica Natalia Fonzivina: «Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie». Ma all’oscurità subentra la luce, secondo quell’impasto che costituisce la realtà autentica della fede: «Dio, però, mi manda momenti nei quali mi sento totalmente in pace. In tali momenti io ho dato forma in me a un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice. Eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci».
In questo sfolgorare di luce, parallelo alla professione finale di fede di Tommaso, «Mio Signore e mio Dio!», si riesce a comprendere anche il paradosso dostoevskiano spesso citato, impressionante per la sua radicalità e per il suo procedere per absurdum: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, ebbene, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità!».
Card. Gianfranco Ravasi
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