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Il mio digiuno tra chi non ha niente

Padre Jean Ilboudo: «Il mio digiuno tra chi non ha niente». Eppure anche in questi casi il digiuno mantiene un senso profondo... Un missionario africano racconta il suo Mercoledì delle Ceneri in una terra afflitta dalla fame: «Un segno della disponibilità ad offrire a Dio tutto ciò che abbiamo»


Il mio digiuno tra chi non ha niente

da Teologo Borèl

del 01 marzo 2006

Come noto con il Mercoledì delle Ceneri inizia la Quaresima. Un tempo liturgico forte che la Chiesa chiede di vivere nel segno della riflessione e della penitenza. A cominciare proprio dalla giornata odierna, in cui i fedeli sono invitati all'astinenza e al digiuno. Segni cui fa esplicito riferimento il Papa nel Messaggio per la Quaresima 2006 in cui la scelta della rinuncia viene messa in relazione alla volontà di sviluppo e promozione umana dei popoli più bisognosi. Di fronte alle sfide della povertà, scrive Benedetto XVI, l'indifferenza e la chiusura nel proprio egoismo «si pongono in contrasto intollerabile con lo sguardo di Cristo». Invece - prosegue il Pontefice - «il digiuno e l'elemosina che, insieme con la preghiera, la Chiesa propone in modo speciale nel periodo della Quaresima, sono occasione propizia per conformarci a quello sguardo».

Un'analisi che padre Jean Ilboudo ha fatto propria da tempo. «Il digiuno - spiega - è una forma di preghiera con il corpo, un modo per avvicinarci a Dio e sperimentare l'unione con lui e combattere i vizi ( gola, lussuria, superbia). Ciò vale per tutti i fedeli, anche per gli africani che quotidianamente sono costretti a far fronte alla carenza di cibo». Gesuita, africano, padre Jean Ilboudo è consigliere del padre generale e assistente per l'Africa, Di fronte a un sempre più marcata indifferenza rispetto al digiuno (soprattutto in Occidente), lui lo ripropone come una forma alta di spiritualità, espressione dalla generosità e dalla solidarietà del fedele.

Padre Ilboudo sul digiuno ha compiuto studi storici e teologici. Le sue riflessioni sono state raccolte in un libro: «Il digiuno cristiano. La Chiesa d'Africa riscopre il digiuno» (pubblicazione non in commercio, ma che può essere chiesta alla Curia generalizia della Compagnia di Gesù, Borgo Santo Spirito, Roma).

Secondo padre Ilboudo (nato in Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri del mondo, flagellato continuamente da siccità e crisi alimentari) per parlare di digiuno in Africa bisogna cambiare prospettiva e mettersi in un'ottica di fede e di generosità. A molti può sembrare assurdo parlare di digiuno laddove il cibo scarseggia. Eppure, secondo il gesuita, anche in questi casi, il digiuno mantiene un senso profondo. «Intanto - spiega padre Ilboudo -, in Africa i cristiani non sono gli unici a patire la fame. Al loro fianco soffrono migliaia di musulmani anch'essi poveri. E, pur soffrendo, durante il ramadan non toccano cibo durante il giorno. Quello del ramadan islamico è un modo attraverso il quale i musulmani esprimono la loro fede verso Dio. Ed è un grande esempio per i cristiani della Chiesa locale africana. Bisogna capire che il digiuno è una forma di sacrificio con la quale il fedele dimostra la sua generosità e la sua disponibilità a offrire al suo Dio tutto ciò che ha. Una persona che digiuna è debole e non può più contare sulle sue forze, per questo si abbandona totalmente al Signore. In questo senso, il digiuno è una forma di preghiera con il corpo. Digiunando, io soffro e questa sofferenza mi avvicina a Dio». Ciò non è per forza legato a quanto una persona possiede. Padre Ilboudo cita il passo evangelico nel quale Gesù loda la povera vedova che offre al tempio tutto ciò che ha: due semplici monete di rame. «Ciascuno dona ciò che ha - prosegue padre Ilboudo - : che sia poco o che sia tanto. Gli africani hanno poco cibo, ma lo donano come un sacrificio che li porta all'unione piena con il Signore».

Certo, parlare di digiuno a chi ogni giorno deve far fronte alle carestie, alle siccità e alla perenne lotta per la sopravvivenza, pare crudele. «È ovvio - osserva padre Ilboudo -, che non si può parlare di digiuno alla popolazioni colpite dalla carestia. Non ha senso. Il digiuno può però essere proposto come modello o espressione di fede a tutta la Chiesa come forma di solidarietà verso chi sta soffrendo la fame. Come religiosi chiediamo alle comunità africane non colpite dalle carestie di digiunare e di donare ciò che risparmiano a chi ne ha più bisogno». Un'esortazione seguita, in questi giorni, da alcune comunità cristiane del Kenya dove molte parrocchie hanno digiunato e il cibo non consumato è stato inviato alle popolazioni delle regioni del Nord colpite da una carestia devastante che ha già causato centinaia di vittime. «Attenzione - sottolinea padre Ilboudo - le comunità cristiane dei primi secoli si comportavano già in questo modo. Ci sono testimonianze di cristiani molto poveri che, per aiutare i carcerati, digiunavano. Il cibo che non consumavano lo portavano nelle prigioni. Parlare di digiuno in questo senso significa parlare di una forma di solidarietà fra persone che donano il loro sacrificio ad altri che non hanno nulla. È un ulteriore simbolo di generosità».

Una solidarietà che potrebbe anche diventare un insegnamento universale. «La Chiesa cattolica - conclude Ilboudo - potrebbe essere il segno e il luogo di una autentica condivisione destando la coscienza cristiana attraverso il suo insegnamento e la sua testimonianza. Oggi, essa potrebbe essere un segno profetico, invitando coloro che possiedono ricchezze a condividere con quelli che hanno fame, invitando i fedeli a digiunare in vista di compartecipare e non soltanto di sbarazzarsi del superfluo. Essa insegnerebbe quindi ai ricchi ad aver fame, a orientarsi verso una vita più semplice, a ridurre i loro bisogni e a essere più attenti a coloro che sono in necessità o che vivono nella miseria. I ricchi potrebbero così arricchirsi aprendo i loro cuori 'alle gioie e alle speranze, alle sofferenze e alle angosce delle donne e degli uomini, specialmente dei poveri e degli afflitti» (Gaudium et Spes, 1).

Enrico Casale

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