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Il Nuovo Primo Maggio: nuove esigenze e nuove emergenze legate al mondo del lavo...

Ebbene la piazza, quella vera, presentava una ben diversa faccia del lavoro: quello flessibile, precario, quel lavoro, come si dice oggi, non standard. don Domenico Ricca


Il Nuovo Primo Maggio: nuove esigenze e nuove emergenze legate al mondo del lavoro

da Quaderni Cannibali

del 11 maggio 2010

 

           Oggi è il 1 Maggio. Come ogni anno, se non cade di domenica e se non sono preso da impegni pastorali, ad una certa ora vado in piazza alla celebrazione della festa dei lavoratori per raggiungere quanti arrivano dal corteo. E mi unisco così agli amici delle Acli, di cui sono, come si usava dire un tempo, l’Assistente Provinciale.

 

          È infatti anche il luogo di ritrovo di vecchi amici, che non si riesce più a rivedere, se non in momenti come questo. Quest’anno ci sono andato, soprattutto, per capire un po’ il clima che si respira sulla tematica del lavoro in questa Torino, un tempo città della Fiat e delle tute blu, che con la presenza storica e un tempo forte della fabbrica di automobili, ha fatto forse proprio per questo più fatica a diversificare le sue forme lavorative. Che il contesto sia cambiato e che non sia più il tempo di tute blu e delle industrie manifatturiere, te ne accorgi girando per la piazza. È da notare che in 30 anni la Fiat ha perso ca. 45 mila posti di lavoro. E sul palco si celebrano un po’ le solite ritualità dei discorsi e dei saluti, per altro poveri e poco ascoltati quest’anno, anche per l’assenza di personaggi di spicco del sindacato.

          Ebbene la piazza, quella vera, presentava una ben diversa faccia del lavoro: quello flessibile, precario, quel lavoro, come si dice oggi, non standard.

          Scrive il pubblicista e sociologo dell’Università di Urbino, Ilvio Diamanti: “Il primo maggio disturba anche - e soprattutto - perché il lavoro e i lavoratori appaiono, ormai, entità inattuali. Si dovrebbe parlare, semmai, del 'non lavoro'. Della disoccupazione reale e di quella implicita. Nascosta tra le pieghe dei lavoratori scoraggiati, che non risultano disoccupati solo perché, per realismo, non si 'offrono' sul mercato del lavoro. E per questo non vengono calcolati nei 'tassi di disoccupazione'. Ma anche dell'occupazione informale. E si dovrebbe parlare, ancora, degli imprenditori, piccoli e piccolissimi, che stentano a continuare la loro attività perché i clienti non li pagano, faticano ad accedere al credito. E non riescono a mantenere l'azienda e i dipendenti. Lavoratori e piccoli imprenditori 'disperati'. Per fare parlare di sé, per essere 'notiziabili', devono darsi fuoco, sequestrare i dirigenti, appendersi alle gru.”.

          Ed erano lì a manifestare, a Torino, tante facce di giovani, tanti volti di colore che con cartelli e volantini ti ricordavano che loro sono quelli che più la patiscono e la pagano questa precarietà. Tanta gente comunque, che a me, però, sembrava ancora piena di speranza, con dentro ancora la voglia di partecipare, di farsi sentire, che non accetta per nulla di diventare invisibile.

          E sì perché l’Istat in questi giorni ci ricorda che in un anno si sono persi 367 mila posti di lavoro, che il tasso di occupazione complessivo è pari al 56,7 %, e quello di disoccupazione ha raggiunto l’8,8%. Quello di disoccupazione giovanile invece è pari al 27,7% (in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009), mentre il numero di inattivi di età compresa tra 15 e 64 anni, è pari a 14 milioni 907 mila persone, 239 mila in più dell’anno scorso. È così si parla di “trappola della precarietà: lavoro discontinuo e scarse tutele di welfare, di “lavoro non standard”.

          La diffusione del “lavoro non standard” in Italia rappresenta un tema di rilevanza cruciale nel dibattito pubblico italiano soprattutto alimentato dalla Riforma Biagi del 2003. La ricerca “Tra imprese e lavoratori”, condotta dall’Isfol tra il 2005 e il 2007, ha preso in esame circa 1000 piccole e medie imprese presenti in Italia. Ebbene, dall’analisi piuttosto tecnica e quantitativa risulta che i contratti atipici nel 2008 hanno riguardato oltre 4 milioni di lavoratori, circa il 20% del totale degli occupati. Tra l’altro, prosegue la ricerca, le politiche governative dovrebbero “sporcasi le mani” per tendere verso soluzioni creative e possibili per chiunque si immette nel mondo del lavoro anche in tempi di crisi”.

          Lo so, sono problemi che paiono esulare dalla nostra competenza, ma questi “precari” sono per lo più giovani. Anch’essi destinatari della nostra azione educativa, pastorale e sociale.

          Chi sta sul campo, chi ci vive in certi quartieri e zone della città, si misura ogni giorno con queste storie di vita, storie di precarietà, di difficoltà quotidiana, di rischio o di tentazione di uscirne con scorciatoie o strade, che a prima vista sembrano più facili, e in realtà sono estremamente più rischiose.

          Ma il Don Bosco dei primi anni, è quello che va a Porta Palazzo, che brulicava “di merciai ambulanti, di venditori di zolfanelli, di lustrascarpe, di spazzacamini, di mozzi di stalla, di spacciatori di foglietti, di fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri fanciulli che vivacchiavano alla giornata sul loro magro negozio.… La maggior parte dei quali, non avendo appresa alcuna professione, crescevano amanti dell’ozio e del giuoco, dati al furto di borse e di fazzoletti”.

          E che fa don Bosco? “… D. Bosco adunque tutte le mattine recavasi su questa piazza e… si fermava qua e là presso i varii gruppi eccitandoli al riso con qualche facezia, domandando loro notizie della sanità, o del guadagno fatto nel giorno precedente; e nello stesso tempo dimostrava il suo vivo gradimento di averli incontrati; anzi talora diceva come fosse passato a bell’apposta in quel luogo pel desiderio di vederli e di salutarli. A poco a poco li conobbe tutti per nome e parlava loro colla dimestichezza che un padre usa coi proprii figli, della necessità di guadagnarsi il paradiso”.

          Per chiudere credo allora che non si può che condividere quanto ricordano i vescovi italiani nella nota sul 1 maggio. Mons. Arrigo Miglio, presidente della Commissione per il lavoro e problemi sociali della Cei, dai microfoni di Radio Vaticana ha sottolineato come «abbia ancora senso celebrare il primo maggio». È infatti «un’occasione importante per puntualizzare e fissare l’attenzione sui gravissimi problemi che riguardano il mondo del lavoro e direi, il lavoro, in modo particolare». Il vescovo di Ivrea ha puntato il dito sul «numero dei cassaintegrati con poche o scarse speranze di poter rientrare al lavoro in tempi ragionevoli».

          Ma anche sul «numero delle persone in ansia per il futuro delle famiglie» e su una «disoccupazione che cresce, come testimoniano i dati». Perché, prosegue il responsabile del lavoro della Cei, «il dato preoccupante è quello dei giovani, con un tasso del 25% di disoccupazione; mi pare - ha aggiunto - davvero il dato enorme da tenere presente». «Ci sono comunque – ha poi spiegato - diritti fondamentali che assolutamente non possono essere messi in discussione. Ed ancora: «siamo in un Paese che ha bisogno» ma anche «voglia di crescere, … Ci sono tante potenzialità: che il primo maggio diventi la festa di tutte le potenzialità che il nostro Paese ha e che lo fanno ancora ricco, nonostante la crisi». Questo è l’augurio finale dei vescovi. Devo dire che si è aggiunto così un altro valido motivo per trovarmi in piazza questa mattina. Così mi permetto di offrirvelo come strumento di riflessione.

don Domenico Ricca

http://www.federazionescs.org

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