Ma il Natale è ancora una festa cristiana? Mi sono posto questa domanda quando mi è stato chiesto che cos'è Natale per l'ateo che non crede, per l'agnostico che non sa se Dio c'è, per il laico che nelle sue scelte etiche che prescinde dalla nozione di Dio? E la risposta che mi sono dato guardando le pratiche natalizie degli acquisti e dei consumi è che nella nostra cultura il Natale è già ateo, o se preferite agnostico, certo profondamente laico.
del 01 gennaio 2003
Di cristiano è rimasto solo rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun’altra, e davvero “comandata”.
Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in recessione, resta comunque un’economia dell’opulenza dove il consumo e la spreco sono sotto gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività. E allora come conciliare la cultura cristiana che (soprattutto oggi nella sua accentuata contrapposizione alla cultura islamica) tutti individuano come forma dell’Occidente, con il livello di ricchezze e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?
Come conciliare l’etica della moderazione, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia caratterizzata da un’economia di sussistenza, con l’opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo dei beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro moderazione) è un fatto economico, e dove la gratificazione dei desideri, quando non dei vizi, è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti? Come si fa a essere cristiani e quindi morigerati in un’epoca dove la società e aggregata dall’economia, che per la sua sussistenza non chiede moderazione ma consumo e soddisfazione? Varrebbe la pena di far esplodere questa contraddizione che di solito non appare perché un piccolo trucco la nasconde. Dice trucco: il cristianesimo é una ‘religione”, l’economia é una “forma di scambio” con cui si regola la produzione la distribuzione dei beni. Certo. Ma potremo anche dire: il cristianesimo è una morale (della moderazione) e l’economia è un’altra morale (della soddisfazione smodata).
Le due morali sono incompatibili, per cui parlare di un’economia cristiana ha lo stesso significato spessore logico di un circolo quadrato, con buona pace di tutti i benpensanti che ritengono di poter fare quadrare il cerchio.
Nel momento infatti in cui la società è passata dallo stato di bisogno allo stato di soddisfazione smodata del bisogno, la morale del cristianesimo ha finito la sua storia, e quindi o emigra nel Terzo o nel Quarto mondo dove vive la mortificazione del bisogno, o sparisce. E già se ne vedono i segni facilmente leggibili se si evita quell’altro trucco che, contrapponendo la civiltà cristiana alla civiltà islamica, nasconde la vera contrapposizione che tra la ricchezza dell’Occidente e la povertà del resto del mondo.
Per questo un sottile, ma pervasivo senso di colpa, connesso al nostro privilegio, accompagna gli acquisti natalizi con cui nelle nostre case allestiamo l’albero di Natale. Simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere, e che perciò ha preso il posto del presepe cristiano che è invece uno spettacolo della povertà. Dalla stalla dov’è nato Gesù il senso del Natale cristiano s’è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un laico, ma: che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell’Occidente “cristiano”?
Se poi vogliamo essere più radicali dobbiamo chiederci: è ancora possibile essere cristiani in Occidente? Non è forse questo il dubbio che tormenta il Papa quando, come ha fatto qualche giorno fa, ha preso a parlare del silenzio di Dio che, disgustato dal modo con cui gli uomini regolano i rapporti tra loro, ha distolto il suo sguardo per nascondersi nel suo cielo? Perché a questo grido del Papa si sono rivelati sensibili soprattutto i laici (si legga a questo proposito una significativa riflessione di Eugenio Scalfari i sull’Espresso di questa settimana) e meno i cristiani che al silenzio di Dio hanno risposto con il loro silenzio? Non si trovano più a casa loro nell’Occidente cristiano? Non sanno più come conciliare i valori dell’Occidente con i loro valori? Non basta un po’ di volontariato quanto mai benefico, ma decisamente insufficiente, per attutire gli inconvenienti che nascono dalla logica ferrea del mercato che non prevede il dono, ma la rigida contrattazione. Così come non basta fare dei “doni” a Natale per mascherare la legge economica del profitto che governa l’Occidente. No non basta. E allora diciamolo: l’Occidente forse non è più cristiano e la completa laicizzazione del Natale, la festa cristiana per eccellenza, è solo una conferma che il cristianesimo in quella sua vera essenza che è l’amore per il prossimo, lontano o vicino che sia, in Occidente non ha più casa, non è chiesa, nè luogo dove trovare espressione.
Non è un caso anzi a me pare via alto valore simbolico il fatto che per il secondo anno consecutivo la chiesa della Natività a Betlemme sia sotto assedio e guardata a vista dai carri armati dello Stato d’Israele. Fino all’anno scorso, prima che questa chiesa facesse la sua comparsa su tutti gli schermi televisivi, erano pochissimi, nell’Occidente cristiano, a conoscerne l’esistenza. Eppure quella chiesa, per i cristiani, circoscrivere il luogo della nascita di Gesù che ogni anno la festa di Natale ricorda come atto fondativo del cristianesimo. Che significa l’assedio di quella chiesa che sorge in terre di povertà? Non raccoglie in un punto la metafora letterale dell’attuale condizione del mondo? E allora perché la sua simbolica langue inespressiva nelle coscienze dell’Occidente cristiano, notizia smarrita tra le tante che, nell’indifferenza generale, giungono da terre che l’Occidente considera straniere?
Non guardiamo al Natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c’è provvisorietà e anche un po’ di inganno. Una festa può essere così universale solo se coglie il senso originario della nostra esistenza, non solo semplicità e innocenza che, nel disincanto del mondo, ormai non ci appartengono più.
Messi al margine del mondo che ogni giorno abitiamo, a contatto con l’origine della nostra esistenza, a Natale proviamo la vertigine di chi si trova per un giorno e a sua insaputa gettato lungo la via faticosa della ricerca di senso, della direzione della nostra esistenza, con l’amara sensazione che il teatro del mondo ci preveda come semplici marionette, mosse da voleri che ci sovrastano e ci. impongono, loro sì, una direzione ignota.
E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo della speranza che il cristianesimo ha inaugurato si fa così lontano da diventare estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della casualità della vita.
La separazione dei sensi e dei significati ultimi dell’esistenza, che a Natale in mille chiese vengono ripetuti, è avvenuta definitivamente, senza neppure l’inquietudine della crisi, senza il gusto di vivere questo tormento, nuova ed eccitante maniera di percorrere il nostro tragitto, che a Natale ci porta ritualmente nella grotta di Betlemme dove, per i cristiani, il divino si è fatto terreno, e la terra è diventata da dimora di Dio. Allora tempo si è spaccato in due: prima e dopo Cristo. La natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Il tempo, reso gravida di senso, ha cessato di essere puro e indifferente «divenire» ed è diventato “storia”.
In questo modo il cristianesimo si è separato dalle mitologie primitive che vedono il tempo a partire da un paradiso perduto, in attesa di un possibile ritorno in cui può prendere forma la figura della salvezza, perché il cristianesimo proietta la salvezza in un possibile futuro a cui si agganciano sia l’utopia, sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurato dal cristianesimo, si contamina con l’ateismo della speranza.
Per lontane che possano sembrare utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo “dopo” Cristo, scavano il motivo della speranza, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzschiano “tempo senza meta”.
L’Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità che, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, ha sempre celebrato nel Natale non il ritmo del “ritorno”, ma l’atmosfera della “rinascita”, l’entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
È ancora in circolazione questa promessa che è tutta cristiana? A me pare di no. Domani rivedremo in terra d’Israele e Palestina quel che già abbiamo visto ieri, tra poco assisteremo con tutta probabilità a una guerra a cui abbiamo già assistito dieci anni fa. Oggi, di nuovo c’è solo il terrorismo, ma il terrorismo, ognuno lo percepisce, è proprio il collasso della speranza. E allora dov’è il cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo annunciando proprio alla speranza? In Occidente se n’è persa la traccia. Resta solo la memoria della sua origine, di cui ogni anno a Natale se ne festeggia la ricorrenza, con il disagio di chi si appresta a celebrare una festa cristiana con un anima che, ormai da tempo, cristiana non è più.
Non so se questo sia un bene o un male. È semplicemente così. Ma se riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge del mercato ed è disposta ad ospitare solo qualche deroga in forma di elemosina, beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al nostro privilegio che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo), allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta identificare l’Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione.
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