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IL SIGNORE È VICINO A CHI HA IL CUORE FERITO (SALMO 34,19). Lettera agli sposi i...

Voglio dirvi che non ci possiamo considerare reciprocamente estranei: voi, per la Chiesa e per me Vescovo, siete sorelle e fratelli amati e desiderati. E questo mio desiderio di entrare in dialogo con voi scaturisce da un sincero affetto e dalla consapevolezza che in voi ci sono domande e sofferenze che vi appaiono spesso trascurate o ignorate dalla Chiesa... (+ Dionigi card. Tettamanzi).


IL SIGNORE È VICINO A CHI HA IL CUORE FERITO (SALMO 34,19). Lettera agli sposi in situazione di separazione, divorzio e nuova unione

da Teologo Borèl

del 28 gennaio 2008

Carissimi fratelli e sorelle,

da molto tempo coltivo il desiderio di rivolgermi a voi, con una modalità il più possibile diretta e personale.

Mi piacerebbe, infatti, chiedervi il permesso di entrare come un fratello in casa vostra e domandarvi un po’ del vostro tempo.

Lo faccio ora con questa mia lettera, che vuole essere semplice e familiare, quasi una richiesta di potermi sedere accanto a voi per un dialogo, che spero vi torni gradito e possa anche continuare nel tempo.

Quanti tra voi sono credenti e sentono di appartenere alla Chiesa riconoscono nel Vescovo anche un padre e un maestro. E a me Vescovo stanno molto a cuore anche quei battezzati che forse non si considerano più credenti o che si sentono esclusi, per incomprensioni o delusioni, dalla grande comunità dei discepoli del Signore.

Vorrei dunque incontrare gli uni e gli altri e con tutti voi aprire un dialogo per condividere qualcosa del vostro vissuto quotidiano; per lasciarmi interpellare da qualcuna delle vostre domande; per confidare i sentimenti e i desideri che nutro nel mio cuore nei vostri confronti.

Proprio così: leggendo queste pagine, voi aprite un poco la vostra porta di casa e mi permettete di entrare! Ma anch’io, scrivendo queste pagine, mi apro a voi nel desiderio di una reciproca confidenza.

 

 

La Chiesa è a voi vicina

 

Anzitutto voglio dirvi che non ci possiamo considerare reciprocamente estranei: voi, per la Chiesa e per me Vescovo, siete sorelle e fratelli amati e desiderati. E questo mio desiderio di entrare in dialogo con voi scaturisce da un sincero affetto e dalla consapevolezza che in voi ci sono domande e sofferenze che vi appaiono spesso trascurate o ignorate dalla Chiesa.

Vorrei allora dirvi che la comunità cristiana ha riguardo del vostro travaglio umano.

Certo, alcuni tra voi hanno fatto esperienza di qualche durezza nel rapporto con la realtà ecclesiale: non si sono sentiti compresi in una situazione già difficile e dolorosa; non hanno trovato, forse, qualcuno pronto ad ascoltare e aiutare; talvolta hanno sentito pronunciare parole che avevano il sapore di un giudizio senza misericordia o di una condanna senza appello. E hanno potuto nutrire il pensiero di essere stati abbandonati o rifiutati dalla Chiesa.

La prima cosa che vorrei dirvi, sedendomi accanto a voi, è dunque questa: “ha Chiesa non vi ha dimenticati. Tanto meno vi rifiuta o vi considera indegni”.

Mi vengono in mente le parole di speranza che Giovanni Paolo II rivolse alle famiglie provenienti da tutto il mondo in occasione del loro Giubileo nel 2000: “Di fronte a tante famiglie disfatte, la Chiesa si sente chiamata non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia”.

E allora se avete trovato sul vostro cam­mino uomini o donne della comunità cri­stiana che vi hanno in qualche modo ferito con il loro atteggiamento o le loro parole, desidero dirvi il mio dispiacere e affidare tutti e ciascuno al giudizio e alla misericordia del Signore.

In quanto cristiani sentiamo per voi un affetto particolare, come quello di un genito­re che guarda con più attenzione e premura il figlio che è in difficoltà e soffre, o come quello di fratelli che si sostengono con mag­giore delicatezza e profondità, dopo che per molto tempo hanno faticato a comprender­si e a parlarsi apertamente.

 

 

La vostra ferita è anche nostra

 

Vorrei ora essere capace di ascoltare le vostre domande e le vostre riflessioni.

Anche noi uomini di Chiesa sappiamo che la fine di un rapporto sponsale per la maggior parte di voi non è stata decisione presa con facilità, tanto meno con leggerez­za. È stato piuttosto un passo sofferto della vostra vita, un fatto che vi ha interrogato profondamente sul perché del fallimento di quel progetto in cui avevate creduto e per il quale avevate investito molte vostre energie.

Certamente la decisione di questo passo lascia ferite che si rimarginano a fatica. Forse si insinua persino il dubbio sulla possibilità di portare a termine qualcosa di grande in cui sì è fortemente sperato; inevitabile sorge la domanda sulle eventuali reciproche responsabilità; acuto si fa il dolore di esser­si sentiti traditi nella fiducia riposta nel compagno o nella compagna che si era scel­to per tutta la vita; si è presi da un senso di inadeguatezza verso i figli coinvolti in una sofferenza di cui essi non hanno responsabi­lità.

Conosco queste inquietudini evi assicu­ro che esprimono un dolore e una ferita che toccano l’intera comunità ecclesiale.

La fine di un matrimonio è anche per la Chiesa motivo di sofferenza e fonte di inter­rogativi pesanti: perché il Signore permette che abbia a spezzarsi quel vincolo che è il “grande segno” del suo amore totale, fede­le e indistruttibile?

E come noi avremmo forse dovuto o potuto essere vicini a questi sposi?

Abbiamo compiuto con loro un cammi­no di vera preparazione e di vera compren­sione del significato del patto coniugale con cui si sono legati reciprocamente?

Li abbiamo accompagnati con delica­tezza e attenzione nel loro itinerario di cop­pia e di famiglia, prima e dopo il matrimo­nio?

Queste domande e questo dolore noi li condividiamo con voi e ci toccano profonda­mente perché investono qualcosa che ci riguarda da vicino: l’amore, come il sogno e il valore più grande nella vita di tutti e di cia­scuno.

Penso che come sposi cristiani possiate comprendere in che senso tutto questo ci toc­ca profondamente.

Voi avete chiesto di celebrare il vostro patto nuziale nella comunità cristiana, vi­vendolo come un sacramento, il grande se­gno efficace che rende presente nel mondo l’amore stesso di Dio. Un amore totale, in­distruttibile, fedele e fecondo, come è l’a­more di Cristo per noi.

E celebrando il vostro matrimonio la comunità cristiana ha riconosciuto in voi questa nuova realtà e ha invocato la grazia di Dio perché questo segno rimanesse come luce e annuncio gioioso per coloro che vi in­contrano.

Quando questo legame si spezza la Chiesa si trova in un certo senso impoverita, privata di un segno luminoso che doveva es­serle di gioia e di consolazione.

La Chiesa quindi non vi guarda come estranei che hanno mancato a un patto, ma si sente partecipe di quel travaglio e di quel­le domande che vi toccano così intimamen­te.

Potrete allora comprendere, insieme ai vostri sentimenti, anche i nostri.

 

 

Di fronte alla decisione di separarsi

 

Vorrei ora mettermi accanto a voi e pro­vare a ragionare con voi sui molti passi e le molte prove che vi hanno condotto ad inter­romper è la vostra esperienza coniugale.

Posso solo provare a immaginare che prima di questa decisione abbiate speri­mentato giorni e giorni di fatica a vivere in­sieme; nervosismi, impazienze e insoffe­renza, sfiducia reciproca, a volte anche mancanza di trasparenza, senso di tradi­mento, delusione per una persona che si è rivelata diversa da come la si era conosciu­ta all’inizio.

Queste esperienze, quotidiane e ripetu­te, finiscono con il rendere la casa non più un luogo di affetti e di gioia, ma una pesan­te gabbia che sembra togliere la pace del cuore.

SÌ finisce con alzare la voce, forse anche con mancarsi di rispetto, trovare impossibi­le ogni concordia.

E si sente che non si può più continuare la vita insieme.

No, la scelta di interrompere la vita ma­trimoniale non può mai essere considerata una decisione facile e indolore! Quando due sposi si lasciano, portano nel cuore una feri­ta che segna, più o meno pesantemente, la lo­ro vita, quella dei loro figli e di tutti coloro che li amano (genitori, fratelli, parenti, ami­ci).

Questa vostra ferita anche la Chiesa la comprende.

Anche la Chiesa sa che in certi casi non solo è lecito, ma può essere addirittura inevi­tabile prendere la decisione di una separazio­ne: per difendere la dignità delle persone, per evitare traumi più profondi, per custo­dire la grandezza del matrimonio, che non può trasformarsi in un’insostenibile trafila di reciproche asprezze.

 

 

no alla rassegnazione

 

Davanti a una decisione così seria è im­portante, però, che non vincano la rasse­gnazione e la volontà di chiudere troppo rapidamente questa pagina.

La separazione diventi invece occasione per guardare con più distacco e forse con più serenità la vita coniugale. Non è oppor­tuno - ci insegna un saggio principio della vita spirituale - prendere decisioni definiti­ve quando il nostro animo è scosso da in­quietudini o burrasche.

Non è detto che tutto sia perduto: ci so­no forse ancora energie per comprendere che cosa è accaduto nella propria vita di coppia e di famiglia; forse si può ancora de­siderare e scegliere di cercare un aiuto sag­gio e competente per avviare una nuova fa­se di vita insieme; o forse c’è solo spazio per riconoscere onestamente delle responsabi­lità che hanno compromesso decisamente quel patto di amore, e di dedizione stipulato col matrimonio.

Ci sono, sempre, delle responsabilità. E se anche, spesso, le addossiamo volentieri all’ambiente, alla società, al caso, in verità sappiamo che ci sono anche le responsabi­lità nostre.

Anche se non voluti, anche se posti sen­za iniziale malizia ma solo per superficialità, ci sono gesti, parole, abitudini e scelte che hanno pesato e hanno determinato un certo esito della vita a due.

Quanti sposi si trovano soli e sentono questa situazione come una ingiustizia subi­ta: “Io non ne ho colpa! Io non volevo! Io ho fatto tutto il possibile!”.

 

 

La parola della Croce

 

A quanti, nella luce della verità, com­prendono di aver avuto una precisa respon­sabilità, anche grave, nel dissipare il tesoro del proprio matrimonio, vorrei fraterna­mente chiedere di accogliere l’appello dell’a­more misericordioso di Dio, che ci giudica con verità, ci chiama alla conversione, ci guarisce con la proposta di una vita nuova.

Riconoscere questa propria responsabi­lità non vuoi dire vivere in un inutile e dan­noso senso di colpa. Vuoi dire piuttosto aprire la propria vita a quella libertà e no­vità che il Signore ci fa sperimentare quan­do, con tutto il cuore, ritorniamo a Lui.

E tutto quello che è ancora possibile fa­re per porre rimedio alle conseguenze nega­tive che toccano la propria famiglia, per cambiare la propria vita... tutto questo deve essere fatto con coraggio e sollecitudine.

A quegli sposi, invece, che hanno mag­giormente sentito come ingiustizia subita la crisi del loro matrimonio, voglio dire che essi, in quanto cristiani, non possono dimenticare la dolorosa ma vivificante parola della Croce. Da quel terribile luogo di dolore, di abbandono e di ingiustizia il Signore Gesù ha svelato la grandezza del suo amore come perdono gratuito e come offerta di sé.

Come Vescovo, ed anzitutto come cri­stiano, non posso dimenticare questa Paro­la, ma sento il bisogno di offrirvela discreta­mente come una parola che, pur facendo sanguinare il cuore e la vita, non è senza frutto, e non è senza senso.

E se anche avete da portare in ogni ce­lebrazione eucaristica solo la vostra fatica a capire e a perdonare, in realtà avete già un grande tesoro da offrire, insieme a Cristo, nel memoriale della sua Croce: l’umile ab­bandono della vostra povertà.

Nelle vostre dolorose pagine di vita i bambini sono spesso tra i protagonisti inno­centi ma non meno coinvolti.

E lo sono anche i figli più grandi, che ve­dono crollare le loro certezze affettive nel­l’età delicata dell’adolescenza e spesso in­travedono con più difficoltà la realizzazio­ne, un domani, del loro sogno di amore.

Ma la speranza non viene meno: ogni giorno vediamo attorno a noi esempi eroici e ammirevoli di genitori che, rimasti soli, fanno crescere ed educano i propri figli con amore, saggezza, premura e dedizione.

Ringrazio queste mamme e questi papà che danno un grande esempio a tutti noi. Li ringrazio, li ammiro e spero proprio che le nostre comunità siano di sostegno nelle lo­ro eventuali necessità.

Nello stesso tempo voglio raccomanda­re a tutti i genitori separati di non rendere la vita dei loro figli più difficile, privandoli della presenza e della giusta stima dell’altro genitore e delle famiglie di origine. I figli hanno bisogno, anche seguendo le recenti garanzie legislative, sia del papa sia della mamma e non di inutili ripicche, gelosie o durezze.

Quanto fin qui ho detto per la situazio­ne di separazione, vale a .maggior ragione per chi ha fatto la scelta, talvolta subita e quasi ineluttabile, del divorzio e la scelta del divorzio seguito da una nuova unione. E va­le anche per chi non è stato coinvolto diret­tamente in una vicenda di separazione o di divorzio, ma vive una situazione di coppia con una persona separata o divorziata.

Anche pensando a queste persone vor­rei farmi un’ultima domanda, che mi sta molto a cuore e che desidero condividere con molta sincerità con voi.

 

 

C’è posto per voi nella chiesa?

 

Che spazio c’è, nella Chiesa, per sposi che vivono la separazione, il divorzio, una nuova unione?

E vero che la Chiesa li esclude per sem­pre dalla sua vita?

Anche se l’insegnamento del Papa e dei Vescovi in questo ambito è chiaro ed è stato riproposto molte volte, ancora capita di sentire questo giudizio: “la Chiesa ha sco­municato i divorziati! La Chiesa mette alla porta gli sposi che sono separati!”.

Questo giudizio è tanto radicato che spesso gli stessi sposi in crisi si allontanano dalla vita della comunità cristiana, per timo­re di essere rifiutati o comunque giudicati.

Voglio restare fedele al mio proposito di parlarvi con semplicità fraterna e senza dilungarmi troppo, e così vi ripropongo il punto decisivo di questa riflessione che è la parola di Gesù, alla quale, come cristiani, dobbiamo restare fedeli. In questa parola troviamo la risposta alla nostra domanda.

 

 

La parola del Signore sul matrimonio

 

Gesù ha parlato anche del matrimonio, e ne ha parlato con una radicalità tale da sorprendere gli stessi primi discepoli, molti dei quali probabilmente erano sposati.

Gesù afferma che il legame sponsale tra un uomo e una donna è indissolubile (cfr. Matteo 19,1-12), perché nel legame del ma­trimonio si mostra tutto il disegno origina­rio di Dio sull’umanità, e cioè il desiderio di Dio che l’uomo non sia solo, che l’uomo vi­va una vita di comunione duratura e fedele. Questa è la vita stessa di Dio che è Amore, un amore fedele, incancellabile e fecondo di vita, che viene mostrato, come in un segno luminoso, nell’amore reciproco tra un uo­mo e una donna. E così, afferma Gesù, “non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uo­mo non lo separi” (v. 6).

Da quel giorno la parola di Gesù non cessa di provocarci e anche di inquietarci. Già in quel momento i discepoli rimasero scandalizzati dalla prospettiva di Gesù, quasi protestando che, se il matrimonio è una chiamata così alta ed esigente, forse “non conviene sposarsi” (v. 10).

Ma Gesù ci incalza e ci da fiducia: “Chi può capire, capisca” (cfr. v. 11), capisca che questa esigenza non è fatta per spaventare, ma piuttosto per dire la grandezza cui l’uo­mo è chiamato secondo il disegno di Dio creatore.

Questa grandezza è esaltata poi quando il patto coniugale viene celebrato nella Chiesa come sacramento, segno efficace dell’amore sponsale che unisce Cristo alla sua Chiesa. Gesù non ci chiede l’impossibi­le, ci offre se stesso come via, verità, vita dell’amore.

Le parole di Gesù e la testimonianza di come egli ha vissuto il suo amore per noi so­no il riferimento unico e costante per la Chie­sa di tutti i tempi, che mai si è sentita auto­rizzata a sciogliere un legame matrimoniale sacramentale celebrato validamente ed espresso nella piena unione, anche intima, degli sposi, divenuti appunto “una carne sola”.

Ed è in questa obbedienza alla parola di Gesù la ragione per cui la Chiesa ritiene im­possibile la celebrazione sacramentale di un secondo matrimonio dopo che è stato inter­rotto il primo legame sponsale.

 

 

Il perché dell’astensione dalla comunione eucaristica

 

Sempre dal senso della parola del Signore deriva l’indicazione della Chiesa ri­guardo all’impossibilità di accedere alla comunione eucaristica per gli sposi che vivono stabilmente un secondo legame sponsale.

Ma perché?

Perché nell’Eucaristia abbiamo il segno dell’amore sponsale indissolubile di Cristo per noi; un amore, questo, che viene ogget-tivamente contraddetto dal “segno infranto” di sposi che hanno chiuso una esperienza matrimoniale e vivono un secondo legame.

Comprendete, così, che la norma della Chiesa non esprime un giudizio sul valore affettivo e sulla qualità della relazione che unisce i divorziati risposati. Il fatto che spesso queste relazioni siano vissute con senso di responsabilità e con amore nella coppia e verso i figli è una realtà che non sfugge alla Chiesa e ai suoi pastori. Non c’è dunque un giudizio sulle persone e sul loro vissuto, ma una norma necessaria a motivo del fatto che queste nuove unioni nella loro realtà oggettiva non possono esprimere il segno dell’amore unico, fedele, indiviso di Gesù per la Chiesa.

È chiaro che la norma che regola l’accesso alla comunione eucaristica non si riferisce ai coniugi in crisi o semplicemente separati: secondo le dovute disposizioni spirituali, essi possono regolarmente accostarsi ai sacramenti della confessione e della comunione eucaristica. Lo stesso si deve dire anche per chi ha dovuto subire ingiustamente il divorzio, ma considera il matrimonio celebrato religiosamente come l’unico della propria vita e ad esso vuole restare fedele.

È comunque errato ritenere che la norma regolante l’accesso alla comunione eucaristica significhi che i coniugi divorziati risposati siano esclusi da una vita di fede e di carità effettivamente vissuta all’interno della comunità ecclesiale.

 

 

Al cuore della vita di fede nel segno dell’attesa

 

La vita cristiana ha certo il suo vertice nella partecipazione piena all’Eucaristia, ma non è riducibile soltanto al suo vertice. Come in una piramide, anche se privata del suo vertice, la massa solida non cade, ma rimane.

Potersi comunicare nella Messa è certamente per i cristiani di singolare importanza e di grande significato, ma la ricchezza della vita della comunità ecclesiale, che è fatta di moltissime cose condivisibili da tutti, resta a disposizione e alla portata anche di chi non può accostarsi alla santa comunione.

La stessa partecipazione alla celebrazione eucaristica nel Giorno del Signore comporta anzitutto l’ascolto attento della parola di Dio e l’invocazione comune fatta allo Spirito perché ci renda capaci di riviverla con fedeltà nell’attesa del Signore che viene.

In particolare è proprio l’attesa della venuta del Signore e dell’incontro definitivo con lui che sta al cuore della fede cristiana, come ci dice la Chiesa nella sua liturgia immediatamente prima della comunione eucaristica: “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”. Egli infatti è già venuto, ma deve ancora venire e manifestare in pienezza la gloria del suo regno d’amore. E noi siamo già figli di Dio, ma ciò che realmente siamo non ancora è manifestato in tutto il suo splendore.

Vi chiedo perciò di partecipare con fede alla celebrazione eucaristica, anche se non potete accostarvi alla comunione: sarà per voi uno stimolo a intensificare nei vostri cuori l’attesa del Signore che verrà e il desiderio di incontrarlo di persona con tutta la ricchezza e la povertà della nostra vita. Non dimentichiamolo mai: la Messa comporta sempre per sua natura una “comunione spirituale” che ci unisce al Signore e, in lui, ci unisce ai nostri fratelli e sorelle che si stanno accostando alla sua mensa.

In una sua recente lettera il Papa Benedetto XVI, dopo aver riaffermato la non ammissibilità dei divorziati risposati alla comunione eucaristica, prosegue dicendo che essi “tuttavia, nonostante la loro situazione, continuano ad appartenere alla Chiesa, che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano dì vita attraverso la partecipazione alla santa Messa, pur senza ricevere la Comunione, l’ascolto della Parola di Dio, l’Ado­razione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo con­fidente con un sacerdote o un maestro di vi­ta spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli” {Sacramentum carità tu, n. 29).

Chiedo dunque a voi, sposi divorziati

risposati, di non allontanarvi dalla vita di fe­de e dalla vita di Chiesa.

Chiedo di partecipare alla celebrazione eucaristica nel Giorno del Signore.

Anche a voi è rivolta la chiamata alla novità di vita che ci è donata nello Spirito.

Anche a vostra disposizione sono i mol­ti mezzi della Grazia di Dio.

Anche da voi la Chiesa attende una pre­senza attiva e una disponibilità a servire quanti hanno bisogno del vostro aiuto.

E penso anzitutto al grande compito educativo che come genitori molti di voi so­no chiamati a svolgere e alla cura di relazio­ni positive da realizzare con le famiglie di origine.

Penso poi alla testimonianza semplice, se pur sofferta, di una vita cristiana fedele alla preghiera e alla carità.

E ancora penso anche a come voi stessi, a partire dalla vostra concreta esperienza, potrete essere di aiuto ad altri fratelli e so­relle che attraversano momenti e situazioni simili o vicine alle vostre.

In particolare per la situazione di alcu­ni di voi ripeto quanto ha scritto Giovanni Paolo IL “E doveroso anche riconoscere il valore della testimonianza di quei coniugi che, pur essendo stati abbandonati dal part­ner, con la forza della fede e della speranza cristiana non sono passati ad una nuova unione: anche questi coniugi danno un’au­tentica testimonianza di fedeltà, di cui il mondo oggi ha grande bisogno. Per tale motivo devono essere incoraggiati e aiutati dai pastori e dai fedeli della Chiesa” (Fami-liaris consortio, n. 20).

Con tutti voi, facendo mie le parole dei Vescovi delle altre Chiese di Lombardia, chiedo allo Spirito santo “che ci ispiri gesti e segni profetici che rendano chiaro a tutti che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio, che nessuno è mai da Dio abbandona­to, ma solo sempre cercato e amato. La con­sapevolezza di essere amati rende possibile l’impossibile” (Lettera alle famiglie, n. 28).

 

 

Il Signore, che è in mezzo a noi, vi è vicino

 

Vado a chiudere questa mia lettera, con cui ho cercato di mettere il mio cuore ac­canto al vostro, cari sposi che attraversate situazioni difficili, di crisi, di separazione o che vi siete risposati civilmente dopo il di­vorzio.

Non ho certo la pretesa di aver compre­so tutto quello che è nel vostro cuore, né di aver dato risposta alle molte domande che avreste da porre !

E tuttavia credo che abbiamo potuto ini­ziare un dialogo in cui comprenderci con più verità e amore reciproco. Spero possa essere un dialogo che continui, con la sem­plicità e l’amore che mi hanno guidato nel­lo scrivere questa lettera. Un canale privile­giato potrà essere quello del dialogo con i vostri sacerdoti.

Vi invito a cercarli, a dialogare con loro, ad aver fiducia in loro. Per alcuni di voi, for­se, non sarà facile ricostruire una relazione serena con la Chiesa se non dopo aver parlato con tutta libertà e sincerità con un sacer­dote di vostra fiducia.

Non chiedete ai sacerdoti di indicarvi soluzioni facili o scorciatoie superficiali. Cercate nei vostri preti dei fratelli, che vi aiutino a comprendere e a vivere con sem­plicità e fede la volontà di Dio: con voi sap­piano ascoltare la parola di Dio, che è esi­gente ma sempre vivificante; vi siano di aiu­to a proseguire, anche in questi momenti, nella comunione con la Chiesa.

Sempre in una prospettiva di dialogo, vi auguro di cuore di poter incontrare anche coppie e famiglie cristiane che, ricche di umanità e di fede, sappiano accogliervi, ascoltarvi e camminare insieme con voi sul­la strada che tutti siamo chiamati a percor­rere nella vita: quella dell’amore per Dio e per il prossimo.

Vi sono grato di avermi accolto real­mente nella vostra casa.

Prego con voi il Signore perché ci doni di poter sempre, tutti insieme come fratelli e sorelle nella stessa Chiesa, sperimentare la certezza consolante e incoraggiante che “il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Salmo 34,19) e che il suo amore è sempre in mezzo a noi!

 

 

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

card. Dionigi Tettamanzi

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