Noi oggi guardiamo a Francesco come a un uomo vissuto secoli fa, Dante invece parla di un uomo del suo tempo, ma sempre attuale.
Nella Divina Commedia il Poeta incontra personaggi antichi e moderni, famosi e semplici, parla con loro e soprattutto li fa parlare, dà loro la possibilità di raccontare se stessi e spiegare le proprie scelte, la propria vita. Ma stranamente il san Francesco di Dante è molto silenzioso!
Lo troviamo già in Inferno nel racconto della morte di Guido da Montefeltro:
«Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ‘ miei meschini”» (If XXVII 112-115).
Giunto al momento della morte di un appartenente al proprio ordine, Francesco rimane però muto e apparentemente impotente di fronte alla beffarda arguzia del diavolo che porta l’anima di Guido all’Inferno perché «assolver non si può chi non si pente» (v. 118).
In Paradiso invece il posto di san Francesco è nella Candida Rosa dell’Empireo sotto il Battista, con san Benedetto e sant’Agostino (Pd XXXII 35), nel luogo riservato ai fondatori degli ordini religiosi.
Quanto avremmo voluto ascoltare san Francesco, sentirlo parlare con le parole di Dante! E invece giunti al Cielo del Sole, fra gli Spiriti Sapienti, a raccontare la sua vita c’è san Tommaso, un domenicano, come nel canto successivo sarà un francescano, san Bonaventura a parlare di san Domenico.
Nel periodo in cui Dante scrive la Divina Commedia sono tante le agiografie francescane, in forma scritta o anche pittorica, basti pensare al ciclo giottesco. Il Poeta dedica al Santo 74 versi (Paradiso XI 43-117), il cui contenuto ci suona certamente familiare. Per bocca di san Tommaso Dante racconta della sua nascita ad Assisi, ma avverte di non limitarsi a chiamarla così «ché direbbe corto, / ma Orïente»; scrivendo «nacque al mondo un sole» istituisce una chiara identificazione tra Francesco e il sole, primo elemento cristologico di questa narrazione.
Poi racconta delle resistenze del padre nel gesto di spogliarsi delle ricchezze per una donna: «per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse» finché la sposò, «le si fece unito / poscia di dì in dì l’amò più forte». Chi è questa donna che san Francesco ha sposato? Dante vuole dirlo esplicitamente: «perch’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso». È la Povertà la donna che Francesco sposa: essa era vedova, «privata del primo marito, / millecent’ anni e più», proprio quel Gesù che accompagnò fino alla fine, tanto che «ella con Cristo pianse in su la croce». Ecco un secondo elemento di identificazione tra Francesco e Cristo.
Dante poi narra come il Santo d’Assisi sia andato avanti «con la sua donna e con quella famiglia», i primi monaci che lo seguirono, e racconta dell’approvazione della sua Regola da parte di papa Innocenzo III, scrivendo che «regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religïone»; Francesco chiede il permesso al Papa ma lo fa “regalmente”, cioè un re che va a chiedere il permesso, come Cristo che si sottomise pur essendo Re. Lo stesso avvenne per la Seconda Regola: «di seconda corona redimita / fu per Onorio da l’Etterno Spiro / la santa voglia d’esto archimandrita», il desiderio di questo pastore di monaci, fondatore di un ordine religioso, fu incoronato da papa Onorio III.
Poi parla della «sete del martiro» e di quando durante la Crociata «ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo». Tornò quindi in Italia e sul monte Averna «da Cristo prese l’ultimo sigillo», le stimmate, ennesima prova della sua comunanza con Lui.
Infine viene narrata la morte e anche qui domina la povertà: Francesco ai suo confratelli «raccomandò la donna sua più cara» e chiese di essere sepolto nella nuda terra «e al suo corpo non volle altra bara».
Qui termina il racconto dantesco della vita di san Francesco e istintivamente non possiamo non notare come manchino molti particolari resi famosi dalle sue agiografie: dai sogni profetici alla preghiera in San Damiano, dalla predica agli uccelli all’incontro con il lupo di Gubbio. Dante non ci racconta nulla di tutto ciò, invece insiste sulla biografia e in particolare su alcuni particolari che mirano a un’identificazione ben precisa: il sole, la povertà, la regalità, le stimmate sono tutti chiari elementi cristologici. Dante distingue nettamente tra leggenda e biografia e guarda esclusivamente a quest’ultima quando sceglie quali episodi della vita del Santo rappresentare: ed è in questo realismo che Dante coglie l’assimilazione a Cristo che Francesco ha vissuto nella sua vita.
Ecco perché san Francesco non parla nella Divina Commedia: egli ha già parlato con la sua vita, cos’altro potrebbe dire? Al contrario di altre anime che nell’Aldilà sono chiamate a spiegare, magari giustificare, la sua vita è stata limpida, egli in questo mondo ha vissuto il Vangelo, ha seguito Cristo così tanto da poter essere quasi identificato in lui. Capiamo anche il perché in Inferno rimanga muto di fronte al diavolo: come la vita stessa di Francesco spiega il suo posto in Paradiso, così la vita di Guido è stata chiara, come il diavolo che alla morte lo porta all’Inferno; lì Francesco non è impotente, al contrario è quasi fermo testimone di quanto una vita possa spiegare l’esito che essa ha nell’Aldilà. Ecco perché Dante dice che la sua «mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe»: è il suo stesso essere in Cielo a cantare la vita di Francesco!
La conformità con Cristo è il tratto fondamentale che Dante vuole riconoscere a san Francesco e gli basta il semplice racconto della sua vita, di quell’uomo vissuto una quarantina di anni prima che lui nascesse, che magari molti suoi conoscenti avranno visto e conosciuto e del quale, se così è, gli avranno parlato: nella Divina Commedia Dante ripropone semplicemente questa testimonianza, racconta in 74 versi l’esemplarità della semplice vita di Francesco ed è questa che parla per lui.
di Mauro Signorile
tratto da: vinonuovo.it
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